Linus, La Rinascente, Milano / Gregorietti e la grafica
Salvatore Gregorietti è figlio e nipote d’arte. Suo padre Guido era infatti un prestigioso curatore museale, mentre suo nonno, omonimo, è stato un noto pittore nella Sicilia di Ernesto Basile, che per lui ha progettato un delizioso villino Liberty a Mondello. E Salvatore non ha tradito il proprio DNA familiare, affermandosi, fin da giovanissimo, come uno dei più significativi graphic designer internazionali, apprezzato per la chiarezza visiva e la coerenza strutturale dei suoi progetti.
Da Palermo, città in cui è nato nel 1941, si sposta con la famiglia dapprima a Roma per poi approdare, a soli otto anni, a Milano, dove il padre era stato chiamato a dirigere il Museo Poldi Pezzoli. Conseguito il diploma di maturità artistica al liceo di Brera, prosegue gli studi al vorkurs della Kunstgebewerberschule (scuola di Arti e Mestieri) di Zurigo, nell’indirizzo di graphic design perché, a quel tempo, da noi questa specializzazione non era ancora stata introdotta. Sarà infatti soltanto nella seconda metà degli anni settanta che anche in Italia si apriranno scuole post-diploma superiore, private e pubbliche, con questo indirizzo di studio. Anche se Salvatore non conseguirà il diploma – si fermerà infatti in Svizzera un anno soltanto – verrà profondamente influenzato dalla lezione della Gute Form che era stata messa a punto dalla Swiss Graphic già a partire dalla metà degli anni cinquanta.
Teorico di questa concezione è stato Max Bill, primo rettore (1955-1956) della Hochschule für Gestaltung, meglio nota come Scuola di Ulm, per alcuni aspetti, erede del Bauhaus: “Forma – teorizza il maestro svizzero nel suo libro "Die Gute Form", pubblicato nel 1957 per la Schweizer MUBA (Mustermesse di Basilea) – è ciò che incontriamo nello spazio. Forma è tutto ciò che possiamo vedere. Ma quando sentiamo la parola forma o riflettiamo sul concetto di forma, esso significa per noi più di qualcosa che esiste per caso. Sin dall'inizio associamo al concetto di forma una qualità [...] Quando parliamo delle forme della natura pensiamo a quelle particolarmente ben riuscite. Quando parliamo delle forme della tecnica non ci riferiamo a forme qualsiasi ma a quelle considerate particolarmente valide." E continua: "A paragone dei beni di produzione, i beni di consumo sono oggi assai più soggetti alla moda di una volta. È questo un ambito che si è allargato fino a comprendere i mobili e le automobili. Il consumo è più rapido. E così, automaticamente, si abusa della forma, facendone un fattore di incremento delle vendite. Questo pericoloso sviluppo si manifesta chiaramente nello streamlining che oggi prende il posto una volta tenuto dall'ornamento. E se dunque oggi, per motivi estetici, reclamiamo nuovamente delle belle forme, non vorremmo essere fraintesi: si tratta sempre di forme vincolate alla qualità e alla funzione dell'oggetto. Si tratta di forme oneste, non di invenzioni per incrementare la vendita di prodotti dalla foggia instabile, soggetta alla moda."
È infatti proprio a partire dalla Germania e soprattutto dalla Svizzera, che il campo del graphic design viene investito, seppur tardivamente, da quel sovvertimento semplificatore che si era già manifestato agli inizi del Novecento nel mondo dell’architettura e in quello della produzione di oggetti d’uso (industrial design). Si ricordi, a tale proposito, il saggio pubblicato a Vienna da Adolf Loos nel 1908: Ornament und Verbrechen, (Ornamento e delitto), da cui, in un certo senso, ha preso avvio la rivoluzione del Movimento Moderno. Perseguendo configurazioni assolutamente svincolate dallo Zeitgeist, ovvero dalla moda del momento, che aveva invece ampiamente influenzato la cartellonistica e l’arte tipografica nella stagione del Liberty e in quella dell’Art Déco, a metà degli anni cinquanta, anche nella comunicazione grafica si iniziavano a ricercare forme funzionali, fattuali, impersonali ed obiettive, purché dotate di elevata valenza estetica, e comunque assolutamente scevre da ornamenti e da orpelli decorativistici.
