Se Nietzsche fosse un narvalo
Non è certo piacevole sentirselo dire. Ma se l’intelligenza che connota la nostra specie, fosse una maledizione? Se il nostro “eccezionalismo” fosse una condanna che, in cambio di un quarto d’ora di celebrità nell’immensità cronologica del piano evolutivo, ci stesse avviando ad una rapida estinzione, dopo aver fatalmente compromesso gli equilibri del pianeta? E se “le menti semplici” degli animali avessero individuato “soluzioni eleganti al problema della sopravvivenza”, ovviamente molto più funzionali delle nostre?
È su questa traccia che si muove il saggio del biologo americano – e grande esperto di delfini – Justin Gregg, significativamente intitolato Se Nietzsche fosse un narvalo (tradotto da Teresa Albanese e pubblicato da Aboca). Il suo presupposto è che sapiens abbia caratteristiche cognitive ed emotive diverse ma soprattutto più complesse (ma su questo aspetto le obiezioni possono essere numerose) della gran parte degli altri animali, ad eccezione dei grandi primati, dei corvidi e di alcuni cetacei. Come mai? A monte di tutto sta il “Grande balzo in avanti”, che 40 mila anni fa ci ha fatto diventare “gli specialisti del perché”. Abbiamo iniziato a indagare le cause di quanto vedevamo e, nello stesso tempo, come testimoniano le immagini della grotta di Sulawesi, in Indonesia, abbiamo cominciato a rappresentare i primi teriantropi, forse degli spiriti guida, con cui ci siamo interrogati sui motivi per cui il mondo esiste, e abbiamo dato il là alla realizzazione di oggetti via via più sofisticati. Da qui si è originato un vertiginoso effetto domino. Sapiens ha inserito nel suo corredo cognitivo l’immaginazione, che gli ha permesso di fare affermazioni e ipotesi sulle cose senza necessariamente averne fatto esperienza diretta. La sua (la nostra) mente si è riempita così di “fatti inerti” che gli hanno permesso di ipotizzare “un numero infinito di soluzioni a qualsiasi problema”. Ma quanto accade nella mia mente accadrà anche in un’altra mente. Pensare al pensiero altrui significa allora possedere una teoria della mente e fare della menzogna il mezzo per ingannare il prossimo, modificandone convinzioni e comportamenti. Se si è capaci di inventare “stronzate” (il termine è tecnico, lo usa in questa accezione il filosofo Harry Frankfurt) è sia perché l’evoluzione potrebbe aver selezionato questa capacità come stigma dell'intelligenza di chi le propone, sia perché noi siamo naturalmente disponibili a farci prendere per il naso. Ma c’è in particolare una capacità che abbiamo acquisito grazie alla forza dell’immaginazione, quella di anticipare “fino in fondo l’inevitabilità della morte”. Forse per mutazione, sapiens ha acquisito il gene della “sapienza della morte”, peraltro bilanciato dalla capacità di negare la propria mortalità. È l’estrema conseguenza del nostro continuo ruminare sulle cause che ci ha messo in condizione di svolgere il viaggio mentale nel tempo, esercitando la “previsione episodica”, ovvero la capacità di “proiettarsi nel futuro per simulare eventi immaginati e potenziali esiti”. Convivere con l’ombra della nostra inevitabile morte non sembrerebbe un vantaggio evolutivo, ma Gregg lo presenta come uno degli accessori che abbiamo preso a bordo con lo sviluppo delle capacità cognitive. E che, al di là dell’inquietudine ininterrotta, potrebbe essere all’origine sia della “nostra socialità condivisa”, sia dei “progetti di immortalità” trasmessi alle generazioni successive per mezzo della cultura. C’è ancora qualcosa. Esclusive di sapiens sono un’idea della morale fondata non solo su come dovremmo comportarci ma anche sul perché dovremmo farlo, e, soprattutto, la coscienza, intesa come capacità di prendere una decisione alla luce di un’esperienza soggettiva, trasformando le emozioni in sentimenti.
