Tiago Rodrigues: comizi d’odio e d’amore
Tiago Rodrigues, portoghese, enfant prodige del teatro mondiale, attualmente direttore del Festival d’Avignon, congeda Catarina e a beleza de matar fascistas (Catarina e la bellezza di ammazzare fascisti) nell’autunno del 2020, non casualmente in piena pandemia.
Concepito nell’Europa allarmata e disorientata delle caotiche e autoritarie prime misure di politica sanitaria, lo spettacolo viene poi ibernato per mesi. Come tutto il teatro, il cinema, la musica, i musei, le gallerie d’arte, le attività culturali e ludiche occidentali. Il tempo e lo spazio del gioco, del godimento e del desiderio sono sospesi. Siamo entrati in una fase claustrofilica – o, se preferite, agorafobica – ufficialmente sine die. Saranno i governi, non i parlamenti, e un codazzo di ‘esperti’ a sancire il passaggio a uno stato di terrore vigilato o di obbedienza delegante. Negli interni domestici, tuttavia, avviene altro e circolano altri pensieri.
Da sempre Tiago Rodrigues, autore, drammaturgo e regista, dà vita a spettacoli che fanno esplodere i testi girandoli, rigirandoli, alla lettera riducendoli in briciole per poi rimontarli minuziosamente come fossero rompicapo in cui ogni tessera è alla ricerca del proprio incastro, ma non è detto che trovi quello in origine ad essa destinato. Da bambina avevo quattro puzzle, i cui pezzi erano identici per forma e dimensioni. Raffiguravano un leone, una giraffa, un cervo e un elefante. Mi divertivo moltissimo a rimontarli a caso e così il leone poteva avere la proboscide e la giraffa un palco di corna. E andava tutto benissimo, perciò mi chiedevo chi mai avesse deciso che le cose dovessero stare al posto loro assegnato, chi lo avesse stabilito e perché.
Ecco, il lavoro teatrale di Tiago, giocoso e acutissimo, ardito e spregiudicato, propone proprio questo esercizio: domandarsi instancabilmente il perché delle cose o, in altre parole, contestare l’ordine che ad esse è stato dato, interrogandolo. Dubbio al posto di fede e certezze. Pensare con la propria testa invece di adeguarsi alle idee ricevute. Riflettere anziché rispecchiare. Osservazione e ragionamento anziché pre-giudizio. A costo di sbagliare e a condizione di saperlo riconoscere. Lo si potrebbe definire un progetto pedagogico.
Catarina e a beleza de matar fascistas, che in primavera è transitato rapidamente dalle nostre parti (dall’11 al 14 aprile al Teatro Argentina di Roma e il 28/29 aprile al Teatro Storchi di Modena), dal 7 al 30 ottobre è stato riproposto alle Bouffes du Nord di Parigi, a lungo sede storica della compagnia teatrale di Peter Brook. Per chi non ci fosse ancora stato, si tratta di una straordinaria, fatiscente sala semicircolare dove attori e pubblico sono così limitrofi da poter interagire e interferire.
Va detto perché, nel caso dello spettacolo in questione, quella pericolanza e quella vicinanza sono elementi chiave che l’autore/regista ha ben calcolato e trasformato in potenziali micce incendiarie. Ma vediamo di che cosa si tratta.
Alla radice di Catarina c’è un fatto storico. Il 19 maggio 1954, a Bailezão, un villaggio dell’Alentejo, una mietitrice analfabeta, Catarina Eufémia, viene assassinata a sangue freddo da un tenente della Guarda Nacional Republicana. Insieme a tredici compagne è entrata in sciopero per ottenere due scudi di aumento sulla paga giornaliera. Scelta come rappresentante dalle altre donne, al tenente che la interroga risponde che vogliono solo "lavoro e pane". Lui la schiaffeggia e lei cade a terra. Rialzatasi, gli dice, "E adesso ammazzami". Lui le spara tre volte, uccidendola e ferendo anche il figlio di otto mesi che Catarina stringe tra le braccia. La donna sarà ‘vendicata’ da un’altra donna, la matriarca della famiglia, che uccide il proprio marito, un gendarme, per non essere intervenuto in difesa dell’amica Catarina.
Su questa vicenda si innesta la saga distopica di Rodrigues. Ogni anno, dal giorno dell’uccisione di Catarina, un membro della famiglia – la Catarina di turno – compie il gesto rituale di abbattere un fascista, perché con il fascismo non si media. Siamo nel 2028 e in Portogallo si è instaurato nuovamente un regime totalitario. A dover impugnare la pistola tocca questa volta alla piccola della famiglia, una giovane donna che si professa vegana, pacifista, nemica delle ideologie, non delle idee, care ai suoi familiari.
Stanca delle citazioni brechtiane di uno zio edonista e parolaio e del mutismo assordante ed escapista del fratello, quando le mettono in mano l’arma che dovrebbe fare di lei una ‘combattente per la libertà’, la Catarina in pectore ha l’ardire di interrogarsi e interrogare i suoi su alcuni concetti cari alla sinistra occidentale. In che cosa consiste la ‘libertà’ di uccidere in nome della democrazia, se quel gesto non ha in sé niente di libero?
Se altro non è che l’eredità pesante e indiscussa di una tradizione, di un automatismo psichico che mette al riparo dai sensi di colpa e solleva dalla responsabilità di scegliere? È perseverando in un rito di sangue, accodandosi a un diktat patriarcale, che si mette al mondo il futuro? Che cos’è il fascismo? Che cos’è a fare di un fascista un fascista? Sono immaginabili, oggi, forme di lotta meno fruste, più lievi e ironiche, meno marziali e machiste?
