Scuola di crisi
Sarà che non sta succedendo niente di rilevante rispetto alle aspettative del dopo-Gelmini: si parla di un concorso per nuove immissioni in ruolo, di digitalizzazione totale della burocrazia interna, sono uscite le materie degli esami di stato, ma di fatto nessun avvenimento smuove la scuola dal torpore che la attraversa e dalla disillusione di chi ci vive dentro. La vita scolastica procede con i suoi ritmi, i suoi riti e i suoi idiotismi, nel bene e nel male. Gli scrutini del quadrimestre segnano un momento di cesura nel percorso annuale e in genere ne viene amarezza per molti insegnanti, delusi dai risultati, e per gli studenti e i genitori, che vedono contabilizzato nella pagella il loro andamento. Un buon momento per chiedersi ‘a che punto è la notte?’.
Un giorno qualunque mi sento dire con estrema concitazione da un allievo sveglio ma svogliato, particolarmente incline alla superficialità e alla mancanza di rispetto del patto formativo: - Professore, ha visto De Falco che uomo? Che esempio di rigore e ordine e autorità! -. Gli studenti restituiscono in maniera brutale e semplificata i messaggi appena più sottili che dominano il discorso mediatico. Per tutti fin dal primo momento la tragedia della Costa Concordia è stata una variante del teatrino nazionale: Schettino, il responsabile del naufragio è l’esempio negativo dell’Italia, il simbolo della mediocrità della classe dirigente e la solita autobiografia della nazione, l’incompetenza, la sbruffoneria, il dongiovannismo; De Falco, il comandante che si è occupato dell’emergenza, è l’antidoto, il rigore, l’indignazione, la capacità di reagire, l’Italia che non ci sta (e che per farlo stampa magliette con scritto ‘Vada a bordo, cazzo!’ ).
Premetto che non so nulla di navigazione e di codici militari e che aspetterei l’inchiesta prima di dare giudizi e che allo stesso tempo non mi scandalizzo se nell’emergenza si abbandona il bon ton. Lascio perdere che finché non c’erano morti il comandante di una nave da crociera di quel tipo era oggetto di ammirazione e invidia; e lascio perdere che le Capitanerie di porto dovrebbero far rispettare le norme di sicurezza sulla navigazione. Quello che mi interessa è che quella telefonata tra Schettino e De Falco campeggia stabilmente sulla prima pagina di YouTubeda settimane e che per i miei studenti è diventata (anche se loro non la definirebbero così) una questione di antropologia del politico che chiama in causa il tema dell’autorità.
Con troppa facilità, una tragedia e i suoi retroscena sono diventati lo specchio di qualcos’altro, anche se a ben vedere il governo della nave e il naufragio sono un’allegoria che da Platone a Lucrezio a Pascal e oltre attesta il forte radicamento della metafora della navigatio vitae (si veda per questo il magistrale saggio di Hans Blumenberg, Naufragio con spettatore, Il mulino, 2001).
Dal discorso che si genera in classe percepisco ammirazione per uno stile di comando che risolve i problemi e mette le cose a posto, elevato a paradigma generale di comportamento. Sempre più studenti (e credo anche cittadini adulti) guardano con favore anche per il futuro a una tecnocrazia non-politica, ignorando che l’impoliticità non solo è impossibile ma è già un’opzione politicamente conservatrice. Sempre più studenti non capiscono cosa ci sia di male nell’assolutismo illuminato e scuotono la testa quando si parla di democrazia, imbevuti di nichilismo e di cinico pessimismo, come se si stesse parlando di sogni di altre epoche che hanno rivelato tutta la loro ingenuità e fragilità. E la questione investe la didattica: qualcuno mi ha detto che se chiacchierano e si distraggono in classe è colpa di noi docenti che non reagiamo con abbastanza durezza e che se ci sono le insufficienze è colpa nostra che non li puniamo abbastanza duramente: - Colpa vostra che ci avete illuso facendoci credere che fosse tutto bello! - ha perfino detto uno...
Provo a capire: laddove l’educazione è venuta meno ed è avvenuta una destrutturazione rispetto a sistemi di valori, con la delega implicita e totale ad altre forme di cultura (strada, palestra, discoteca, i media con il vacuo edonismo o il patetismo sensazionalista che si è fatto senso comune) l’educazione scolastica democratica viene scambiata per debolezza: consapevoli del disastro, all’essere trattati come soggetti autonomi e responsabili molti studenti sembrano preferire un approccio comportamentista con la delega implicita e paternalistica che credevamo inaccettabile e superata.
Di più. Si sentono presi in giro perché sono cresciuti nell’invito al più assoluto individualismo (salvo poi venire criticati e puniti quando cercano il godimento promesso) e non trovano più nulla in quello che si è palesato dopo che la nebbia mefitica del berlusconismo si è (in parte) diradata. Nessun futuro, hanno sedici-diciannove anni e stanno già pensando alla precarietà, ritagliandosi briciole di appagamento secondo gli schemi della cultura dominante. I più intelligenti e motivati stanno vagliando la strada percorsa già dai loro fratelli più grandi: andare all’estero... Sono i figli della devastante crisi morale e culturale, precedente quella economica e di essa concausa. La respirano, la vivono, la riflettono, la riproducono con i loro codici. La specifica alienazione della nostra tarda modernità si concentra e si riflette in modo perspicuo in loro. Sono l’esito della sovrapproduzione di informazioni, del bombardamento mediatico e del disorientamento sistematico che caratterizza i nostri anni. Le logiche conseguenze di decenni di stupidità sotto i nostri occhi.
Eppure la questione non si può ridurre al fatto che l’insegnante assuma atteggiamenti autoritarie aumenti le insufficienze e che si torni a bocciare, come qualcuno non smette di dire da tempo. Mi sembra che questa sia la scorciatoia della cultura di destra vecchio stile, quella basata sulla disciplina, che vorrebbe risolvere i problemi creati dalla ‘nuova’ cultura di destra, quella basata sul controllo dell’immaginario.
Un’educazione democratica, e realmente di sinistra, dovrebbe pensare altrimenti. Ascolto, comprensione, accoglienza sono le cose che i ragazzi chiedono insieme al rigore, alla precisione e alla cura di cui hanno bisogno, anche quando sembrerebbero rifiutarle, ma che riconoscono e apprezzano quando le trovano.
Che fare, dunque? Un suggerimento a caso, tra i tanti: già settant’anni fa Marc Bloch, uno dei più grandi storici del secolo, poco prima di morire fucilato dai nazisti pensava ai tratti essenziali di una riforma scolastica per la democrazia del futuro: investire economicamente sull’insegnamento, in stipendi e risorse; migliorare biblioteche e risorse per specialisti e a livello di base; migliorare gli edifici scolastici dal punto di vista della sicurezza e della vivibilità; fare in modo che gli insegnanti si occupino anche di ricerca e promuovere l’immagine positiva del lavoro intellettuale; eliminare l’idea che il sapere sia addestramento strategico a superare prove. Nel dopoguerra la democratizzazione della scuola sarebbe ripartita da lì. Poi le cose sono andate in un altro modo.
Serve priorità reale alla scuola e ai suoi soggetti. E comunque non basta: se è vero che una rinascita può ripartire dall’insegnamento non si può pensare che la scuola da sola possa contrastare decenni di cultura della crisi.