I principi fondamentali di quella che è stata definita la Neue Swiss Graphic (sostenuti, oltre che da Max Bill, anche da Josef Müller-Brockmann, Hans Fischli, Max Huber, Verena Loewensberg, Richard Lohse, Hans Neuburg, Carlo Vivarelli e da molti altri) possono essere sintetizzati in quattro punti: a) forma disadorna, al servizio dell’efficacia della comunicazione; b) applicazione di una rigorosa gabbia di impaginazione; c) impiego dell’immagine fotografica in sostituzione dell’illustrazione di stampo pittorico; d) limitazione delle tipologie di caratteri, con una netta predilezione per quelli privi di grazie (sans-serif).
A tale proposito, proprio nel 1957 nascerà l’Helvetica, il logogramma progettato da Max Miedinger per la fonderia Haas di Münchenstein, diretta da Eduard Hoffmann. Inizialmente denominato Haas Grotesk, è caratterizzato dall’estrema eleganza, unita ad un elevato grado di neutralità e di tecnicismo, si tratta di un carattere tipografico assolutamente essenziale, che si potrebbe addirittura definire ‘puro’, perché dotato di un’ottima risolutezza formale e di alta leggibilità che a partire dagli anni settanta ha conosciuto largo impiego nel graphic design. Verrà infatti adottato in numerosi logotipi tra cui: Agfa, Agip, Aprilia, Bayer, BMW, Cassina, Epson, Fiat, General Motor, Harley Davidson, Henkel, Kartell, Kawasaki, Knoll, Lufthansa, Microsoft, Motorola, Nestlè, Panasonic, Sanyo, Superga, Sisley, Tamoil, Toyota e molti altri. È inoltre usato nella dicitura Polizia italiana e Carabinieri sulle divise e sugli automezzi di queste forze dell'ordine. (Per una storia dell’Helvetica: Lars Müller e Victor Malsy, Helvetica Forever: Story of a Typeface, Lars Müller Publishers, 2007).
È durante l’anno passato a Zurigo ad apprendere queste eccezionali novità che nasce anche il rapporto di amicizia tra Salvatore Gregorietti, Antonio Tabet e Oliviero Toscani, tramutatosi, con quest’ultimo, al rientro in patria (il Toscani di fermerà per quattro anni e conseguirà il diploma), in quel duraturo sodalizio professionale che li ha visti lavorare fianco a fianco in numerosi progetti per importanti aziende quali LaRinascente, Benetton e Prénatal.
La loro collaborazione muove i primi passi proprio a LaRinascente, dove si trovano ad operare immediatamente dopo quella stagione straordinaria che aveva visto cooperare con il prestigioso magazzino milanese anche i fratelli Castiglioni, Bruno Munari, Roberto Sambonet, Giancarlo Iliprandi, Amneris Latis, Lora Lamm, Serge Libiszewsky, Federico Patellani, Carlo Orsi, Mauro Masera ed Ezio Frea, con Giorgio Armani quale addetto al reparto abbigliamento maschile. A LaRinascente, Gregorietti lavora per l’ufficio pubblicità e comunicazione, con Pier Giorgio Brovelli (direttore commerciale) e con Adriana Botti Monti (art director), insieme ai fotografi Aldo Ballo, Serge Libis, Ugo Mulas e ovviamente all’amico Oliviero Toscani, arrivando a concepire progetti e oggetti che si qualificano come insuperati esempi di efficacia comunicativa non soltanto nella storia di quell’azienda ma anche in quella della grafica italiana.
Inizialmente Salvatore aveva lavorato per LaRinascente in solitaria e successivamente come componente dello studio Unimark International, al quale approda grazie ad Antonio Tabet, divenuto nel frattempo assistente di Heinz Waibl, che era amico di Massimo Vignelli, uno dei fondatori dell'agenzia, insieme a Bob Noorda, Franco Mirenzi, Mario Boeri. La Unimark International si è proposta sul mercato come pionieristico studio associato di design e di comunicazione globale. Nato a Chicago nel 1965, è arrivato ad aprire 11 uffici in 5 città del mondo (New York, Chicago, Detroit, Cleveland, Johannesburg e Milano, fra tutte la sede più longeva). Il nostro vi opera fin dalla sua fondazione, dapprima in qualità di assistente di Massimo Vignelli e, pochi mesi dopo, in quella di socio, occupandovisi soprattutto di immagine coordinata, di editoria, di packaging, di comunicazioni istituzionali e commerciali. Gregorietti a LaRinascente introdurrà importanti novità grafiche, soprattutto nell’impaginazione dei manifesti di grande formato, fino ad allora realizzati con il predominio dell’illustrazione. Lavorando gomito a gomito con fotografi quali Aldo Ballo e Oliviero Toscani, giungerà a conferire una valenza grafica alla fotografia stravolgendo anche quella che era la rigorosa impostazione “tipografica” di Unimark, propria soprattutto di Massimo Vignelli. Egli stesso ricorda: “Vignelli non avrebbe mai scelto di fare quello che io ho fatto per i poster della Rinascente, ma non per questo mancava di esprimermi la sua soddisfazione nel vedere certe composizioni; lui, in fondo, era più un grafico-tipografo, quindi meno legato di quanto ero io ad una visione ‘pittorica’, forse acquisita in famiglia, che mi rende sensibile alle immagini, soprattutto fotografiche”.
