Letto in un’altra lingua / Tiger Tateishi, Tigri di carta e di sogno

6 Novembre 2019

In un articolo intitolato “Il pianeta come festival”, apparso nel 1972 su Casabella (n. 365) e l’anno seguente su Design Quarterly (n. 89), Ettore Sottsass jr. immaginava un futuro nel quale le città fossero scomparse dalla faccia della Terra, polverizzate dalla «decentralizzazione esplosiva della distribuzione dei consumi», con parole che oggi, lette a prescindere dal contesto culturale dell’epoca, non possono che richiamare alla mente il mondo iper-connesso della contemporaneità:

 

Il problema di “produrre” non c’è più, […] i “prodotti da consumare” si spostano automaticamente lungo i canali di una specie di rete sotterranea di super-posta pneumatica, interrogata automaticamente da tastiere portatili comunicanti via radio con i calcolatori dei super-magazzini di raccolta. […] Così siamo diventati tutti artisti artigiani, provvisti di super-strumenti per fare da soli quello che ci pare, e siamo anche artisti-nomadi […] perché possediamo questa super-possibilità di comunicare che ci permette sempre di sapere tutto (di tutto e di tutti) e ci permette di far sapere (a tutti) tutto di noi […]. Siamo arrivati ad uno stadio nel quale siamo sempre noi i rappresentanti di noi stessi; […] al punto che non ci sono più poteri ma ci sono flussi vaganti di volontà e di passioni pubbliche […] come assestamenti o moti molecolari di liquidi o gas […].

 

Molti progetti di architettura radicale che si sono succeduti dagli anni ’50 – dalla città galleggiante di Kiyonori Kikutake a quella a forma di imbuto di Walter Jonas, dalla città sotterranea di Paul Laszlo a quelle aeree e spaziali di Paul Maymont e Yona Friedman –, hanno immaginato il futuro a partire dalla forma di una città. Nella visione di Sottsass, al contrario, il collasso della civiltà urbanistica basata sul lavoro e sulla produzione si è già consumato, e con l’avvento di una nuova civiltà del tempo libero sembra essersi esaurita ogni spinta utopistica. Per il «figlio di un’era ansiosa di futuro», come si definisce l’autore, non rimane alcuna proposta da offrire come modello alla società, né alcuna architettura da disegnare, ma solo «la possibilità di immaginare architetture disegnate da altri».

 

 

 

Gli edifici del futuro, nelle illustrazioni che accompagnano il testo, spiccano come residui isolati tra vasti paesaggi rocciosi e desertici, ai margini di foreste equatoriali o lungo impetuosi corsi d’acqua. Concepiti come monadi chiamate templi o stadi, sono destinati essenzialmente allo svago, e in particolare all’ascolto della musica, all’osservazione della natura e all’arricchimento interiore. La struttura più complessa appartiene a un tempio per danze erotiche, composto da una serie di padiglioni che ricordano l’analogo progetto dell’Oikema disegnato a fine ‘700 da Claude-Nicolas Ledoux. L’unica strada, una tortuosa strada panoramica simile a un drago che attraversa un fiume nella giungla, è invece paragonata a «una Muraglia Cinese inerme, fragile e inutile», con un richiamo ai viaggi di Sottsass in Oriente, ma anche alle origini asiatiche dell’artista che ha tradotto su carta le sue fantasie.

 

Sulle tracce di Tiger Tateishi

 

La criptica firma “Tiger Pinxit” figura in basso a destra nell’ultima immagine della serie, e in altre illustrazioni di Sottsass, come quelle realizzate per una mostra al MoMA di New York, compare nella versione completa di nome e cognome: “Tiger Tateishi Pinxit”. Le scarse informazioni reperibili su testi italiani suggeriscono che Tateishi lavorò per lo studio di Sottsass dal 1971 al 1974, e qualche anno più tardi creò per il progetto Paesaggio casalingo di Alessi (1979) una serie di disegni all’aerografo dei circa trecento oggetti storici dell’industria, ma sono avare di notizie biografiche. Un più dettagliato profilo dell’artista e della sua carriera si ricava comunque da una ricerca incrociata su testi e siti web giapponesi.

 

Nato nel 1941 a Tagawa, città della prefettura di Fukuoka nota per le miniere di carbone, Tiger Tateishi (all’anagrafe Kōichi Tateishi) studiò al Musashino Art University Junior College of Art and Design e si formò a Tokyo negli ambienti dell’avanguardia, stimolato da suggestioni che includevano la Pop art e l’Anti-arte, ma anche i cartoni animati di Walt Disney e i fumetti della rivista satirica MAD, portati in Giappone dalle truppe americane. Nel 1963 partecipò alla Yomiuri Independent Exhibition, e nel 1964, in concomitanza con le Olimpiadi di Tokyo, fondò con Hiroshi Nakamura il Kankō Geijutsu Kenkyūjo (“Tourist Art Research Center”), realizzando dipinti surreali che mescolavano simboli della cultura orientale e del mondo contemporaneo.

