Roberto Mancini, senza mezze misure
A Roberto Mancini, da quarant’anni protagonista della scena calcistica – i primi venti da giocatore talentuoso e carismatico, ma spesso incompreso, i secondi venti da allenatore fascinoso e nevrile, ma discontinuo – Marco Gaetani, romano, classe 1987, ha dedicato una dettagliata biografia, Roberto Mancini, senza mezze misure, uscito nella ormai ricchissima collana “Vite inattese” della casa editrice 66thand2nd (256 pp., 18 euro).
Il libro ha avuto un effetto beneagurante: l’inaspettato trionfo alla guida degli azzurri agli Europei 2020 – ma in verità di inizio estate 2021 – ha finalmente designato il “Mancio” tra i vincenti. Sembra questa un’affermazione assurda, a voler guardare il palmarès di uno che, nella sua lunga vicenda tra campo e panchina, non è rimasto propriamente a digiuno di successi: da giocatore, due scudetti conquistati in piazze non abituate alla vittoria (Sampdoria, 1990-91, e Lazio, 1999-2000), e poi, sempre divisi tra blucerchiati e biancazzurri, sei Coppe Italia, due Supercoppe italiane, due Coppe delle Coppe e una Supercoppa UEFA; da allenatore, tre campionati italiani con l’Inter – il primo, 2006-06, assegnato d’ufficio al termine di Calciopoli e argomento annosa contesa nell’infinita faida tra juventini e interisti –, quattro Coppe Italia – una con la Fiorentina, una con la Lazio e due con l’Inter –, due Supercoppe italiane (Inter), un campionato inglese, una Coppa d’Inghilterra e una Community Shield – tutte col Manchester City – e, persino, una Coppa di Turchia col Galatasaray.
Eppure, fino alla primavera scorsa – momento in cui il libro d Gaetani è stato dato alle stampe – Roberto Mancini da Jesi era fuori dal Sancta Sanctorum delle figure calcisticamente indiscutibili, di quegli esemplari annoverati senza tema di smentite nel patrimonio collettivo della comunità pedatoria. C’è voluta la vittoria nel torneo continentale per fare passare in second’ordine – e forse dimenticare per un po’ – i numerosi argomenti secondo i quali il Mancio è un tipo scomodo, divisivo e, sostanzialmente, antipatico all’opinione pubblica calcistica.
Il libro di Gaetani è il frutto di un’accurata ricerca sulle fonti cronachistiche testuali – quotidiani, riviste, libri – e, risorsa negli ultimi anni quanto mai imprescindibile, sulle testimonianze-video che si possono reperire nell’archivio digitale della Rete. Mancini, fin dagli esordi, è stato prodigo di interviste, dichiarazioni, esternazioni, in cui ha quasi sempre avuto la meglio il gusto della polemica e della dialettica meno accomodante. Questo ne ha fatto una figura non banale nel panorama dell’umanità pallonara, sempre più appiattito e insapore. Non rinunciare quasi mai a esprimere quello che si pensa – che sia o meno nel “giusto” o quanto meno nella pertinenza di quello che si dice – ha aiutato senza dubbio a ricostruire la personalità esuberante e, nello stesso tempo, ombrosa del campione e poi allenatore jesino. Anche se, come rileva lo stesso Gaetani, questa generosa sovraesposizione mediatica non sempre è servita a rendere la complessità e, forse, la profondità del suo carattere.
Il libro dedica le pagine forse migliori agli anni degli esordi e, soprattutto, all’esaltante parabola del periodo doriano, lunga sedici stagioni (1982-97), con splendori e miserie, ascese agli altari e capitomboli nella polvere. Stagioni raccontate con un occhio più attento al dettaglio del contesto ambientale in cui veniva a formarsi una delle più sorprendenti vicende del calcio nazionale della seconda metà del Novecento: dalla costruzione di una società da parte dell’imprenditore petrolifero Paolo Mantovani ai successi ottenuti dalla squadra allenata dal tecnico serbo Vujadin Boskov e ricca di campioni italiani e internazionali, di cui proprio Mancini, insieme all’amico fraterno Luca Vialli, divenne presto l’anima e la guida carismatica.