In quello scorcio di tempo compreso fra la metà anni sessanta e l’inizio dei settanta, sarà proprio la sua sensibilità artistica ad indurlo a tenere presente, in alcuni suoi progetti di manifesti, le coeve ricerche degli artisti cinetici, come ad esempio quelle del francese Victor Vasarely, come appare evidente, ad esempio, nel manifesto Buon Natale del 1965 per LaRinascente, con foto di Aldo Ballo, piuttosto che le ricerche visuali dello spagnolo Julio Le Pac, come si può dedurre dal manifesto Di corsa a scuola del 1967, sempre per LaRinascente e sempre con foto di Aldo Ballo. Gregorietti fa ancora ricorso ai moduli dell’arte cinetica (o sono forse le reminiscenze dei quadri di Giacomo Balla?) nei primi anni settanta, quando crea dei manifesti in cui mette in campo uno spezzettamento dell’immagine e una successiva riaggregazione dinamica dei segmenti di fotogrammi così ottenuti, non necessariamente in sequenza ovvia, ma semmai guidata dal superiore criterio dell’armonia compositiva. Si vedano a tale proposito quelli per la 32esima Biennale Cinema di Venezia del 1971, che comprendono anche quello del 30esimo Festival Internazionale del Teatro di prosa e quello del nono Festival internazionale del teatro per ragazzi, tutti con foto di Aldo Ballo.
Un palese riferimento alle ricerche dello spazialismo trapela invece dalla riuscitissima identità visiva della 35esima Biennale d’Arte di Venezia del 1970, sempre con Aldo Ballo come fotografo, dove appare evidente la citazione dei “buchi” di Lucio Fontana. Gregorietti, infatti, utilizzando l’Helvetica, costruisce il numero 35 praticando dei fori su una lastra che, retroilluminata, fa comparire il logo della rassegna disegnato dalla luce.
Per quanto riguarda la grafica editoriale, Gregorietti aveva iniziato ad occuparsene ancora giovanissimo, era infatti il 1963, quando Milano Libri (la nota libreria-casa editrice fondata l’anno precedente da sua sorella Annamaria, moglie dell'editore Giovanni Gandini, da Laura Lepetit, Franco Cavallone e Vanna Vettori) gli affidava la progettazione dei libri che pubblicavano, per primi in Italia, i fumetti dei Peanuts (Arriva Charlie Brown! con la prefazione di Umberto Eco e Il secondo libro di Charlie Brown, del 1964) e quindi, dal 1965, anche quella della rivista Linus, diretta dallo stesso Gandini, alla quale, oltre ad Eco, collaborano con i loro testi anche Oreste del Buono (OdB) ed Elio Vittorini.
“Oggi siamo abituati alla compresenza di testo e immagini, ma la messa in pagina di Gregorietti e Gandini era nuova e immediatamente «classica», anche per l’uso dell’Helvetica come carattere passepartout. Indimenticabili i colori delle copertine, riservate a un personaggio dei Peanuts, con qualche eccezione, solo a partire dal 1969, per Bristow e pochi altri.” (Alberto Saibene, La vera storia di Linus: leggi qui).
Dal 1980 al 1985, Salvatore Gregorietti insegna Aspetti propedeutici, storici e socio-economici della progettazione al corso interdisciplinare di Design presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara chiamato dall’allora suo direttore, Silvio Coppola (su Coppola, leggi qui).
Quest’esperienza didattica sarà per lui talmente fondante, da volerla raccogliere nel volume: “La forma della scrittura. Tipologia e storia degli alfabeti dai Sumeri ai giorni nostri”, pubblicato nel 1988 con Emilia Vassale da Feltrinelli e in seguito ripubblicato da Sylvestre Bonnard nel 2007. In esso è messa in relazione la forma dei caratteri impiegati nelle varie epoche storiche con la cultura figurativa, economica e tecnica del tempo che li ha generati. In seguito egli tiene corsi di graphic design anche allo IED e alla Scuola Politecnica di Design di Milano.
