Storia del Niente e dello Zero
La forza dello zero deve essere davvero considerevole se tre cifre zero usate nella denominazione naturale di quest'anno del Signore 2000 sono sufficienti a far accorrere a Venezia un gran numero di scienziati, studiosi e studenti di paesi diversi, per studiarvi nient'altro che la natura di questa nullità. Ma esiste forse già da tempo una certa affinità, mirabile o mirabolante, tra il nulla, il niente e lo zero da una parte, e la serenissima città di Venezia dall'altra? Venezia, sappiamo, fu sin dal Seicento la sede dell'Accademia degli Incogniti, i cui soci sono noti storicamente per il particolare interesse dimostrato verso il valore e la forza del Niente. Anzi, proprio a Venezia il tema venne trattato esplicitamente in un discorso accademico tenuto da Luigi Manzini a Ca' Contarini il giorno 8 maggio dell'anno 1634. Questo discorso ironicamente panegirico – recentemente ristampato e commentato con acutezza da Carlo Ossola nel suo libro Le antiche memorie del nulla (1997) – diede luogo a Venezia a un'accesa disputa nella quale intervennero diversi altri scienziati veneziani, parigini e torinesi, tra i quali vorrei menzionare in particolare Emanuele Tesauro, autore del Cannocchiale Aristotelico, che prese la parola in quella «querelle de nihilo» con un'opera intitolata La metafisica del niente.
Estendendo ora anche alla Germania questa piccola considerazione storica, troviamo ancora – che i precursori italiani e francesi fossero o no conosciuti – un vestigio tardivo del dibattito secentesco alle soglie dell'Ottocento in uno scritto poco conosciuto del matematico, fisico e moralista Georg Christian Lichtenberg, intitolato Discorso della cifra Otto (1799). Nell'ingegnosa finzione di Lichtenberg questo discorso viene tenuto, nell'ultimo anno del Settecento, durante un incontro solenne di tutte le cifre riunite sotto la presidenza del nulla, o più esattamente, nel linguaggio di Lichenberg, della Nulla («die Nulle»). Ora, il discorso tenuto dalla cifra Otto è in gran parte un elogio indirizzato all'egregia presidentessa Nulla, «emblema sensibile del Niente trascendentale» («Grosse erhabene Nulle, sinnliches Bild des unabbildlichen Nichts»), la cui eccellenza tra tutti i numeri è dovuta a un evento storico non molto distante nel tempo da Lichtenberg: la Rivoluzione Francese. La «citoyenne» Nulla, padrona repubblicana dell'ordine decimale, dimostra di gradire il panegirico rivoluzionario rivoltole dalla cifra Otto in quanto rappresentante convertita dell'ancien régime. Nel nuovo ordine politico, modello per tutto l'Ottocento imminente, non interessa più infatti il valore naturale delle cifre da uno a nove; quello che conta ormai è il valore decimale che la cifra zero, semplice o ripetuta, conferisce a qualsiasi cifra precedente all'interno di un numero complesso.
La storia del Niente non finisce con Lichtenberg. Per ricordarne anche solo uno degli ultimi atavismi, egualmente comparso in Germania, basta rileggere una celebre lezione di Martin Heidegger intitolata Che cos'è la metafisica (Was ist Metaphysik?) del 1929. Questa lezione infatti cerca proprio di riabilitare il Nulla (das Nichts), disgraziatamente trascurato dai grandi filosofi metafisici per i quali il Nulla, come dice il loro critico, non è proprio nulla. Nel pensiero di Heidegger invece il Nulla diventa una forza e una potenza capaci di agire nell'universo: il Nulla medesimo 'nullifica' – «das Nichts selbst nichtet».
Quanto allo zero nel senso matematico più stretto, si può notare il manifestarsi di un crescente interesse per questo segno proprio in questi ultimi anni, all'avvicinarsi del nuovo millennio. Desidero menzionare in particolare due testi recentemente pubblicati in lingua inglese. Il primo, scritto dal matematico anglo-americano Robert Kaplan, è intitolato The Nothing That Is. A Natural History of Zero (Oxford University Press, 1999). Kaplan inizia l'analisi dello «spirit of zero» con una bella promessa: «Guardando lo zero non si vede nulla ma guardando attraverso lo zero si vedrà il mondo» («If you look at zero you see nothing, but look through it and you will see the world». Passa poi a comunicare ai lettori il programma del libro:
Il mio approccio a queste avventure sarà in parte quello del naturalista che colleziona la meravigliosa varietà di forme rivestite dallo zero – non soltanto come numero ma anche come metafora di disperazione e di incanto; come un nulla che pure è qualcosa di attuale; come il progenitore di tutti noi in quanto enigma degli enigmi («My approach to these adventures will in part be that of a naturalist, collecting the wonderful variety of forms zero takes on – not only as a number but as a metaphor of despair and delight; as a nothing that is an actual something; as the progenitor of us all as the riddle of the riddles»).