 

 

 

Molti di questi simboli possedevano all’epoca una forte connotazione politica, ma nell’arte di Tateishi, a differenza dei lavori di altri artisti come Genpei Akasegawa, compaiono essenzialmente in funzione parodica o mistificante, senza alcun preciso intento ideologico. Un simbolo ancestrale di potenza ed eleganza come quello della tigre, in particolare, evocava senz’altro nell’immaginario comune il clima della guerra – “tigri volanti” era il soprannome di un gruppo aereo inviato nel 1941 dagli Stati Uniti in Cina per dare un supporto militare contro il Giappone, e “tigri di carta”, a detta di Mao, erano gli imperialisti americani –, ma divenne per Tateishi l’emblema di un’arte elusiva, ispirata dall’idea di una realtà illusoria e metamorfica.

 

Nel 1968, firmandosi Tiger, Tateishi pubblicò a sue spese una raccolta di fumetti nonsense senza parole, e l’anno successivo si trasferì a Milano con la moglie Fumiko. In parallelo ai vari incarichi di lavoro, la sperimentazione di Tateishi si concentrò in questa fase su una sintesi delle sue principali passioni, ovvero la pittura surrealista e il fumetto, e diede origine ai primi dipinti “a vignette”, delle tavole strutturate in modo sequenziale ma passibili di una fruizione simultanea, nelle quali le potenzialità espressive dei due medium si coniugano con risultati sorprendenti. Scompare, o comunque si diluisce, l’accumulo di simboli, personaggi e icone della contemporaneità che negli anni passati avevano affollato le sue opere, e subentrano le figure di una realtà parallela, nascosta e in costante trasformazione, anticipate nelle primissime tavole dalla frequente comparsa di alieni, dischi volanti e scenari extraterrestri. I racconti di fantascienza di Robert Sheckley (Untouched by Human Hands, 1954), come ricorda la moglie, fornirono lo spunto iniziale dei primi dipinti della serie, ma il motivo del contatto con altre realtà o percezioni spazio-temporali, al di là del dato tematico, si riflette sul piano stilistico nella resa di un mondo multidimensionale che prende a modello le superfici non orientabili della topologia matematica, come il nastro di Möbius e la bottiglia di Klein, nelle quali non è ravvisabile alcuna distinzione tra interno ed esterno.

 

 

 

Per l’artista furono anni di grandi scoperte e di intenso lavoro, come testimoniano le molte tele prodotte e le varie influenze rintracciabili (De Chirico, Dalì, Magritte e Picasso su tutti). Tateishi trovò il suo gallerista di riferimento nel greco Alexander Iolas, celebre per le sue collezioni surrealiste, e nel 1972 tenne la prima esposizione personale europea a Ginevra. Nel numero 406 di Casabella (1975) apparve una sua opera in copertina e una selezione di tavole intitolata “Gli altri mondi di Tiger Tateishi”. Dopo aver realizzato circa un centinaio di opere, tuttavia, Tateishi tornò all’inizio degli anni ’80 in Giappone, dove pubblicò per l’editore Kousakusha un volume di fumetti che inizialmente avrebbe dovuto uscire per le edizioni Penguin (Tora no maki, “Il libro della tigre”, 1982). Stabilitosi definitivamente in Giappone, nei due decenni successivi proseguì a dipingere su vari supporti, fu protagonista di diverse esposizioni e avviò anche una collaborazione con l’editore Fukuinkan Shoten, che gli affidò la creazione di serie a fumetti e libri illustrati per bambini.

 

Il sogno della tigre

 

L’International Library of Children’s Literature di Tokyo è stata aperta nel 2002, ovvero quattro anni dopo la morte di Tiger Tateishi, nel palazzo che dal 1872 ospitava l’Imperial Library, la più antica biblioteca nazionale giapponese. Si trova a due passi dal Parco Ueno ed è un’istituzione unica nel suo genere, interamente consacrata alla letteratura per e sull’infanzia, con sale di lettura per bambini, studenti e ricercatori, e libri provenienti da ogni parte del mondo. Sugli scaffali della galleria ospitata al secondo dei tre piani, che raccoglie una selezione di libri per bambini giapponesi pubblicati dall’inizio del Novecento a oggi, ci sono centinaia di volumi liberamente consultabili, tra i quali un albo illustrato con una copertina dai colori irreali.

