Snob come Proust

Studiare lo snobismo e leggere la Recherche: ecco l'esorcismo che abbiamo tentato – per molti una punizione – per sottrarci all’accusa più bruciante, quella di essere snob. Ma ci siamo resi conto che non basta, perché lo snobismo penetra profondamente in ogni essere, nessuno escluso. Le prime vittime e i primi complici di questa sorta di degenerazione dell’animo umano siamo dunque noi.

Proclamarci snob ci illude – perché siamo consapevoli del paradosso – di non esserlo, come se esserne coscienti fosse la via salvifica: siamo snob per far intendere che invece non lo siamo, perché il nostro snobismo rimanda a quell’altro snobismo, di uno scrittore che asseriva di non essere snob perché descriveva i comportamenti degli snob, che però non erano coscienti del loro snobismo; un delirio dove il linguaggio non raggiunge mai i fondamenti del reale perché allude sempre a qualcos’altro, all’infinito.

Del resto, il giudizio dei critici sul grado di snobismo di Proust è controverso: fino a che punto Marcel era sincero e coinvolto quando frequentava il gratin parigino, con un'assiduità tale che solo la malattia poté attenuare? Molti sono sicuri che la Recherche si sia arricchita con lo snobismo di chi l’ha scritta. Ma Proust ha sempre negato di essere affetto da snobismo: «Se leggeste il mio libro, vi ritrovereste manie e malumori di questa vita mondana, dalla quale mi sono staccato dall’età di vent’anni, ciò che non ha impedito, venti anni dopo, alla Nouvelle Revue Française di rifiutare Swann bollandola come l’opera di un mondano», scrive in una lettera a Sydney Schiff, verso la fine del 1921, un anno prima della sua morte.

Non fa che difendersi: «Gli scrittori snob sono quelli che, da fuori, dipingono ironicamente lo snobismo che essi stessi praticano. Poiché siete amico della principessa Lucien Murat, lei può dirvi fin da quando qualunque tipo di Guermantes mi era familiare…» (lettera a Paul Souday, novembre 1920). «L’idea che sembrate avere che sia lo snobismo a decidere sulla scelta delle mie uscite (che mi porterebbero nei posti di cui parlate) mi stupisce prima ancora di umiliarmi. Se conosceste tutte le cose per le quali ho commesso imprudenze e quelle che mi hanno lasciato rimpianti profondi, vedreste che la mondanità vi ha davvero poca parte» (lettera a Robert de Montesquiou, 24 aprile 1905).

Ma, già in queste citazioni, si può cogliere tuttavia almeno qualche ambiguità e le ambiguità, in altre lettere, giungono fino a suggerire in Proust atteggiamenti di vero e proprio snobismo dissimulato, quello che, nella Recherche, viene rappresentato nel modo più impietoso e crudele. «Soprattutto non fatevi l’idea che io vi chieda un invito da Madame de Saint Paul! Io sono già invitato, cento volte invitato e non vi chiedo nessun invito!» (lettera a Antoine Bibesco, novembre 1901). Se poi si risale un po’ indietro negli anni, le lettere forniscono la testimonianza di un giovane Proust affamato di conoscenze nobili: «Ho visto infine ieri, da Madame de Wagram, la contessa Greffulhe… Ma vorrei molto che lei sapesse l’enorme impressione che mi ha fatto e se, come penso, la vedete spesso, volete farmi il favore di dirglielo?» (lettera a Robert de Montesquiou, 21 luglio 1893).

Però, interpretando in senso proprio le sdegnose ed energiche negazioni di Proust riguardo al proprio snobismo, molti critici hanno supposto che le abitudini mondane dello scrittore fossero modi per raccogliere dati che sarebbero poi serviti per la Recherche: tanto è vero – essi dicono – che Proust smise di frequentare il bel mondo quando incominciò a scrivere. In realtà, tutte le ricerche condotte per accertare come Proust abbia composto la sua opera, hanno dimostrato che non ha mai smesso di lavorare, anche quando frequentava assiduamente i salotti aristocratici. Lo descrivevano come affamato di grandi relazioni, alla continua ricerca di farsi aprire, con galanterie e piaggerie, i più esclusivi salotti e dello snob aveva tutta l’apparenza: nei vestiti eleganti e ricercati, nel linguaggio adulatorio, nel desiderio di brillare in società.