Il secondo libro che vorrei menzionare è stato scritto da un giornalista americano, Charles Seife, e si intitola Zero. The History of a Dangerous Idea (New York, Viking, 2000). Mi accontento di rilevare tre frasi del libro che illustrano abbastanza bene l'interesse specifico dell'autore per la strana 'forza' di questa nullità. Le tre frasi dicono:
– «C'è un immenso potere in questo semplice numero. Lo zero è divenuto il più importante strumento
della matematica».
– «Lo zero è potente perché è il gemello dell'infinito».
– «Lo zero è così potente perché mette in disequilibrio tutte le leggi della fisica».
Il libro finisce con una visione apocalittica della fine dell'universo che si annichila in un «Big Crunch». Ecco «la vittoria definitiva dello zero».
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Arrivati come se niente fosse a questo bilancio tremendo, sia matematico sia metafisico, conviene forse abbassare un poco il livello dell'argomentazione e cominciare da una prima riflessione sul nostro tema, più modesta ed elementare, l'unica del resto per la quale posso avanzare una certa competenza, benché piccola, dal momento che non sono né un matematico e nemmeno un filosofo ma soltanto un linguista. A questo scopo mi propongo, massimamente per ragioni di sicurezza mentale, di valermi della grammatica del linguaggio comune. Per un primo percorso mi pare legittimo, anzi metodologicamente indispensabile, considerare la matematica, e specialmente l'aritmetica, come una vera e propria provincia della linguistica. Questa disciplina va infatti considerata basilare per tutti gli affari numerici, ivi compresi i calcoli dell'aritmetica, giacché le regole elementari rimangono in vigore persino nei ragionamenti più alti e più eleganti della scienza matematica antica e moderna.
La cosa più urgente da fare, in un approccio linguistico alla materia numerica, è una riflessione semantica sul linguaggio concettuale usato o da usare, introducendo una prima distinzione rigida tra lo zero – il nostro tema specifico – e i termini apparentemente omonimi di nulla e niente. La differenza tra questi termini riguarda dapprima il loro valore, negativo o meno. Mi spiego con un esempio. Immaginiamo una persona che dica: «io non sono ammalato». Perché non dice invece «io sto bene»? Sarebbe più diretto, più facile. Il messaggio però, a dispetto della logica scolastica, non è identico nei due casi. L'espressione negativa infatti presuppone da parte dell'interlocutore una certa attesa, manifesta o latente, di un malessere o di una malattia, motivata magari dalla stanchezza visibile sul volto del parlante. Accorgendosi dell'aspettativa dell'altro quest'ultimo dice, per farla svanire: «io non sono ammalato». Essenzialmente il significato del messaggio negativo è la cancellazione, nella mente dell'interlocutore, di una sua attesa sbagliata rispetto al benessere o meno del parlante. Nello stesso senso dialogico (ossia, se volete, dialettico), le forme grammaticali nulla e niente, spesso rafforzate dalla forma anteposta non, sono propriamente espressioni di una negazione generalizzata e si usano regolarmente in situazioni in cui è percepibile un'attesa vaga e diffusa. Così, di fronte a una attesa simile ma meno specifica, il nostro parlante potrebbe dire: «io non ho nulla» o «io non ho niente». Non userebbe mai invece, se non per cercare effetti comici, la forma zero, la quale, secondo la medesima regola d'interpretazione, non serve da negazione nel senso linguistico della parola proprio perché il suo semantismo non presuppone un'attesa qualsiasi. La forma zero si usa invece senz'altro in situazioni neutrali come quelle dei calcoli matematici.
Le osservazioni precedenti possono essere estese e arricchite da alcune considerazioni storico-linguistiche che trascendono in parte il campo della grammatica in senso stretto. Vorrei parlare a questo proposito dell'ellissi. I grammatici e i retori greco-latini considerano l'ellissi un «vizio», definendola come omissione de facto, in un testo, di un elemento linguistico necessario de iure, conformemente alla definizione di Isidoro di Siviglia: «Eclipsis est defectus dictionis in quo necessaria verba desunt» (Etym., I, 34, 10). Si tratta dunque di una detractio rispetto a una norma grammaticale. L'esempio standard di Isidoro è tratto dall'Eneide di Virgilio: «cui pharetra ex auro», con ellissi del verbo erat («la cui faretra era d'oro», Aen. 1, 37). Non c'è dubbio che in latino la presenza della forma verbale rappresenti la norma grammaticale che si traduce, per ogni parlante di questa lingua, in un'attesa della forma corretta. L'ellissi allora, in quanto contraddice e annulla l'attesa normativa, comporta da parte sua un elemento negativo. Ma l'ellissi è davvero un vizio? Nel momento in cui un autore classico ne fa uso essa non può essere un vizio; sarà piuttosto una figura retorica di alto valore stilistico. Siamo qui in presenza di un fenomeno linguistico 'zero', ancora radicato, tramite l'attesa normativa, nella negatività, ma già portatore di forza poetica, come testimonia l'uso virgiliano.