È in questo modo che abbiamo scavato il fossato tra noi e le altre creature. Sì, perché mentre noi ci siamo avviati sulla strada delle inferenze casuali, gli altri animali hanno continuato a prendere decisioni “meravigliosamente calzanti” con strategie più antiche, come le associazioni apprese o le inferenze diagnostiche, fondate sulla combinazione tra due eventi, per cui, data quella situazione, non se ne può che associare una che è già stata esperita. Non a caso gli animali non mentono anche se, attraverso il mimetismo batesiano, possono inviare segnali ingannevoli, come nel caso del Ceytus arietis, il coleottero che imita le strisce giallo nere delle vespe per sembrare pericoloso, o in quello dell’opossum, che finge di essere morto perché molti predatori non mangiano un cadavere. Per mentire è necessario il linguaggio (ma è assai discutibile l’idea che solo sapiens lo possieda). Così mentre la comunicazione animale “comporta segnali che veicolano informazioni su una gamma ristretta di soggetti, il linguaggio umano può veicolare informazioni su qualunque soggetto”. Del resto è improbabile che gli altri animali abbiano una teoria della mente, con rare eccezioni. Per cui gli animali non agiscono pensando cosa stia passando nella mente altrui, ma sulla base del comportamento di chi hanno di fronte. Appare anche piuttosto netta la distanza sul piano della percezione della morte. Come ha spiegato la filosofa Susana Monsò citata da Gregg, gli animali possiedono un concetto minimo della morte, incardinata sui due pilastri della non funzionalità dei corpi senza vita e della irreversibilità della condizione acquisita. Difficilmente potrebbero andare oltre, nonostante qualche eccezione come la manifestazione del lutto negli elefanti. Gli altri animali infatti, anche se “quasi tutte le creature viventi possiedono un concetto implicito del tempo integrato nel loro DNA” ed organizzato intorno alla giornata di ventiquattr’ore, non hanno “una consapevolezza esplicita del tempo”. Per cui gli animali che fanno programmi per il futuro, come le api e i corvi, agiscono sulla base di “pulsioni istintuali”. O se, come lo scimpanzè e la ghiandaia occidentale, riescono a compiere la previsione episodica, probabilmente non lo fanno nella stessa misura degli umani, servendosene soltanto per l’acquisizione di cibo. Una differenza appare anche sul piano del rispetto delle regole morali. Gli animali sociali seguono delle norme interiorizzate, regole tacite che determinano degli schemi di conformità comportamentale per “conservare un equilibrio sociale che minimizza la necessità di dolore, sofferenza e morte”. E, se si può riconoscere – come attesta la Dichiarazione di Cambridge del 2012 – agli animali di avere una coscienza intesa come esperienza soggettiva nel momento di prendere una decisione, è difficile poter attribuire loro la consapevolezza. Infine le emozioni, che pure gli animali sperimentano, sono in numero più ridotto rispetto alle nostre: come potrebbero, per esempio, provare nostalgia e senso di colpa senza il viaggio mentale nel tempo e la teoria della mente?
Se c’è questo fossato che ci divide dagli altri animali e fa di noi animali d’eccezione, il problema è capire dove ci ha condotto e dove ci condurrà l’intelligenza. Le abilità cognitive sono la nostra croce e delizia. Non si può ignorare che “a volte, le nostre presunte conquiste umane sono in realtà soluzioni abbastanza scadenti da un punto di vista evolutivo”. Spesso, in altre parole, abbiamo dato “pessime risposte alle domande sul perché”. Gregg ricorda come gli errori abbiano dato vita a ipotesi fallaci, quale la millenaria e sbagliatissima teoria degli umori in campo medico, o il poligenismo per spiegare le inesistenti differenze tra gli umani. O come, accendendo la sete di sapere, abbiano innescato processi distruttivi, quale l’invenzione del motore a combustione, conseguenza della domanda sui motivi per cui il calore fa muovere gli oggetti. Saper mentire è poi con tutta evidenza alla radice di luttuose propagande politiche e di inquietanti processi di disinformazione. Avere la “sapienza della morte” determina paure paralizzanti, gravi forme depressive, suicidi e, se può aver dato impulso a grandiosi o minimi “progetti di immortalità”, ha anche giustificato l’azione sconsiderata di leader assetati di sangue. E Il ragionamento morale? Spesso ha prodotto emarginazione e criminalizzazione. L’omofobia esiste solo tra gli umani, l’omosessualità non è contro natura. Infine si pensi ai nostri fiori all’occhiello, il linguaggio e la scienza. Certamente ci hanno consentito di compiere “imprese gloriose”, ma hanno anche diffuso “infelicità e distruzione”. Se a questo si unisce la “miopia prognostica”, ovvero l’incapacità di andare oltre gli esiti immediati, interessandosi davvero a quello che succederà in futuro, si può misurare quanto la nostra specie si sia avventurata su una strada pericolosa e “a seconda della direzione che prenderemo …l’intelligenza umana potrebbe rivelarsi la cosa più stupida che sia mai avvenuta”. Se per successo evolutivo si intende che una specie rimanga uguale a se stessa per un lungo periodo di tempo, diffondendosi il più possibile, la cognizione semplice è vincente. Né si deve dimenticare che l’evoluzione si sbarazza degli adattamenti fallimentari.