Sofia Coppola. Bling Ring

10 Ottobre 2013

Paris Hilton, quando esce per andare ai party, lascia le chiavi di casa sotto lo zerbino. Una scoperta folgorante che chi non ha visto Bling Ring, il nuovo film di Sofia Coppola, rischia di non fare mai.

 

Novanta minuti che raccontano uno storia vera, che Sofia ha pensato di rendere sceneggiatura dopo aver letto, su Vanity Fair, un articolo di Nancy Jo Sales, The Suspects Wore Louboitins (I sospetti indossavano Louboutin). I sospetti, poi condannati, sono un gruppetto di adolescenti, che ossessionati dallo style delle non più giovanissime starlets di Hollywood, organizzano incursioni per rubare beni di lusso nelle loro case. Il bottino complessivo non è proprio quello di una bravata: oltre tre milioni di euro in scarpe, borse, vestiti, gioielli, orologi e contanti. Tra le vittime Paris Hilton, Orlando Bloom e Rachel Bilson. La banda, ribattezzata dai media The Bling Ring, cercava su internet gli indirizzi dei vip e colpiva quando i malcapitati erano impegnati in imperdibili appuntamenti mondani.

 

 

La prima cosa che colpisce è la facilità con cui questi cinque sventatelli si intrufolano nelle case di vetro, che costellano le colline di Hollywood. Porte e finestre aperte come se all'interno non ci fosse nulla da rubare, come se le ville facessero parte di un ameno villaggio di campagna dove tutti si conoscono e nessuno teme intrusioni estranee.

 

Fiducia? Sembrerebbe più che altro disinteresse, menefreghismo, mancanza di senso della realtà. E di realtà in questo film vorrebbe essercene molta: l'occhio di Sofia Coppola sul mondo adolescenziale sceglie ancora una volta di essere descrittivo, non-giudicante, quasi empatico. Al di là delle difficoltà oggettive a empatizzare con adolescenti viziati e completamente privi di un autentico spirito ribelle (cosa c'è di ribelle nel voler diventare Paris Hilton?), mi domando quale sia lo scopo di rappresentare una realtà fatta di immense cabine armadio zeppe di vestiti firmati e scarpe paillettate.

 

 

In un'intervista Sofia Coppola dichiara: “Credo che il film sia una combinazione di glamour e di spirito critico e che, alla fine, sarà materia di riflessione per il pubblico”.
Glamour è glamour, nessuno lo può negare. L'affastellamento di immagini di lusso e sperpero è molto glamour. Ma tutto questo glamour o affascina o nausea, difficilmente fa riflettere. Dov'è lo spirito critico? Nei venti minuti conclusivi dedicati alla cattura e alla condanna della teen gang? Nel finale che, come in un classico film horror, ci lascia intendere che l'orrore non sia finito? Non tutto deve essere un monito.

 

 

Il film della Coppola è, come sempre, di buon gusto, minimale, ha ritmo, è formalmente ineccepibile, ma non venga spacciato per un esempio di criticità. La critica è altrove, qui c'è un'estetica studiata per galvanizzare adolescenti che accorreranno a frotte per vedere un film che, in fondo, non contiene meno “oh my god” di un reality show di MTV. In quel caso la totale mancanza di profondità non vuole rappresentare proprio nulla, in questo caso probabilmente, come in altri film della Coppola, vuole farsi metafora del vuoto della società Hollywoodiana.

 

Ok, però il giochetto di rappresentare il vuoto con il vuoto ha un po’ stancato e inizia a sorgere il dubbio che i registi che, come la Coppola, possono permetterselo, abbiano trovato in ciò un escamotage per dare al grande pubblico la leggerezza che cerca e ai critici e agli spettatori più esigenti quel tocco di impegno richiesto all’autorialità. Ma il tocco critico di Sofia, figlia di Hollywood, ha l’elegante inconsistenza di chi indossa guanti di seta.

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