Se passiamo adesso rapidamente ai tempi moderni troviamo l'ellissi, ormai priva di ogni connotazione negativa, in un contesto teorico molto diverso da quello dell'antica retorica e poetica. Il luogo storico di questa riflessione è la linguistica strutturale della prima metà del Novecento e i suoi protagonisti sono i linguisti Saussure, Tesnière e, soprattutto, Roman Jakobson. Per caratterizzare il loro pensiero sceglierò come riferimento il saggio Signe zéro, assieme al suo proseguimento, Das Nullzeichen, di Roman Jakobson, entrambi del 1939. Mi spiego con alcuni esempi jakobsoniani, tradotti dal russo al latino per facilitare il paragone con Isidoro di Siviglia.
Il primo esempio è abbastanza vicino all'ellissi virgiliana citata da Isidoro. A differenza però del vescovo sivigliano, il linguista russo mette a confronto un verbo al presente («monachus orat et laborat») con altri tempi verbali dello stesso verbo («monachus orabat et laborabat/oravit et laboravit/orabit et laborabit») e così via, arrivando alla conclusione che la forma del presente si distingue dagli altri tempi verbali mediante un morfema zero, scritto Ø, chiamato nei saggi citati signe zéro o Nullzeichen. È ovvio, quindi, nella prospettiva strutturalista, che l'uso del morfema zero (Ø) per il presente, tempo molto più frequente degli altri, non possa esprimere alcuna rottura d'attesa. Di conseguenza il segno zero jakobsoniano non coincide con l'ellissi e non è una forma di negazione.
Un altro esempio grammaticale, formato sempre in analogia con quelli impiegati da Jakobson nei saggi citati, illumina forse ancora meglio il problema dell'analisi strutturale del morfema zero. Se nell'esempio «monachus orat sed non laborat» si paragona la forma affermativa orat con la forma negativa non laborat, quest'ultima appare morfologicamente più ricca della prima: di conseguenza bisognerebbe constatare l'azione, nella forma affermativa, di un morfema zero. Ne risulta che un morfema assente, lo zero strutturale, significa un'affermazione (Ø orat), mentre una forma presente e perciò morfologicamente positiva (non) significa una negazione (non laborat). Malgrado l'apparenza superficiale tuttavia, l'uso linguistico rispetto a zero non è affatto paradossale bensì sommamente ragionevole. Infatti, siccome in media le frasi affermative superano di cinque volte le negative, il linguaggio comune agisce con perfetta economia riservando la forma zero, più semplice, all'uso più frequente. Rileviamo già in questa sede una caratteristica che verrà buona per le analisi posteriori, ovvero una certa affinità tra lo zero e l'economia.
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In questa lezione siamo partiti, per i motivi metodologici menzionati, dalla linguistica e in particolare dalle regole del linguaggio comune. Può parere un tantino sorprendente che non si ceda qui la prima parola alla matematica, che pretende notoriamente di tenere per sé sola tutte le chiavi della materia numerica, ivi compreso, in posizione splendida, lo zero.
Eppure questa visione glorificante dello zero fornita dalla matematica non viene interamente confermata dalla riflessione linguistica, né diacoronica né sincronica. Guardiamo l'uso comune dei numeri della lingua italiana su sfondo latino. Questa, considerata dapprima nella forma orale, ignora lo zero e lo ha sempre completamente ignorato. Il numero che segue il nove non si chiama uno-zero, ma dieci, quello che segue il novantanove non si chiama uno-zero-zero ma cento, e così via per tutto il sistema decimale. Per la formazione degli altri numeri del sistema si usano diverse pratiche aritmetiche, specie l'addizione (centotré = 'cento e tre') e la moltiplicazione (trecento = 'tre volte cento'). Esse si distinguono tra di loro in base a una regola semplice e facile da imparare. Una sequenza dal maggiore al minore (centotre) significa addizione ('cento e tre'). Una sequenza dal minore al maggiore (trecento) significa invece moltiplicazione ('tre volte cento'). In questa sede vorrei mettere in rilievo il buon funzionamento, davvero alquanto elegante, dell'operazione moltiplicativa, che permette ai parlanti del linguaggio comune un calcolo rapido e sufficiente per quasi tutte le situazioni domestiche e commerciali della vita ordinaria.