Da grande conoscitore dei caratteri tipografici, delle loro valenze comunicative e della loro storia, quando Gregorietti affronta una progettazione editoriale, sa sempre impiegare un font ad hoc, con le grazie o senza, optando immancabilmente per quello più idoneo a rendere leggibile, attraverso il proprio segno grafico, il proprio corpo e le proprie potenzialità compositive, il taglio culturale della casa editrice o della rivista cui sono destinati. Così, nel 1965 per la testata di Linus impiega il carattere tipografico Akzidenz Grotesk (prodotto nel 1896 per la fonderia H. Bertthold AG e rivisitato negli anni ’50 da Günter Gerhard Lang), carattere che riprende poi nel 1971 per la testata della rivista del “Movimento Studentesco” dell’Università Statale di Milano. Nel 1991-95, invece, per l’editore Anabasi, adotta il Futura tondo, il logogramma a bastoncino creato da Pul Renner negli anni trenta. Nel 1995, quando progetta le copertine dei libri per Sylvestre Bonnard, la sua scelta cade invece sul Garamond, nella versione aggiornata nel 1989 da Robert Slimbach per Adobe. Ma per gli annali della stessa casa editrice ricorre invece al mitico Bodoni, il più classico dei caratteri moderni. È sempre il Bodoni, alternato al Franklin Gothic, messo a punto agli albori del novecento da Morris Fuller Benton, ad essere da lui prediletto nel 1995-96, quando affronta il restyling del mensile “I democratici” di prodiana memoria. Mentre nel 1997 rielabora addirittura la grafia di Henry Matisse per la testata del mensile Canet, di De Agostini Rizzoli Periodici. Nello stesso anno, sarà il turno di un dosato connubio fra l’affidabile Adobe Garamond e il puro Helvetica a dar vita all’impaginato e alla copertina del periodico Thema per l’editore scolastico Bruno Mondadori. E questi sono soltanto alcuni esempi della sua indubbia sapienza in campo tipografico, confluita senza soluzione di continuità nella sua progettazione in digitale.
Unimark International aveva serrato i battenti nel 1977 e nel 1999 chiuderà anche la sede milanese; è allora che il nostro fonda la Gregorietti Associati, dove continua a riscuotere meritati successi per i suoi progetti. Difficile elencarli tutti, perché sono centinaia e tutti riuscitissimi nel loro intento comunicativo, sempre fedeli a quella semplicità geometrica nella composizione e a quell’approccio minimalista maturato nella lunga stagione di Unimark e poi affinato e perfezionato nelle successive, molteplici, esperienze lavorative. Ne sono un esempio la corporate identity del Museo Poldi Pezzoli, con quel capolavoro che è stata l’identità visiva della mostra Le dame dei Pollaiolo del 2014, dove ha sovrapposto, accostati, i profili scontornati dei quattro ritratti femminili del maestro fiorentino, provenienti dai musei di tutto il mondo, amplificando così l’effetto del marchio del Poldi Pezzoli, creato nel 1981 da Italo Lupi; o ancora la corporate identity della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli del 2013-15 (nel cui marchio ha ripreso il logotipo in Frutiger creato nel 1972 da Bob Noorda per la Feltrinelli, cui ha aggiunto, anteposti, i due moduli della F e della G nel medesimo carattere, il tutto reso in azzurro, in omaggio alla vitree trasparenze dell’edificio che la ospita la Fondazione, progettato da Herzog & de Meuron), ivi compresa la Carta di Milano; oppure l’immagine coordinata dell’ArteFiera di Bologna del 2005 (dove ha fatto ancora ricorso al grande competitor di Helvetica, il linusiano Akzidenz Grotesk), tanto per citarne soltanto alcuni, ma si possono trovare tutti nel volume recentemente pubblicato da Skira: “Salvatore Gregorietti: un progetto lungo cinquant'anni”, che, come recita il titolo raccoglie la sua opera omnia.
