Fenomeni italiani / Silvio e Matteo, Umberto e Mike

24 Febbraio 2017

Silvio Berlusconi e Matteo Renzi sono stati i due presidenti del Consiglio dei ministri più rilevanti della vicenda politica italiana dell’ultimo quarto di secolo, a prescindere da qualsiasi giudizio di merito sulle loro figure e sul loro operato. Del resto, la loro salienza si è probabilmente determinata per critiche, biasimi e contestazioni più che per appoggi, lodi e celebrazioni e a renderli notevoli ha forse potuto l’odio più dell’amore. Dei due si è anche detto che siano stati sostanzialmente simili. Uno sguardo attento ma spassionato mostra erronea tale affermazione. Consente tuttavia di cogliere al tempo stesso la loro comparabilità, nella salienza percettiva. Fuori del politicamente opinabile, un confronto tra Berlusconi e Renzi è infatti possibile per opposizioni di valori marcati e non-marcati. È il metodo della linguistica migliore. Come si sa, lo si può estendere, con cautela e consapevolezza, a osservazioni sperimentali in altri domini dell’umano, dove mette ordine e consente di vedere più chiaro. Tutti sono infatti forme di espressione e, conseguentemente, di comunicazione. Nel caso specifico, inoltre, a chiamare in causa un confronto del genere sono proprio i modi di porsi nella vita pubblica delle due figure: per quel metodo, un’ideale palestra fuori dei suoi tradizionali laboratori e all’aria aperta.

 

Si osservi per esempio come il “tycoon” dei media e dell’industria dell’intrattenimento abbia esordito apertamente in politica (or sono ormai molti anni) appunto come figura non-politica, donde la sua celebre “discesa in campo”. Si è invece presentato sempre come figura squisitamente politica l’ex-presidente della provincia ed ex-sindaco della città di Firenze. Egli non ha avuto bisogno di entrare nell’agone politico. Vi è nato. L’impressione di un Renzi marcato e di un Berlusconi non-marcato è tuttavia fallace, in proposito. Per ambedue, si è trattato di un ruolo in un dominio politico e ciò rovescia i valori di marcatezza. In politica, il non-politico Berlusconi vale da termine marcato della correlazione e il politico Renzi da non-marcato. In realtà, le cose non stanno però nemmeno in modo così ovvio. Vi incide infatti anche una prospettiva diacronica. Alla non-politicità dell’uno, rivendicata come valore marcato e positivo (fosse autentica o no, poco importa), l’altro ha contrapposto in catena temporale non una politicità semplice ma, più specificamente, una non-non-politicità. Il suo valore di politico di professione, in altre parole, si è voluto rinnovato e trascendente, rispetto a un’opposizione dichiarata ipso facto come non più attuale, in una nuova fase presunta. 

 

Ambedue hanno poi mirato a occupare il centro dello spazio politico italiano. Di nuovo, l’uno lo ha fatto in modo marcato, dal punto di vista dell’orientamento: si è mosso esplicitamente da destra. L’altro, si badi bene, non lo ha fatto da sinistra, con opposta marcatezza, secondo una logica tradizionale. In modo non-marcato, lo ha fatto non da destra. Per dirla diversamente, lo ha fatto da ogni orientamento politico (anche da destra, se si vuole) ma senza che l’orientamento fosse specificato o prendesse il valore di qualità positiva: dunque, come si diceva, in modo non-marcato. Di lì, l’impressione (e forse la credibile ipotesi) che volesse in realtà costituire un partito della nazione, mettendosene alla testa. 

Ancora: di coloro che si è a lungo ostinato a chiamare “i comunisti”, Berlusconi si è detto nemico, in modo marcato. Né nemico né amico, invece e in modo non-marcato, Renzi che, fin quando ha potuto, ha confinato “i comunisti” di Berlusconi nel ruolo di “compagni di strada”. Né va trascurata in proposito la circostanza che un ruolo siffatto proprio “i comunisti”, nei loro tempi belli, erano soliti riservarlo a quelli che le parti politiche avverse vedevano invece come “utili idioti”. Gli esiti del corto circuito sono divenuti lampanti or sono poche settimane. A Renzi, la strada è stata sbarrata dai suoi “compagni di strada”, senza che sia ancora concesso sapere se, per essi, ciò si rivelerà più utile o più idiota.

 

Sul parametro comparativo dell’età, Renzi ha invece curato di riempire il termine marcato (e, come si sa, non solo rispetto a Berlusconi): forte dell’anagrafe e per ovvio trasferimento metonimico, si è presentato come giovane e quindi come politico giovane per definizione. La figura pubblica di Berlusconi, anagraficamente anziano, ha trasceso l’età. Berlusconi si è appunto rappresentato sotto forma di cyborg: né giovane né vecchio. Senza età o, in ogni caso, senza che l’età sia stato tratto definitorio pertinente, per la sua politica: un modo surrettizio di alludere a una permanenza che lascia sempre aperta la possibilità di un ritorno e pone solo l’ineluttabile (e forse neanche quello) come limite alla sua presenza sulla scena pubblica. La gioventù politica di Renzi, come tutte le gioventù, è al contrario una malattia da cui egli sta rischiando di guarire velocemente. Se la sua sfida non sarà celermente vinta (e non pare stia avvenendo), è possibile non possa più essere nemmeno lanciata, perché la marcatezza che la sostanzia, soggetta a continua usura e a rapido deperimento, sarà dispersa. Per continuare a esistere, Renzi sarà a breve costretto a non essere più lo stesso: un destino opposto a quello di Berlusconi, a sua volta condannato, per continuare a esistere, a essere sempre lo stesso.