Ma non ci sono altri elementi che mancano nella vita ordinaria? Ce ne sono eccome. Per esprimere nel linguaggio corrente una mancanza, le forme della negazione, in particolare nulla e niente, sono sufficienti, senza che si noti un bisogno dello zero. È difficilmente immaginabile il caso di una persona che, all'interno di un gruppo di genitori che enumerano con orgoglio i propri figli, esclami: «Figli, io ne ho zero». Ovviamente la voce zero non appartiene al linguaggio comune quanto piuttosto al linguaggio specialistico della matematica – o alle risorse della commedia. Nella modesta situazione immaginata, quindi, si direbbe piuttosto, in buon italiano: «Io di figli non ne ho», o anche «Io non ho alcun figlio», oppure, infine: «Io, niente figli». La grammatica del linguaggio comune non manca di negazioni per esprimere in maniera linguisticamente corretta il rifiuto di un'attesa rispetto a un insieme di esseri o oggetti enumerabili. In tali condizioni non v'è alcun bisogno dello zero.
Se è dunque vero che il linguaggio orale può facilmente rinunciare allo zero, non è una sorpresa che anche la scrittura numerica possa fare il suo mestiere senza l'assistenza del segno zero. Ne troviamo una prova nella notazione numerica della lingua latina. Anch'essa ignora completamente lo zero, ricevendo spesso, per questa mancanza apparentemente incomprensibile e quasi imperdonabile, il biasimo dei matematici moderni. I segni fondamentali della numerazione romana sono sette, essi corrispondono alle lettere romane I (uno), V (cinque), X (dieci); L (cinquanta); C (cento), D (cinquecento) e M (mille). Per la formazione dei numeri intermedi le cifre elementari si combinano secondo regole piuttosto semplici, sia nel caso dell'addizione (XI = 'dieci e uno') sia, in forma più ridotta, nel caso della sottrazione (IX = 'dieci meno uno'). Contrariamente alla numerazione orale tuttavia, la numerazione romana scritta ignora la moltiplicazione, che viene sostituita dall'addizione in serie, cosicché ad esempio il numero trecento è formato da una sequenza di tre segni con valore 'cento': CCC. Se trascuriamo alcune regole sussidiarie possiamo quindi caratterizzare la numerazione romana, scritta e orale, come un sistema numerico funzionante – anch'esso mica male – senza lo zero.
Gli storici della matematica tendono a stupirsi dell'arcaismo del sistema numerico romano e a vedere nelle sue regole una forma sottosviluppata del pensiero matematico. Se invece si guardano le cose da un punto di vista storico-linguistico, l'assenza dello zero nel sistema numerico dei romani diventa più facilmente comprensibile. Tutto questo sistema infatti, orale e scritto, riflette la condizione corporea, elementare per ogni calcolo decimale, per cui l'uomo ha dieci dita – e non ha un dito zero o non-dito. L'immagine delle due mani con cinque dita ciascuna è ancora ben visibile in forma astratta nelle cifre romane scritte I (= un dito), V (una mano col pollice teso = cinque dita) e X (due mani in posizione inversa = dieci dita). Nel calcolo mentale dei tempi anteriori alle calcolatrici portatili l'assistenza delle dita nelle operazioni matematiche era importantissima non soltanto nello spazio numerico tra uno e dieci ma ben al di là. La testimonianza storica più vistosa di questo fenomeno è il trattato De temporum ratione (Sul calcolo temporale) di Beda il Venerabile, compilato attorno al 730. Il primo capitolo del trattato, intitolato «Sul calcolo e linguaggio delle dita» dimostra come gli scienziati del Medioevo abbiano sviluppato tecniche molto sottili per estendere il calcolo digitale al di là del dieci. L'opera di Beda ne contiene parecchie illustrazioni, che mostrano, per i singoli numeri, le posizioni significative delle dita, tese o piegate, in grado di formare i numeri più alti sulla base di regole precise.
È ovvio che il calcolo digitale si complica mano a mano che ci si allontana dalla base corporea delle dieci dita naturali. Questa condizione fisica si riflette ancor oggi in una lingua come l'italiano, in cui i numeri che superano di poco il confine corporeo di dieci sono composti in modo particolare, anteponendo la cifra minore, più facile del segno decimale (-dici) il quale è digitalmente meno facile e quindi posposto (undici, dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici – con cambio di scrittura da diciassette in poi). In tedesco questo sistema digitale o digitaloide continua fino a novantanove, cosicché 'ventuno' si dice, anteponendo la cifra uno, digitalmente più facile, einundzwanzig (= 'uno e venti'). Ne risulta, per le persone germanofone, un vero e proprio problema di traduzione dal calcolo orale al calcolo scritto, giacché per scrivere il numero einundzwanzig ('uno e venti'), bisogna invertirlo e scrivere, secondo le norme dell'aritmetica moderna, le cifre due-uno (21).