 

Il narratore di un racconto di Borges, Tigri azzurre (1977), dice di essere stato affascinato fin dalla più tenera età dalla tigre, «simbolo di terribile eleganza». In un frammento del Libro di sogni (1976) intitolato Dreamtigers, che è forse l’embrione della storia, i ricordi d’infanzia sono gli stessi: «Spesso mi attardavo senza fine davanti a una delle gabbie dello zoo; amavo le vaste enciclopedie e i libri di storia naturale, per lo splendore delle loro tigri». Sia nel frammento che nel racconto, inoltre, il conflitto tra sogno e realtà è espressione di una natura irrazionale, sulla quale ogni forma di controllo che il soggetto prova a esercitare risulta inefficace. Nel frammento, il narratore vuole sognare una tigre perfetta, e la tigre «appare, sì, ma smunta o svigorita, o con impure variazioni dell’aspetto, o di misura inaccettabile, o fugace, o con qualcosa di cane o di uccello». Nel racconto, il narratore va sul delta del Gange alla ricerca di una tigre azzurra cha ha visto su un’incisione e che gli è apparsa poi in sogno, ma scopre che gli abitanti del villaggio chiamano “tigri azzurre” delle pietre dotate della terrificante proprietà di aumentare o diminuire il loro numero da un momento all’altro.

 

 

 

È probabilmente impossibile stabilire una diretta influenza di Borges su Tateishi, ma di fronte alla tigre verde di Tora no yume (“Il sogno della tigre”, 1984) il pensiero corre subito al ricordo delle tigri borgesiane. Anche la tigre di Tateishi ha una natura ambigua e sfuggente, sia singolare che molteplice, così come lo scenario che attraversa: mentre cammina in un deserto, lambisce degli specchi d’acqua circolari o si inoltra in un labirinto, le diverse immagini che compaiono sulla pagina non evidenziano tanto la successione dei suoi movimenti nello spazio e nel tempo, ma corrispondono a colpo d’occhio ad altrettante tigri, ognuna delle quali continua a esistere simultaneamente insieme alle altre. Come le tigri di Borges e le creature del Codex Seraphinianus (1981), inoltre, le tigri verdi di Tateishi sono dotate di prodigiose facoltà metamorfiche: possono nascere da un blocco di pietra, acciambellarsi fino a diventare delle angurie, oppure trasformarsi nelle tradizionali bambole Daruma. Osservando bene la copertina si può notare che la tigre è sospesa a mezz’aria, e gli alberi sullo sfondo sono formati da coppie di tigri. Lo stesso viaggio onirico, infine, conduce la tigre attraverso un percorso in continua evoluzione, che dalla solitudine iniziale sfocia nell’incontro con una moltitudine di tigri diverse, e poi in un nuovo sogno.

 

È molto raro trovare un tesoro, ma il campo della letteratura per l’infanzia, ancora largamente inesplorato, è uno dei più promettenti per compiere scoperte di questo genere. Ho cominciato a sfogliare il libro con l’impressione di avere tra le mani un esemplare unico, o addirittura un oggetto illusorio che poteva svanire da un momento all’altro davanti ai miei occhi, come capita al risveglio da certi sogni. Uscito dalla biblioteca sono andato a caccia di altre copie: se fossi tornato a Milano a mani vuote temevo che prima o poi avrei finito per dimenticarmene. Scoprii che il libro era stato ristampato due volte, nel 1999 e nel 2008, ma da tempo non era più disponibile nelle librerie. Nell’unico negozio di libri usati che a Tokyo aveva messo in vendita una copia su un sito web, situato nell’area di Musashino, il libro sembrava scomparso dagli scaffali, e solo dopo una lunga ricerca in magazzino fu possibile trovarlo. Non avevo mai sentito parlare dell’autore, ma mi sembrava di conoscerlo da tempo per via di qualche illustrazione vista chissà dove, oppure di una storia che mi aveva affascinato per gli stessi motivi. Il fatto che Tiger fosse vissuto a Milano mi stupì fino a un certo punto. Anche quando vidi i suoi impressionanti dipinti, comunque, rimasi convinto che l’espressione più raffinata della sua arte si trovasse tra le pagine di un libro per bambini.

 

In un articolo contenuto in un volume di opere di Tateishi, Arata Isozaki racconta tra le altre cose di quando nello studio di Sottsass, osservando delle illustrazioni, l’autore si rese conto che era stato l’artista giapponese a realizzarle, ma non riuscì in nessun modo a incontrarlo, e di quando ricevette qualche anno più tardi un pacco che doveva contenere alcuni suoi libri, ma che una volta aperto si rivelò vuoto. «Forse il contenuto era scivolato in qualche altra dimensione sulla via da Milano a Tokyo,» dice, «oppure il pacco era caduto in una trappola spaziale». Invece di chiedere all’ufficio postale di fare un’indagine, decise comunque di conservare la scatola. «Nella fantascienza,» infatti, «gli oggetti a quattro dimensioni che scompaiono in una curvatura spazio-temporale, in genere, ricompaiono alla fine da qualche parte».

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