 

 

C’è infine un tratto che accomuna Berlusconi e Renzi ed è forse il più rilevante, ideologicamente e politicamente. Ambedue sono marcati da una relazione con Mike Bongiorno, ma di nuovo con interessanti opposizioni di sistema. Nell’un caso, si è trattato d’una durevole relazione professionale, orientata, per gerarchia, dall’alto al basso; nell’altro, di un’episodica relazione non-professionale, orientata dal basso all’alto. Dell’uno, Bongiorno fu a lungo consigliere e collaboratore, dell’altro, nel breve contatto, figura di riferimento ideale, se non vero e proprio maestro. Per ambedue, nella differenza, tali relazioni paiono essere state tuttavia decisive nella formazione di idee e per l’elaborazione di progetti socio-politici (per uno dei due casi, ma non per l’altro, in stato embrionale).

 

Bongiorno fu infatti l’operante ideologo di un progetto di semplificazione e di unificazione dell’Italia che investì la lingua e, complessivamente, la cultura della nazione. Che lo fosse in modo inconsapevole è ciò che una prospettiva tradizionalmente intellettuale inclina a far credere e non è forse né rendergli giustizia né prospettarne correttamente la figura nella storia italiana della seconda metà del Novecento. Non è necessario che si siano scritti libri memorabili, pubblicandoli con reputati editori, che si sia fatto parte dei cenacoli dei dotti e degli eruditi che contano in società, che si sia coperta un’influente cattedra universitaria per avere un ruolo, e un ruolo importante, nella cultura. Pensiero e azione di Bongiorno hanno avuto una profonda influenza grazie alla televisione, medium culturale per eccellenza, in Italia, della tarda fase di una modernizzazione del paese peraltro tardiva, rispetto al resto dell’Europa. Il nome di Bongiorno vale appunto da ineccepibile prosopopea del medium medesimo: la sua ideologia vi si è fatta sostanza, senza residui di sorta. E non c’è altra figura intellettuale, nella seconda metà del Novecento italiano, che possa vantare un’influenza comparabile con quella di Bongiorno sulla vita sociale della nazione. 

 

Bisogna rendere grande merito a Umberto Eco, che colse precocemente il rilievo di Bongiorno. Malgrado le apparenze, Eco era tuttavia un chierico molto tradizionale e, dall’alto di un impeto dottrinale ancora giovanile, la ricerca illusoriamente maramalda di ironie e di un facile giudizio dall’alto verso il basso rese ottuso il suo acume, quanto a Bongiorno. La faccenda era infatti ben più seria di quanto Eco medesimo stesse forse immaginando. Soprattutto, l’ideologia di Bongiorno non diceva agli Italiani “restate immoti”. Così sostenne Eco, concludendo il suo famoso scritto e vedendo in Bongiorno l’incarnazione perfetta di una raggiunta e stabile mediocrità. Anche la mediocrità non è mai uno stato in effetti ed è sempre un processo. 

 

Per continuare ad adoperare la categoria di Eco, gli Italiani non erano peraltro (ancora) sufficientemente mediocri, né culturalmente né antropologicamente, quando Bongiorno li invitava a diventarlo. Bongiorno li chiamava infatti a mutare e a collaborare attivamente alla riduzione della loro ricca varietà culturale e delle loro molteplici differenze. Ed è quanto si è verificato, ovviamente nei modi e nei limiti concessi dalla millenaria e persistente pluralità italiana. L’ampio spettro delle diverse culture, da destra a sinistra, dall’alto al basso, si è ridotto. Sia stato un bene o un male è altra faccenda né spetta a queste poche righe pronunciarsi sopra un tema tanto rilevante, dal punto di vista umano e, in particolare, etico.

L’ideologia di Bongiorno ha influenzato molti, in ogni settore della società italiana. Ha influenzato in particolare i due primi ministri italiani più notevoli degli ultimi venticinque anni, che hanno puntato a trasferirla dalla società alla politica, pur con le diversità che si sono rapidamente specificate. I loro tentativi sono stati forse compiuti però fuori tempo massimo. Nell’attuale contesto globale, i valori della modernità (ivi compresi quelli proposti dall’ideologia tardo-moderna di Bongiorno) sono in avanzato stato di putrefazione e, quanto alla televisione, quella reale di Berlusconi e quella teatralmente ideale di Renzi sono media obsoleti.

 

Ideologia e politica (se si possono ancora chiamare così) galleggiano sul magma ribollente della rete e continuamente vi sprofondano. Sono piuttosto stati d’animo, coscienze inquiete, instabilità caratteriali, paure, desideri, velleità, buoni o cattivi sentimenti, vizi pubblici e private virtù. Come espressione, prendono forme opposte solo in apparenza, in realtà complementari: insulti aggressivi o pelosa correttezza politica esprimono un ribellismo parolaio e inconcludente o uno stucchevole e ingessato sussiego istituzionale. Senza che sia necessario fare nomi, le facce che vengono alla ribalta sotto un segno o sotto l’altro sono certamente diverse ma come lo sono appunto quelle di una medesima medaglia. 

Gli esiti attuali delle vicende pubbliche di Berlusconi e di Renzi paiono del resto dire che ai loro modi di tentare tale trasferimento, ormai improbabile, non abbia arriso e non stia arridendo il successo. Di nuovo, se il duplice fallimento sia un bene o un male per una nazione ormai processualmente sempre più mediocre è dilemma che, per quanto più superficiale del precedente, qui non ci si pone. Chi legge, ammesso lo desideri, può provare a scioglierlo da sé, eventualmente con l’aiuto di queste riflessioni ancillari.

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