L'invenzione storica successiva, destinata a facilitare il calcolo mentale, dopo il calcolo digitale di utilità ridotta, fu la tavola calcolatrice o abaco, che si valeva originariamente di pietruzze di calce (calculi) disposte in righe. Il paradosso tecnico dell'abaco è rappresentato dall'utilizzo della seconda dimensione, che permette di maneggiare facilmente più di dieci pietruzze. A ragione l'abaco è stato chiamato la terza mano dell'uomo che calcola. In certi paesi del Terzo Mondo l'abaco viene usato ancor oggi con grande frequenza, consentendo agli utenti un calcolo abbastanza rapido in tutte le esigenze commerciali quotidiane. Eppure nemmeno l'abaco, nella sua forma classica, conosce una posizione zero.
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Il calcolo orale, il calcolo digitale e il calcolo mediante l'abaco sono stati le tre grandi invenzioni matematiche con le quali l'Occidente ha potuto cavarsela da solo. Per arrivare alla matematica moderna ci voleva invece l'apporto intellettuale del Medio Oriente. Furono i matematici, gli astronomi e i mercanti del Medio Oriente a consegnare all'Occidente un quarto tipo di formazione dei numeri, basato fondamentalmente, invece che sull'addizione, sulla moltiplicazione, e che consentiva anche al calcolo scritto di operare molto rapidamente. Le tappe di questa 'rivoluzione culturale' sono tre: Babilonia, India e mondo arabo. In Europa la numerazione chiamata più tardi, trascurando i primi inventori, 'indo-araba' o soltanto 'araba', entrò a poco a poco fin dal Duecento, e la porta d'ingresso principale ne fu l'Italia, specie Venezia. Secondo l'opinione del matematico americano John D. Barrow, l'invenzione del sistema numerico indo-arabo fu «l'innovazione intellettuale più fruttuosa che sia mai stata fatta sul nostro pianeta».
Val certamente la pena, mi pare, di esaminare più da vicino il carattere innovativo del sistema numerico chiamato indo-arabo. Esso si fonda sull'introduzione, nel modo di contare e calcolare, di una distinzione fondamentale tra il valore naturale e il valore posizionale delle cifre elementari. Per mettere all'opera un valore naturale bisogna scrivere (ripeto che soltanto di scrittura si tratta!) una cifra qualsiasi facendola seguire da un'altra cifra. In questa sequenza per così dire testuale la cifra posposta, senza perdere il suo valore naturale, acquista la forza supplementare di moltiplicare per dieci il valore della cifra precedente. Così ad esempio nel numero ventitré, scritto due-tre, la cifra tre, grazie al fatto di trovarsi posposta, e pur mantenendo il suo valore naturale di 'tre dita', rafforza il valore della cifra precedente aumentandolo di dieci volte secondo il principio decimale. Questa regola vale per tutte le cifre, cosicché nella serie 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, ogni cifra, da uno a nove, assegna alla cifra due che le è anteposta il valore decimale 'venti', aggiungendovi in più, per addizione, il suo modesto valore naturale.
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Prima di proseguire nell'analisi del sistema numerico indo-arabo o di studiare più accuratamente la funzione che vi svolge la cifra zero, mi sia permesso rammentarvi un grande matematico italiano del Duecento e Trecento, nel quale possiamo vedere all'opera quasi tutte le considerazioni esposte finora: Dante. I fatti sono noti. Tanto nella Vita Nuova quanto nella Divina Commedia l'opera poetica di Dante è testimone di un pensiero matematico estremamente elegante, svolto su base tre, col suo ovvio valore simbolico: la Trinità divina. Dapprima, nella Vita Nuova, per applicare questa base alla «nuova» vita risvegliata dal suo amore per Beatrice, Dante passa, tramite un'operazione di elevazione a potenza, dalla cifra tre alla cifra nove, che simboleggia per lui e per la donna della sua mente la beatitudine del loro amore. Matematicamente parlando, l'elevazione a potenza del tre è una moltiplicazione di questa cifra per se stessa. L'operazione è facilmente rappresentabile sull'abaco: tre pietruzze in ciascuna di tre righe. È ovvio che la «potenza» nel senso matematico della parola rappresenta una «forza» considerevole.
