Ready Player one / Steven Spielberg. Retro-nostalgia

27 Aprile 2018

Crisi economica, tensioni sociali e culturali esacerbano il presente, inducendo chi lo vive a cercare vie di fuga verso qualcosa che possa sopprimere l'angoscia, anche se solo momentaneamente. 

Non si tratta di tendere verso l'infinito e oltre – troppo ottimismo nuoce – ma di cercare una realtà alternativa, un succedaneo del mondo reale dove essere finalmente liberi dalle oppressioni.

In una parola: evadere. Ecco lo scopo delle narrazioni mediali, vale a dire trasportarci in un universo parallelo e finzionale, dove poter diventare qualcun altro, quell'altro che la realtà ci ha impedito di diventare.

Iniziamo presto, prestissimo, a costruire il nostro mondo ideale sulla base dei film, romanzi, fumetti, videogiochi che consumiamo quotidianamente, ed è come se questi ultimi fossero il carburante dei nostri sogni, di ciò che ci fa dire «da grande voglio essere Indiana Jones».

Gli universi finzionali rappresentano l’El Dorado contemporaneo perché, oltre ad essere facilmente raggiungibili, hanno un costo ridotto e zero barriere temporali, cose che ormai determina il masochistico indugiare nel binge watching delle serie televisive anche se al mattino la sveglia è all'alba. Rinunciamo volentieri al sonno perché in quelle sessioni intensive (di visione o di gioco) troviamo finalmente un po’ di pace e gli argomenti di conversazione per la pausa caffè del giorno successivo. 

 

Come se non bastasse, ognuna di queste narrazioni serve a spiegarci alcuni avvenimenti della nostra vita, e a volte sono così efficaci che ce le possiamo rigiocare a lavoro, in sede di congressi, di seminari, ecc. In questo caso tempo del lavoro e della vita si sovrappongono piacevolmente, a dimostrazione che tutti gli universi mediali visitati si sedimentano nella nostra memoria, rimanendo letteralmente attaccati a frammenti significativi di vissuto. È per questo motivo che una colonna sonora o un pupazzetto possono provocare un’attività insolita del condotto lacrimale: non è l’oggetto in sé, ma il complesso di fatti e circostanze che abbiamo affrontato e superato attraverso un romanzo o un videogioco a farci commuovere. Se ne deve essere accorto anche Ernest Cline, classe 1972, quando ha deciso di scrivere Ready Player One, romanzo pubblicato nel 2010, che possiamo considerare come una lunghissima lettera d’amore alla cultura pop della sua generazione, dove abbondano densissime citazioni di ogni genere, videoludiche, filmiche, o di animazione. Un romanzo per integrati, in cui persino gli apocalittici possono provare il brivido di carpire una citazione pop. 

Ready Player one rappresenta l’istituzionalizzione della memoria mediale degli anni Ottanta, mettendo in scena un variegatissimo inventario di usi divenuti prassi e poi storia del costume. È la mitopoiesi delle mitopoiesi, la cui trasposizione cinematografica poteva essere affidata solo al regista modello della cultura pop, a colui che in un modo o nell’altro ha avuto a che fare con la gran parte delle citazioni presenti nel romanzo, ossia Steven Spielberg.

 

 

Siamo nel 2045, il mondo è ancora più ingarbugliato di adesso, l’inquinamento è ai massimi storici, però fortunatamente i nerd indossano ancora una rassicurante camicia di flanella a quadri. A nessuno piace questa realtà, in cui bisogna lavorare non solo per la mera sussistenza, ma anche per mettere insieme gli spiccioli che permettono di evadere raggiungendo OASIS, il più sincretico tra gli universi virtuali, frutto della mente geniale del sociopatico James Halliday che, post mortem, da amante della meritocrazia e del buonismo “anniottanta”, dà il via a una complessa competizione per la designazione del suo più degno erede.