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Quanto al ruolo e al posto che Proust abbia effettivamente avuto nel faubourg Saint-Germain, è certo che egli non vi fu mai del tutto accettato. Proust ha sempre misurato la distanza che lo separava dall’aristocrazia e, se tra gli aristocratici incontrava accoglienza e amabilità sincere, doveva sperimentarvi certamente anche qualche mortificazione. Motivi profondi lo inducevano a frequentare appassionatamente il faubourg: Proust non era in grado di lavorare, mentre il mondo borghese da cui proveniva la sua famiglia dava molta importanza al lavoro. In cerca di solidarietà, si trovava più a suo agio tra i nobili, dove il lavoro non era contemplato. Aveva il bisogno di crearsi un personaggio da esibire agli occhi degli altri – e l’esibizione di un personaggio fittizio è una delle maggiori caratterizzazioni dello snobismo.

Che frequentasse il faubourg per passione o per esigenze personali, non si possono tuttavia negare le motivazioni più profonde che lo muovevano, al di là del bisogno di documentare quel mondo nei suoi scritti. Era assiduo nei luoghi dell’aristocrazia con una tale intensità e una tale partecipazione da escludere che fosse solo puntigliosità di documentarista. Il verdetto di colpevolezza su Proust snob è stato più o meno emesso da tutti i critici, che semmai si sforzano di giustificarlo, tale è la grandiosità dell’opera cui lo scrittore ha dato vita.

Dal canto suo, lui protestò per l’uso troppo disinvolto di certe chiavi di lettura, di questi riferimenti sociali e mondani. Ma si sa che l’opera non appartiene più al suo autore una volta data in mano ai fruitori, liberi di riviverla in loro stessi nei modi che preferiscono (lo dice lo stesso Proust in Contre Sainte-Beuve, proprio per contestare al grande critico il suo metodo: che pretendeva di spiegare l’opera con la psicologia e la biografia del suo autore, essendo invece un libro, secondo Proust, il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nelle nostre debolezze mondane: mette cioè le mani avanti, confermando, con la gigantesca excusatio con cui tenta di negarlo, la certezza del suo snobismo).

In questa raccolta ci siamo divertiti a sottolineare nella Recherche tutte le frasi in cui compaiono le parole “snob” e “snobismo”, per confrontarle con la corruzione che questo termine ha subìto oggi. Per parlare della grossolanità di certi atteggiamenti imitativi contemporanei, abbiamo attinto alle nostre storie personali e professionali, scoprendo che l’essenza dello snobismo è sempre la stessa, nelle varie epoche, oggi soltanto più accentuata dal consumo vistoso, dall’overdose delle piattaforme social, vere e proprie palestre in cui l’euforia del mostrarsi si scatena.

La complicazione snobistica riempie di sé le nostre vite, stordite dai piaceri privati del consumo: questo libro è quindi una caccia, speriamo divertente, alle apparenze e alle loro ineffabili possibilità rivelatrici, nella ricerca incessante del “nuovo” e del “diverso”. Ed è l’omaggio che vorremmo rendere al nostro autore di culto, nel centenario della morte (ostentando familiarità snob con lui, ma chiedendogli perdono). 

Questo testo è la prefazione di Snob come Proust di Marina Giusti del Giardino e Paolo Landi, da poco pubblicato da Baldini+Castoldi, una raccolta di tutte le frasi della Recherche dove compaiono le parole "snob" e "snobismo", più altre che vi alludono, seguite dai commenti degli autori sui comportamenti snobistici di oggi.
Ringraziamo l’Editore e l'Agenzia letteraria Cherryrun per avercene concesso la riproduzione.

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