Nella Divina Commedia, proseguimento e perfezionamento della Vita Nuova, Dante dà alla sua matematica simbolica un nuovo impulso, che la differenzia dalla precedente per il suo carattere più nettamente prosodico e per la ricchezza dell'immaginazione poetica. Dalla stessa cifra tre, usata come base per l'elevazione a potenza, il poeta passa ormai al numero trentatré. È ben noto infatti che ognuna delle terzine composte in endecasillabi consta di trentatré sillabe. Inoltre ognuna delle tre cantiche della Commedia comprende trentatré canti, il che, con l'aggiunta di un canto in funzione di prologo, ne fa arrivare il numero a cento, numero decimale della perfezione. In questo modo la prosodia della Commedia si serve del numero trentatré per gettare un ponte tra il simbolismo del tre (la Trinità) e quello del cento (la sua perfezione). Se chiamiamo l'operazione della elevazione a potenza nel passaggio dal tre al nove nella Vita Nuova, «messa in potenza», il passaggio dal tre al nove nella Divina Commedia possiamo chiamarlo una «messa in posizione», in senso analogo alla posizionalità del sistema numerico indo-arabo. Infatti il numero XXXIII (bisogna immaginarlo scritto in cifre romane) comprende il tre usato in due valori, quello naturale ( = 'tre') e quello posizionale (= 'trenta'), entrambi riuniti in un procedimento addizionale in base alle regole della scrittura numerica romana. Vista in questa prospettiva, la messa in posizione, cioè il passaggio da tre a trentatré, è un'operazione matematica altrettanto legittima dell'elevazione a potenza, ovvero il passaggio da tre a nove. Le due operazioni, del resto, sono simili nel momento in cui, in entrambi i casi, il segno operante, origine della forza moltiplicativa, si trova sempre posposto rispetto al segno anteposto, sul quale produce il proprio effetto rafforzante.
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Dopo questa breve escursione nel paesaggio poetico dantesco torniamo alla matematica più prosaica e vediamo in quale senso si sviluppa il pensiero matematico in seno alla aritmetica posizionale indo-araba. Ora, il suo aspetto veramente geniale sta nella combinazione del principio posizionale con l'introduzione di una nuova cifra: lo zero, con valore naturale 'nulla' (cfr. in tedesco die Null, termine derivato dal latino nulla figura = 'zero'). Grazie a questo arricchimento il principio posizionale può venire esteso alla cifra zero, cosicché nel momento in cui anche questa cifra, in sé naturalmente «vuota», viene posposta a qualunque altra (meno lo zero stesso), ne moltiplica egualmente per dieci il valore. Così, ad esempio, nel numero venti, scritto due-zero, la cifra zero, senza aumento per il suo valore naturale 'nullo', acquista la forza posizionale di moltiplicare per dieci il valore della cifra anteposta, e da 'due' ne fa 'venti'.
Siamo veramente arrivati all'estremo della «forza» posizionale. Essa si manifesta al massimo nella cifra zero perché questa è l'unica cifra in cui il valore posizionale appare puro, senza alcuna intromissione di un valore naturale qualsiasi. Nello zero la moltiplicazione decimale, orgogliosa della sua forza posizionale, sembra disdegnare i modesti contributi addizionali dovuti al basso valore naturale delle altre cifre «positive». Esse vengono quindi sovente trascurate da militari, milionari e miliardari, a favore di uno zero molto più impressionante – dal momento che esso non rappresenta nient'altro che la forza moltiplicativa della sua posizione. Anzi, il non tener conto dei piccoli valori addizionali che modificano di poco il valore dell'insieme pare persino economico, soprattutto in situazioni gravi e importanti. Un carattere forte riterrà quindi lo zero la cifra meno pedante di tutte. Non posso però tacere in questo contesto il fatto paradossale per cui la stessa forza dello zero può facilmente trasformarsi in una forza distruttiva nel momento in cui, nei calcoli matematici, una semplice divisione per zero basta per far crollare l'intero edificio della scienza matematica.
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Poiché secondo me la grande innovazione del sistema indo-arabo non è soltanto il trattamento riservato allo zero ma – forse di più – l'invenzione del valore posizionale, a determinate condizioni, di tutte le cifre, non sarà forse privo di interesse esaminare da vicino un aspetto della cultura occidentale in cui compare già, molto prima della venuta dello zero orientale, la distinzione fondamentale tra valore naturale e valore posizionale. Perciò mi permetto qui una breve digressione sulla prosodia greco-latina, la quale, come si sa, è una metrica quantitativa basata sulla lunghezza delle vocali nei piedi di un determinato verso. Ora nelle vocali, tranne che nei dittonghi, la lunghezza non viene indicata dall'ortografia; bisogna consultare l'orecchio per sapere che la vocale i in fides è breve e in vita è lunga.
Ma questa lunghezza naturale (naturā) di una vocale costituisce soltanto la metà della metrica greco-latina; l'altra metà viene determinata dalla sua posizione nel verso (positione), termine traducibile tanto con 'posizione' quanto con ' convenzione'. Infatti una vocale breve quale la i di fides si conta come lunga, nel verso, se viene seguita da una consonante lunga, cioè o raddoppiata (fissus) o composta da due consonanti (findere). Possiamo dire che le consonanti considerate lunghe acquistano nella prosodia la forza supplementare di raddoppiare, cioè di moltiplicare per due, il valore metrico della vocale precedente. Vediamo dunque che il principio della posizionalità rilevante non è una proprietà esclusiva della matematica indo-araba ma è già presente, molti secoli prima, nella prosodia greco-latina. In questo senso il sistema posizionale, fondamento della numerazione indo-araba, è forse molto più nostrano di quanto si pensi; vi manca «soltanto» la posizione zero in cui la posizionalità acquista la sua massima forza.