La gara si vince con le “skills”, cioè l’abilità di un buon giocatore non solo di sapersi destreggiare con le dinamiche in-game, ma soprattutto di stabilire dei link, dei collegamenti tra la realtà di OASIS e il sistema di citazioni su cui è imperniata, per scovare gli Easter egg nascosti da Halliday, cioè la chiave di volta per succedergli.

Nell'ambito mediale, un Easter egg consiste nell'inserimento di un contenuto a sorpresa, riservato agli osservatori più acuti in quanto ben nascosto e mimetizzato nella linea narrativa principale. Si tratta del momento in cui autore e spettatore, sviluppatore e giocatore, si confrontano direttamente, arrivando a porsi sullo stesso piano per conoscenze e astuzia, legittimando i fanboy e le loro pratiche culturali. Otaku è bello, e difatti in Ready Player One due co-protagonisti sono giapponesi. 

Google, ad esempio, ama disseminare ovetti gratificanti perché “orgogliosa di essere una compagnia divertente” e punta sul gratificare i suoi user più nerd, noti per essere tra le frange di pubblico più critiche in materia di consumi digitali.

 

Un Easter egg è un modo per stabilire un legame, per stipulare un contratto fiduciario con il pubblico, affermando l'appartenenza a una stessa comunità di intenti. Inserire un elemento a sorpresa, comprensibile e raggiungibile solo da chi condivide le stesse competenze è una strategia intenzionale di affermazione dell’autorialità e ce lo confermano le origini di questo fenomeno, risalenti alla ribellione del programmatore Warren Robinett, che ha infranto le regole di Atari, ovvero l’assenza di riconoscimenti per gli sviluppatori, inserendo la sua firma nel videogioco Adventure.

Ciò avveniva nel 1979, e se riflettiamo sulle ricadute che ha avuto questo piccolo, silente, gesto dissacrante, ci rendiamo conto di come gli anni ottanta non siano mai giunti a conclusione, in particolar modo in ambiente mediale.

 

 

La serie cardine di Netflix, Stranger Things, si svolge negli anni ottanta, è imbevuta di citazioni della cultura pop, e soprattutto sembra una versione più ansiogena de I Goonies (1985), il cui soggetto è opera di Steven Spielberg (anche produttore del film). Continuando a esplorare la vasta scelta di Netflix vediamo che anche Black Mirror (ep. “San Junipero”), GLOW, Everything Sucks! e The End of the F***ing World seguono la stessa falsariga, tanto che le prime due rimangono negli anni ottanta, la terza si sposta di un decennio, mentre l’ultima attualizza atmosfere e look retrò dei personaggi. Forse Spielberg, che ha più volte espresso posizioni non benevole nei confronti di Netflix, conscio del successo dei nostalgia drama sopracitati, ha pensato di poter fare di meglio, di essere in grado di stipare in un solo film qualsiasi riferimento appassionante per generazioni di accaniti videogiocatori o cinefili.

 

Di poter innescare, in una soluzione unica, talmente tanti rimandi da favorire i ricordi dell’infanzia, di quell’età dell’oro che tutti gli appassionati di retro-cultura rincorrono collezionando console, pupazzetti, giochi, cavetti. La realtà è una fregatura, meglio rifugiarci in un passato glorioso, come dicevamo in apertura. 

Un testo mediale in cui le citazioni non possono essere colte tutte perché sono troppe, rafforza gli stereotipi culturali, opera uno sfocamento sui confini della storicizzazione rendendo il passato presente. La parola più comunemente affiancato a citazione è “dotta”, il che chiarisce la posizione del senso comune in merito alla capacità di fare collegamenti. Certo, le citazioni possono essere fuori luogo e afferenti alla cultura "bassa", o ancora peccare di creatività, ma alla fine dei conti ognuno di noi indugia nella rete vischiosa dei riferimenti intertestuali, anche con una certa spocchia.