La prima parte dello spettacolo è il lento costruirsi di questo teorema del dubbio. Il senso di quella claustrofobica ricorrenza – il sanguinario rinnovarsi di un patto di sangue – viene alternativamente scardinato tanto dall’assuefazione alla norma di casa quanto dal suo rifiuto. E lo slogan tracciato sulla tovaglia della tavola/altare imbandita di cibo come per una Pasqua laica, “Não passarão”, non passeranno, sembra più un motto scaramantico che un invito alla vigilanza. Questa famiglia di nostalgici combattenti viene da Rodrigues passata spietatamente al vaglio di una sorta di metal detector satirico che a tratti li riduce a burletta.
Quelle Catarina di sesso maschile in ingombranti abiti femminili, sazi e golosi, così convinti di essere dalla parte della ragione, quelle donne austere e mestissime, così certe che la ripetizione di un gesto cruento faccia scudo al riproporsi della violenza, sembrano impigliati nel passato, prigionieri del suo lessico e delle sue metafore. La stessa magnifica macchina scenica progettata da F. Ribeiro – una casa di legno che si dispiega come un paravento attorno a un albero di sughero (lì sotto, da sempre, vengono sepolti i fascisti ammazzati) di cui è vietato fare commercio – è tomba e sigillo. Tiago sembra dirci che il nuovo non può nascere se il vecchio non muore, che il nuovo totalitarismo può germogliare proprio dalla resistenza delle sinistre a pensare pensieri inediti, scomodi, audaci.
Per tutto il tempo della querelle intrafamiliare, il fascista sequestrato per la bisogna annuale, attende la propria esecuzione seduto, immobile e muto, a capotavola. Cravatta azzurra allentata, sembra voler far dimenticare la sua presenza. Testimone dell’impasse di quella famiglia, delle sue contraddizioni e del suo distacco dalla realtà che è per definizione mutevole, aspetta in silenzio.
E infatti, una quarantina di minuti prima della fine dello spettacolo, consumatosi fino in fondo il gran rifiuto di Catarina, il fascista liberato si accampa – nodo della cravatta non più allentato – al centro della scena, praticamente in mezzo al pubblico della platea, trasformando il dramma a più voci in un lungo monologo/comizio dal meccanismo retorico impeccabile. Tiago Rodrigues lo ha scritto senza metterci neppure una parola propria. Il suo è stato un meticoloso lavoro di montaggio dei vigorosi “discorsi della vittoria” pronunciati in questi anni da Salvini, Le Pen, Bolsonaro, Ventura, Trump, Orban….
Il fascista sfuggito alla morte è pronto a governare e il discorso che apparecchia per il pubblico ormai trasformato in popolo è un autentico programma politico. Dall’educazione alla sicurezza, dal lavoro alla famiglia, dalla sanità alla difesa di valori, confini, ruoli sessuali, dall’economia alla cultura, dalle politiche migratorie a quelle di genere, dalla violenza contro le donne all’aborto, tutto ha come incipit il tema della libertà. L’altezzoso riserbo, l’elitarismo incapace di accendere una qualsivoglia speranza o fiducia, di tanta sinistra attuale le si ritorce contro come un boomerang. Quest’uomo così capace di farsi capire, di comunicare, dice cose spaventose e al contempo galvanizza, spazzando letteralmente via l’ormai residuale famiglia antifascista. Come è possibile?
Quella di Rodrigues è una provocazione ad alta intensità di azzardo politico. Io, che solo due giorni prima ho ascoltato attonita e ammirata il discorso sulla fiducia del nuovo premier italiano, sono totalmente a disagio. Il comizio teatrale dell’attore portoghese Romeu Costa è un congegno retorico altrettanto oliato, quasi una fotocopia: seduce e sgomenta. E il bello è che lo spettacolo finisce di colpo proprio insieme a quel comizio, sicché il pubblico si trova costretto ad applaudirlo per applaudire l’intero spettacolo oppure a lasciare il teatro in silenzio o fischiando, urlando, borbottando. Ed è su quell’ambiguità che si misura la tenuta e la genialità dell’opera. A Parigi, in altre serate, durante quella mezz’ora finale alcuni spettatori si sono accapigliati, hanno tirato oggetti contro l’attore, inveito, manifestato apertamente il proprio dissenso o la propria incantata adesione.
Già, perché Tiago Rodrigues ha scelto di non offrire al pubblico alcuna catarsi. Qui le passioni non si purificano, semmai si incendiano. E lo spazio teatrale si fa replica di un conflitto, di un’impotenza e di una rinata potenza. Sarà il pubblico a doversela vedere con se stesso, con la propria capacità critica, con il proprio malessere o con la propria arrogante indifferenza. Il monologo del ‘fascista’, così simile al discorso pubblico di tanti capi di stato e primi ministri del democratico Occidente, va trattato con sottili armi analitiche, smembrato, rivoltato, imparato a memoria per scoprirne i punti ciechi, le sacche di vuoto, le derive propagandistiche.
La tecnica del découpage letterario che Rodrigues ha applicato a tanti classici, dai sonetti di Shakespeare a testi di Strindberg, Čechov, Tolstòj, Flaubert, qui viene suggerita come strumento di ‘intelligenza’ della realtà contemporanea. Se nel suo adattamento de La signorina Julie, la menina Júlia poteva ambire a um outro fim, un altro finale, e la tragedia trasformarsi in commedia, il possibile riscatto della multipla e sconfitta Catarina è affidato alla nostra immaginazione attiva e alla nostra disponibilità a non ridurre il teatro a luogo di consumo culturale riservato a pochi.
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