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Non abbiamo parlato finora di un importantissimo campo di applicazione dello zero, molto vicino in questo periodo alla nostra mente dato che siamo entrati in quest'anno millenario 2000, anno elegantemente semplice nella sua notazione indo-araba, con tre cifre zero che esercitano in comune la loro forza sulla modesta cifra due, loro anteposta e soggetta quindi a una moltiplicazione davvero impressionante, da due a duemila. Si sa che gli uomini non sono d'accordo sulla data d'inizio del nuovo millennio, il primo di gennaio del 2000 o del 2001. Questa querelle, dalla quale non siamo stati risparmiati nemmeno all'ingresso del nuovo secolo e millennio, era già per Lichtenberg, alle soglie dell'ottocento, una storia vecchia. Egli comunque, come del resto la maggioranza dei matematici e degli astronomi, si era pronunciato a favore dell'anno 1801, così che a noi, se vogliamo seguire il suo ragionamento, restano ancora alcuni giorni per festeggiare il nuovo secolo e millennio.
Non dico niente di nuovo nel ripetere qui brevemente che questa disputa presente, passata e probabilmente futura risulta dal fatto che gli inventori del calendario «post Christum natum», in particolare Dionigi il Piccolo (sec. VI), dimenticarono di mettere, tra gli anni ante e quelli post, un anno zero. Non è quindi facile calcolare secondo le regole dell'aritmetica scolastica gli anni di vita dell'imperatore Augusto, nato nel 63 prima e morto nel 14 dopo la supposta nascita di Cristo, confine convenzionale tra il vecchio e il nuovo calendario. Il calcolo pare diventare ancora più difficile per il filosofo Seneca, nato probabilmente proprio nell'anno zero, supposto però che ci sia consentito correggere in questo modo un calendario evidentemente frammentario.
Come è potuto prodursi un tale errore, appena concepibile dal nostro punto di vista? Esso si spiega facilmente pensando al fatto storico-linguistico per cui nei testi antichi, specie nei calendari, gli anni si indicavano regolarmente mediante numeri ordinali e non cardinali. Ora, nell'inventario dei numeri ordinali non esiste un numero zero, da chiamare forse «lo zerotimo» o qualcosa del genere. Per ordinare una serie di persone o di oggetti cominciamo infatti senz'altro dal primo, per continuare con il secondo, il terzo e così via. In questo modo possiamo pensare di rappresentare anche gli anni prima e dopo la nascita di Cristo mediante una doppia serie di persone, l'una orientata verso il passato, l'altra verso il futuro, cosicché le prime persone di entrambe le serie si trovano in posizione contigua tergo a tergo. Tra di loro non c'è spazio per un anno vissuto ma soltanto per una linea di demarcazione. Il problema dunque dell'anno zero è nato nel momento in cui si è passati dalla numerazione ordinale a quella cardinale; e siccome in nessun calendario si pensa di ritornare ai numeri ordinali, l'anno zero rimane probabilmente perduto nell'eternità divina. In pratica però il problema dell'anno zero non è particolarmente molesto in quanto in molte lingue il calcolo dei giorni, dei mesi e degli anni consta di una mescolanza abbastanza fantastica di numeri ordinali e cardinali. Rispetto ai secoli ad esempio, la lingua italiana si concede persino il simpatico lusso di usare due sistemi in concorrenza, l'uno, peculiare all'italiano, basato sui numeri cardinali (Ottocento, Novecento), l'altro, meno usato ma condiviso con la maggioranza delle lingue europee, basato sui numeri ordinali (secolo diciannovesimo, ventesimo).
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È tempo di chiudere queste considerazioni «zerologiche», nelle quali ho cercato di offrire un piedistallo linguistico alle lezioni interdisciplinari che seguiranno. Ma prima di cedere la cattedra ai colleghi di altre discipline, vorrei riassumere in dieci punti (per forza dieci, giacché siamo figli dell'ordine decimale) i risultati, magari provvisori, ottenuti finora.
I. Pare legittimo, almeno a un primo approccio metodologico, considerare la matematica, col suo intero repertorio di segni e con una buona parte delle sue regole operazionali, una provincia specifica della linguistica. Ne risulta che, in linea di principio, le descrizioni linguistiche del materiale numerico rimangono in vigore persino nelle operazioni più raffinate della scienza matematica.
II. In tale approccio linguistico, è indispensabile distinguere tra un uso orale e un uso scritto, condotto quest'ultimo, secondo le norme di varie ortografie numerali (numerazione romana, numerazione indo-araba). In prospettiva storica conviene anche tener conto del calcolo digitale nel senso fisico di quest'aggettivo, cioè di calcolo fatto con l'aiuto delle dita.