 

Non si tratta di una moda da osservare a distanza, senza coinvolgimento, è qualcosa che tocca e  coinvolge tutti da vicino, apocalittici e integrati. Perfino Gucci, tra i brand più influenti della moda contemporanea, ha scelto il lettering del brand videoludico SEGA per le borse logate della collezione PE 2018. Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, per un buffo caso del destino, è del 1972 come Cline, e dunque è latore di una retro-cultura che pian piano si sta insinuando in quella dei giovani del nuovo millennio, per semplice esposizione o per effetto di omologazione e rispecchiamento. Stiamo assistendo a un fenomeno di nostalgia che contagia chi non ha neanche vissuto un dato momento di vita perché i suoi contenuti sono stati estetizzati e svuotati dai significati profondi o si tratta di elementi che caratterizzano uno stato di cose rassicurante, utili ad affrontare un mondo reale angosciante?

I sedicenni pensano che indossare le t-shirt dei Nirvana è cool, perché lo fanno gli influencer e sono diventate un articolo da negozio fast fashion, ma non sanno che Kurt Cobain è morto nel 1994, qualche anno prima della loro nascita. Credono semplicemente che stia invecchiando chissà dove, magari ascoltando musica trap. Dall’alto della loro poca conoscenza dei “fatti” rilevanti della cultura pop, sembrano ammettere che la loro infanzia ha peccato di “anima”, è stata avara di materiale nostalgico perché troppo evanescente, a causa della rapida evoluzione delle tecnologie digitali. Formarsi in un momento di passaggio, di ibridazioni, genera straniamento e spaesamento, specialmente se uno dei ricordi d’infanzia è la prima edizione di un reality e non un film generazionale di culto. A questo punto non rimane che riappropriarsi dell’età dell’oro altrui, meglio ancora se glamour, affascinante e facilmente raggiungibile.

 

Allora è proprio così, gli anni ottanta non sono mai finiti perché grazie alla cultura pop si sono trasformati in una configurazione passionale collettiva, in un universale emotivo riconosciuto da persone di diversa provenienza geografica, culturale ed epocale. 

La nostalgia si prova perché si è semplicemente lontani dall’oggetto di valore (videogame, film, ecc.), non è più rilevante se lo si è vissuto in prima persona oppure no. I prodotti mediali e di consumo fungono da catalizzatori del ricordo riproducendo la cosa amata, finalmente non più vaga e nebulosa, che serve a evocare momenti felici. Gli oggetti convocano un’euforia originaria, compiendo il miracolo del viaggio nel tempo e nello spazio, proiettando i nostalgici nel locus amoenus tanto desiderato, talvolta arrivando a immergerli completamente in una realtà seconda, come accade in OASIS, dove trionfa il sapere ed è bandito il product placement invasivo della contemporaneità. 

 

Riciclare e recuperare i tratti e i motivi caratterizzanti di un'epoca appartiene ai corsi e ricorsi storici della nostra umanità, e non è sbagliato spiegare questa “mania” come fa Simon Reynolds nel suo Retromania: Pop Culture's Addiction to Its Own Past (2011), ovvero adducendola a una crisi di sovra-documentazione, cioè, per dirla con Maurizio Ferraris, a una rivoluzione documediale.

YouTube, le pagine Facebook dedicate “agli anni d’oro di...” e il Web rappresentano il labirinto memoriale più prolifico mai esistito, in grado di sopprimere la nostalgia in un paio di clic. 

Gli archivi del Web e dei social servono a trovare ispirazioni e risorse, a mettere una pezza a quella mancanza di fantasia e immaginazione che rinfacciamo al presente. Così la retro-cultura non è solo una forma di dipendenza dal passato, una forma di nostalgia verso i tempi in cui sembravano esserci alternative brillanti, ma è anche la panacea ai mali della nostra società, un rimedio alla stagnazione culturale in cui siamo – forse – impantanati.

Ne sapranno mai qualcosa i Duemila?

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