Smeraldo

17 Gennaio 2013

Arriva una notizia aperitiva: il verde sarà il colore del 2013. Il verde smeraldo, per la precisione. Lo decretano stilisti e designer, grafici e artisti, sportivi cool, signore bene. E sembra lo attestino anche filosofi e scienziati. Viene immediatamente da chiedersi: l’ecologia gongola? l’ambiente innanzi tutto? Sì, per certi versi, perché il verde – nelle sue cinquanta sfumature eventuali – è il colore della Natura, in parecchie delle sue manifestazioni e sostanze. Per gli islamici è sempre stato il colore del Paradiso, e da un po’ – è stato ricordato da Marco Belpoliti – lo è diventato anche per noi.

 

Ma di quale natura, e di quale paradiso, stiamo parlando? Per approfondire la questione, a questa notizia possiamo forse accostarne un’altra, un po’ meno evidente, comunque ragguardevole: la natura, a poco a poco, sta perdendo colore. Nel senso che, stremata dalle ribalte cui è stata troppo a lungo sottoposta, sta rinunciando alla sua tinta d’ordinanza, il verde clorofilla, per darsi ai toni e alle nuances d’ogni tipo. Sbianca, impallidisce, si dora, s’infuoca, incupisce, oltrepassa la linea d’ombra. La si vede talvolta anche in nero: elegante sì, ma un po’ luttuoso. Tumulto cromatico che lascia intendere un parallelo travaglio concettuale, forse ideologico.

 

 

Del resto, è di alcuni mesi fa un vivace sondaggio fra i movimenti ambientalisti italiani alla ricerca di un nuovo simbolo politico. Alla fine ha vinto il solito color erba, ma gli altri tre emblemi in lizza, fortemente virati su giallo e bianco, hanno preso un sacco di voti. Segno che il modo di pensare la Natura, anche tra chi la difende a spada tratta, non è sempre lo stesso. Processo inverso e complementare nel mondo dei grandi brand dell’industria alimentare, pasta e biscotti in testa, dove le classiche tinte aziendali che ne indicano le rispettive identità al consumatore – blu, rosso, azzurro – stanno sempre più spesso lasciando spazio proprio al verde, rivendicanone il valore ambientalista e nutrizionale, quasi sanitario. Perfino le confezioni delle merendine stanno abbandonando il giallo dorato delle spighe di grano, marezzatura stereotipa che da tempo invade lunghe sezioni dei supermercati, per lasciar trasparire, più o meno desaturato, il solito verde-natura. Questo perché, possiamo immaginare, già da un po’ il lindo mulino e i suoi numerosi imitatori sono stati scavalcati, per così dire, a sinistra, dal grosso battaglione del cosiddetto cibo biologico.

 

Se i prodotti biologici manifestano una chiara estetica dell’imperfezione (il verme nella mela è segno della sua naturalità), le confezioni che racchiudono frollini, spaghetti, caffè, fagioli, cioccolato e caramelle organic, come dicono i più cool, esibiscono senz’ombra di dubbio toni che vanno dal beige al castano scuro. Colore della terra, dei sacchi di iuta, del cartonaccio grezzo e finanche, ahimè, del colonialismo d’antan. Gli esiti commerciali più comuni dei sofisticati esperimenti biodinamici tipici nelle colture sostenibili si presentano in cromi al tempo stesso rudi e dolci, selvaggi e sospirosi, dove il nocciola cede spesso il posto all’avana. Come a rimpiangere passate avventure d’oltremare che, comunque, sanno più di Corto Maltese che non di Hernán Cortès.

 

 

Va ricordato allora, a scorrere gli eruditi scritti di Michel Pastoureau, il maggior esperto mondiale di storia di colori, che l’uso del verde per designare la natura e l’ambiente è relativamente recente. Risale al Romanticismo ottocentesco, dimentico delle truci foreste nere germaniche, più propenso invece a sospirare d’amore nei vasti prati dei parchi cittadini di mezza Europa. Nell’Antichità, nel Medioevo, nella prima Modernità la natura aveva i colori dei celebri quattro elementi cosiddetti aristotelici: il nero matto della terra, l’azzurro cupo dell’aria, il rosso vivace del fuoco, il cobalto-grigiastro dell’acqua. E si trattava di tinte malcerte, variabili per epoca e luogo, tutt’altro che condivise dalle genti del mondo. Basti pensare al colore del mare, turchino forse per i velieri dei commerci mediterranei, cupissimo fra i vichinghi del Baltico. Ne sanno qualcosa, ancor oggi, sarti e gioiellieri, che faticano a vendere proprio gli smeraldi, gli uni, o a confezionare abiti verdastri, gli altri. Il verde, per secoli, ha portato sfortuna: la speranza di cui si dice sia portatore è quella di non soccombere alla sfiga.

 

C’è da chiedersi se questa superstizione, oggi, non stia surrettiziamente permeando il mondo della natura, delle sue forme di concettualizzazione commerciale, delle prassi politiche che provano a farne un bene comune. Se pure, mai come in questi nostri tempi, tutti la cercano, tutti la vogliono, molto probabilmente si sta incrinando la credenza secolare nella sua unicità e universalità. Abbiamo palette infinite per rappresentarla. Ci mancano le categorie di pensiero per moltiplicarla.

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