I tre anni alla Lazio (1997-2000), non privi di colpi di scena, seppure cronologicamente meno significativi – e in cui peraltro l’autore è biograficamente, e sentimentalmente, più prossimo – avrebbero forse meritato un po’ più di respiro disteso nella narrazione. Anche la parte del Mancini allenatore – che oltretutto sarebbe la metà della sua storia sportiva fino a oggi – non gode dello stesso dettaglio di indagine. Meno efficace è la resa e l’interpretazione dei contesti in cui si svolge: dal fugace esordio in una piazza infuocata come Firenze al burrascoso biennio in una Lazio sull’orlo del fallimento; dal passaggio all’Inter di Moratti, restituita alla vittoria dopo anni di cocenti delusioni, al quadriennio al City, a gettare le basi di una futura superpotenza calcistica europea; e quindi l’incerto bordeggiare per acque malsicure e di poca soddisfazione tra Istanbul, ritorno nella Milano nerazzurra e San Pietroburgo, prima di approdare alla Nazionale per sfidare un luogo che, da calciatore, gli era sempre stato estraneo e, forse, ostile. Un luogo dove pare essersi lasciato alle spalle il ruolo di bizzoso condottiero – la lista delle persone con cui Mancini ha litigato, da allenatori a presidenti, da arbitri ad avversari e, qualche volta, anche compagni di squadra, da tifosi e a giornalisti, supera i trofei nella personale bacheca – per vestire i panni del maestro paziente e coraggioso nel dare fiducia ai giovani di talento nei quali, in qualche caso, gli capita di identificarsi. E nei confronti dei quali è riuscito a far agire un grande ascendente carismatico, al punto da aver fatto segnare, a oggi, il record di imbattibilità nella storia della Nazionale: una striscia di 37 partite senza mai perdere, interrotta pochi giorni fa dalla Spagna a San Siro.
Mancini è anche il primo CT della storia Nazionale a poter vantare un passato di calciatore al contempo vittorioso – lo furono Maldini e Trapattoni col Milan di Rocco e Conte con la Juve di Lippi – e talentuoso – forse soltanto Fulvio Bernardini, che venne escluso dalla Nazionale di Pozzo perché “troppo bravo” per giocare con gli altri.
Mancini vive in presa diretta l’evoluzione del mondo del calcio da imprenditoria sportiva a show-business e ne attraversa tutte le stagioni, prima calcando il terreno di gioco e poi passando a “dirigere” l’orchestra da una panchina. Manca forse allo scrupoloso affresco di una vita calcistica vissuta sempre in prima fila una recensione e una rielaborazione di testimonianze di prima mano da chi, magari in posizione più defilata, ne avrebbe potuto raccontare il carattere: ex compagni di squadra, collaboratori vecchi e nuovi, semplici comprimari alle gesta tecniche del protagonista, di cui peraltro si sottolinea ripetutamente l’importanza del fedele e amicale attaccamento.
Allo stesso modo i close-up di momenti particolarmente significativi della sua carriera di campione – gol, assist, altri episodi dentro e a margine delle partite – che vengono descritti con anatomica presa diretta e con apprezzabili effetti stilistici, spesso sono tuttavia “annegati” in tessuto connettivo che pare avere l’obiettivo di non perdere il filo del dato cronachistico – sequenze di risultati, cambi nella composizione delle rose, restituzioni evenemenziali forse non rilevanti – a scapito di un respiro narrativo che potenzialmente si percepisce nelle corde di chi scrive, ma che è stato un po’ timidamente come tenuto a freno.
Resta da chiedersi se figure come quella di Roberto Mancini, e di altri personaggi dello sport ancora agganciati a un’attualità così dinamica e, per questo, forse così sfuggente da renderne difficile la messa a fuoco narrativa, possano soddisfare le premesse che in origine informavano questa magnifica collana pensata per accogliere «biografie e autobiografie di personaggi il cui valore (sportivo, morale, civile) li ha resi un simbolo e un esempio per generazioni» e che, in virtù «di un’intrinseca forza narrativa» – e, va da sé, delle capacità di chi le restituisce al lettore – possano essere «raccontate con l’energia immaginifica e sognante dei grandi romanzi».