III. Nell'approccio linguistico, inoltre, i numeri cardinali e ordinali presentano uguale interesse. Questa regola si manifesta, ad esempio, nelle numerose anomalie del calendario antico e moderno, nel quale si mescolano secondo regole diverse i numeri cardinali e ordinali.
IV. In ogni approccio linguistico è importante non confondere le forme nulla e niente, morfemi di negazione, con la forma zero, morfema numerico e non negativo. La cifra zero si limita a constatare un'assenza di numeri, ma non cancella al suo posto un'attesa preesistente. Nel linguaggio comune non si usa la forma zero se non in casi di interferenza con il linguaggio specialistico della matematica.
V. La cifra zero, entrata assai tardi, al pari della matematica cosiddetta indo-araba, nel sistema numerico europeo, è del tutto sconosciuta nelle numerazioni orali, digitali e ordinali del latino e dell'italiano, senza che questa mancanza renda inoperabili tali numeri e calcoli. Di fronte a questo orizzonte culturale anche la matematica dantesca come si manifesta nella Vita Nuova e nella Divina Commedia è rispettabilissima pur operando senza zero.
VI. Tutti i sistemi matematici sopra menzionati si servono, anche se in forma e in misura diverse, oltre che del valore «naturale» delle cifre da zero a nove, di un valore «posizionale» di esse. Il valore posizionale entra in scena nella formazione di numeri complessi tramite la messa in serie («testuale») delle cifre semplici. Nel sistema indo-arabo la posizionalità funziona utilizzando una qualsiasi cifra posposta a un'altra, che agisce da operatore di un rafforzamento moltiplicativo della cifra anteposta. La «forza» posizionale non cancella il valore naturale delle cifre coinvolte in questa operazione.
VII. Il principio della posizionalità fondamentale nella numerazione indo-araba, non è sconosciuto al pensiero occidentale. Sin dall'antichità la prosodia quantitativa greco-latina distingue tra vocali lunghe naturā e positione. La lunghezza posizionale è il valore raddoppiato di una vocale breve in funzione di una consonante raddoppiata o di due consonanti in posposizione rispetto ad essa. In questa prospettiva metrica, la posizionalità, considerata un'impostazione indo-araba, è più nostrana di quanto si dica.
VIII. In tutti i numeri composti la cifra zero, pur significando, nel suo valore naturale, un'assenza di elementi numerabili, condivide con tutte le altre cifre la «forza» moltiplicativa esercitata tra cifre anteposte e posposte. Nel nostro sistema decimale questa moltiplicazione è decimale. Nello zero, la forza decimale è più spiccata che nelle altre cifre in quanto essa non poggia su alcun piedistallo naturale, ma proprio su nulla.
IX. Nel calendario cristiano, diviso in due serie di anni, una discendente «ante» e una ascendente «post Christum natum», manca un anno zero. Questa mancanza è dovuta al fatto che per parecchi secoli gli anni vennero contati mediante numeri ordinali che ignoravano lo zero.
X. In tutte le formazioni di numeri complessi secondo la regola della posizionalità, la «forza» dell'operazione moltiplicativa produce un aumento più considerevole, perché decimale, del modesto aumento addizionale dovuto al valore naturale delle singole cifre coinvolte nell'operazione. Nel caso dello zero questo contrasto tra l'addizione «povera» e la moltiplicazione «ricca» si manifesta in massimo grado, giacché in questo caso la sola addizione non apporta alcun profitto. Questo fatto illustra una certa affinità tra lo zero e la ricchezza. Così lo zero, nonostante la sua nullità naturale, può divenire, grazie alla sua posizionalità pura, un simbolo dell'aumento massimamente profittevole. In molte operazioni commerciali quindi pare economico, anzi persino liberale e generoso, trascurare il contributo sempre modesto dell'addizione per puntare interamente sull'apporto rapido della moltiplicazione decimale. Spesso quindi lo zero diventa, tra le altre cifre, quella che fa più bella figura.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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– Seife Charles, Zero: The Biography of a Dangerous Idea, New York, Viking, 2000.
Questo saggio è stato pubblicato in traduzione italiana per la prima volta in “Lettere italiane”, 4/2000, pp. 513-529. Ringraziamo il Prof. Harald Weinrich, Francesca Rigotti e la rivista “Lettere italiane”.
Nota sul titolo: Prolusione a 'Anno Zero-Grado Zero', XLII Corso Internazionale di Alta Cultura della Fondazione Giorgio Cini (Venezia, 28 agosto-9 settembre 2000). Ringrazio vivamente la professoressa Francesca Rigotti per la revisione stilistica di questo articolo [H.W.]