Apparentemente questo libro sembrerebbe un catalogo monografico, in realtà sarebbe più appropriato definirlo regesto, nell'accezione che il termine ha acquisito fin dal medioevo. E del tomo di origine medievale, possiede anche il pondus, dal momento che consta di 448 pagine riccamente illustrate. Si tratta di un regesto perché di fatto lo costituisce la raccolta in serie cronologicamente ordinata dei lavori di progettazione grafica, di product design e di comunicazione, realizzati da Salvatore Gregorietti nell'arco della sua carriera. Vi fanno da contrappunto saggi e testimonianze che ricostruiscono analiticamente non soltanto la storia artistica dell'autore siciliano precocemente naturalizzato milanese, ma anche quella della grafica italiana dagli albori degli anni sessanta fino ad oggi. Vi compaiono scritti di: Alberto Bassi, Fiorella Bulegato, Eleonora Charans, Ali Filippini, Marco Fornasier, Paolo Interdonato, Maddalena Dalla Mura, Mario Piazza, Sergio Polano, Stefano Salis, Dario Scodeller, Guido Valdini, Matteo Vercelloni, Carlo Vinti. E testimonianze di: Adriana Botti Monti, Carlo Feltrinelli, Annamaria Gregorietti Gandini, Matteo Gregorietti, Salvatore Gregorietti, Lucia Mosca Vecchia, Daniela Puppa, Renzo di Renzo, Alberto Saibene, Massimiliano Tarantino, Oliviero Toscani, Isa Tutino Vercelloni, Annalisa Zanni. Il progetto grafico e la copertina sono a firma dello stesso Salvatore Gregorietti e di suo figlio Matteo.
In tutte le fasi della sua lunga carriera, ad animare la progettualità di Salvatore Gregorietti, insieme al rigore compositivo e alla chiarezza comunicativa, è un dovizioso cromatismo. Così dichiara lui stesso in una sua memoria in cui parla di Massimo Vignelli: “Mi manca molto il suo modo di fare, quando, per esempio, dovevamo scegliere dei colori. Di partenza le sue coppie di colori erano il verde-blu e il rosa-arancio. Ma non era così rigido. Qualche volta si poteva fare anche il bianco-nero. […] Quando io trasgredivo un poco il suo Canon, facendo progetti, sempre rigorosi, ma che avevano una connotazione meno minimalista, li guardava attentamente e poi mi diceva che lui avrebbe fatto in modo diverso, ma che quel che avevo fatto gli piaceva moltissimo.”
Come dimenticare l’opulenta tavolozza delle sue copertine di Linus, con quei verdi acidi, gli arancioni accesi, gli scaramantici viola, gli ocra ambrati o i rossi vinosi? Per non parlare poi del ricorrente impiego del blu Klein o ancora di quell'improbabile rosa shocking stile Elsa Schiapparelli, adottato anche nel numero 55 di Ottagono con la foto di Marilyn Monroe e ripreso ancora nel 1980 nella fortunatissima copertina de “Il nome della rosa” di Umberto Eco per Bompiani. Gli è che Gregorietti non ha mai dimenticato la sua formazione artistica, come ammette lui stesso. È diventato graphic designer, uno dei migliori, si sa, con l’arte di suo nonno e quella di Brera nel cuore. I colori li mette dappertutto, non soltanto nei suoi interventi editoriali (si vedano le sue inconfondibili copertine di riviste, da Ottagono (per cui vince il Compasso d’Oro nel 1979), a Casa Vogue, da Linus a Tex, da Corto Maltese a Ubu, da Thema a Capital, etc.; a quelle per le case editrici: Albra Editrice, Anabasi, Aufidio, Bompiani, Sansoni, Sylvestre Bonnard, CEI, Emme Edizioni, Feltrinelli, Longanesi, Milano Libri, Arnoldo Mondadori, Bruno Mondadori, Skira, Sonzogno, Vallardi); nelle pubblicità (insuperabili le cromie per Benetton), ma anche nei logotipi. Quel verde oliva del logotipo dell’Istituto Bancario San Paolo, ad esempio (che, a suo tempo, avrà suscitato la disapprovazione di A. G. Fronzoni), ci sta. Ci sta eccome. Infonde fiducia. Insieme al sapiente lavoro di lettering, con le fusioni e gli accorpamenti fra le coppie di lettere che fanno subito ‘sodalizio’ e ‘comunanza’, suggerisce l'idea di ‘investimento’ ed anche quella di ‘risparmio’.
Gregorietti sa giocare molto bene con il colore, anzi, egli è abilissimo nell’impiegarlo e nel suo ampio utilizzo si identifica; non è un caso che nella copertina del regesto della propria opera lo abbia reso protagonista in modo così prorompente, tanto da far riecheggiare l'idea di un fuoco d'artificio variopinto o ancora di un gigantesco tubetto di tempere o di acrilici che, schiacciato, lasci fuoriuscire le paste cromatiche che contiene, alla stregua di un Vlaminck ma con lo sguardo razionalista di un Derain.
Salvatore Gregorietti è davvero un maestro della grafica, ma è anche, in un modo tutto suo, un maestro del colore.