Tipi strani 3. Sylvère Lotringer, padre della French Theory
Conoscevo Semiotext(e), avevo comprato la versione inglese di Nomadologia anni prima a Londra, ero andato a vedermi il catalogo, molto, molto bello e in piena sintonia con le mie dedizioni del tempo. Non sapevo chi ci fosse dietro, poi succedono casi strani che portano a contatto con storie e mondi che poco alla volta si disvelano e si rivelano chiavi interpretative di tanto altro. Il caso è stato l’incontro, poi reiterato negli anni, a casa di Marco Dotti con Sylvère Lotringer, che di Semitext(e), rivista e casa editrice, è stato creatore ed editore. Questo pezzetto sui tipi strani vuole ricostruire, ora che ci ha lasciati, lo straordinario lavoro di Sylvère, e mostrare come sia stato fondamentale per elaborare il pensiero delle scienze sociali, le humanities contemporanee, di qua e di là dell’oceano. E i tipi strani? Nel nostro percorso ne salteranno fuori parecchi, e tutti devono molto al suo instancabile lavoro di promozione culturale. Lui è il responsabile del trasbordo oltre oceano della French Theory, e per conseguenza dell’affermazione di quella nebulosa teorica in cui si inscrive tanto pensiero del tempo presente, tra avanguardie artistiche e teoriche, analisi di fenomeni marginali secondo coordinate inedite e ripensamento del mondo, la Theory.
François Cusset in French Theory: Foucault, Derrida, Deleuze & Co. all’assalto dell’America (edizione italiana Il saggiatore, 2012) riconosce il ruolo fondamentale di Sylvère e gli dedica un ritratto molto bello ed empatico nel terzo capitolo, in cui ricostruisce le vicende biografiche e della casa editrice. Qui mi limito a qualche coordinata essenziale.
Dottorato parigino con Lucien Goldmann e Roland Barthes, poi fa ricerca e si muove nei circoli e nelle riviste letterari parigini, a lui si deve la scoperta degli appunti di Saussure sugli anagrammi nel verso saturnio, da cui Jean Starobinski trarrà Les mots sous les mots: Les anagrammes de Ferdinand de Saussure (1971), va a insegnare letteratura francese alla Columbia, nel novembre del 1975 organizza il convegno “Schizo-Culture”, vero atto fondativo della French Theory, fenomeno specificamente americano di ibridazione con la filosofia francese degli anni precedenti. Vi partecipano filosofi francesi, Deleuze, Foucault, Guattari, Lyotard, antipsichiatri inglesi come Cooper, scrittori, Burroughs, Wolfson, attivisti politici americani. La pietanza con troppi ingredienti implode, per problemi di traduzione, per l’intemperanza degli attivisti, perché oggettivamente mancava un terreno comune. I filosofi francesi scapparono a rifugiarsi al Chelsea Hotel in cui erano alloggiati, disertando il seguito di ciò che Foucault definì l’“ultimo evento controculturale degli anni sessanta”. Da quell’incontro venne tratto un meraviglioso volume della rivista Semiotext(e) in cui si ritrovano giustapposti, tra gli altri, Michel Foucault, Guy Hocquenghem, i Ramones, William Burroughs, Louis Wolfson, David Cooper, John Giorno, Kathy Acker, Ulrike Meinhof, Gilles Deleuze, John Cage, Jean Jacques Abrahams, Philip Glass, Jack Smith e Jean François Lyotard. Avanguardie musicali, filosofiche, politiche, poetiche, letterarie. Il brodo di coltura della Theory.
Ho avuto due occasioni di interazione lavorativa con Sylvère, riguardo a due dei nomi riportati sopra, Louis Wolfson e Jean Jacques Abrahams. Su Abrahams mi aveva passato materiali interessantissimi che sono stati utili alla confezione di Un singolare gatto selvatico: Jean Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono (che ho curato con Pietro Barbetta e Giacomo Conserva, Ombre corte, 2016: qui la recensione di M. Montanari), al libro che ho editato sempre con Pietro Barbetta su Wolfson (Louis Wolfson: Cronache da un pianeta infernale, Manifestolibri, 2014: N. Janigro ne parla qui) ha invece partecipato con un testo che abbiamo coltivato insieme. La base di lavoro era lo sbobinamento dell’intervista che Duccio Fabbri gli aveva chiesto per il suo film su Wolfson (Squizo, recentemente passato in RAI: qui la recensione), lui l’aveva rivista, io l’avevo tradotta, la rilettura gli innescava altri raccordi, così ci si era ripassati più volte il testo, a ogni passaggio lo rielaborava, toglieva e aggiungeva cose, io ero entusiasta per le aggiunte e dispiaciuto per quanto levato, tanta era la ricchezza dei materiali che proponeva. Il pezzo si apre sull’incontro di Sylvère con Wolfson a Schizo culture:
"Nel 1973 trascorsi un anno in Francia e divenni molto prossimo a Gilles Deleuze, ma soprattutto a Félix Guattari. Ebbi l’idea di organizzare una conferenza, “Schizo-culture”, su manicomi e prigioni. Stavo cercando di mettere insieme filosofi e artisti francesi e americani. Wolfson era un americano che stava scrivendo in francese per il rifiuto, almeno così sembrava, della sua lingua madre, per cui era una situazione che mi sembrava gli fosse perfettamente adeguata. Ho incontrato prima i filosofi francesi in Francia, e mi aveva colpito il fatto che le riflessioni di John Cage, pubblicate in Francia in un libro dal titolo For the Birds (Pour les Oiseaux, che in francese non aveva senso perché significa “per niente”), sembrassero molto prossime ai nietzscheani francesi, Foucault, Deleuze e Guattari, che avevo invitato alla conferenza a New York. For the birds era un libro di interviste con il musicologo francese Daniel Charles, ma Charles aveva perso i nastri originali in inglese. Feci così ritradurre il testo dal francese, e paradossalmente fu il primo libro “francese” che Semiotext(e), una rivista che avevo creato in quel periodo, pubblicò in America. Così l’idea che il francese e l’inglese stessero entrando in una sorta di strana danza era presente fin dall’inizio.
Invitai quindi Louis Wolfson all’evento di quattro giorni che organizzai alla Columbia University, quando vi insegnavo letteratura francese, nell’autunno del 1975. Come Le Schizo et les langues, la conferenza aveva a che fare tanto con la cultura francese quanto con quella inglese, e il tema principale era prigioni e schizofrenia. Erano presenti coi francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari, Michel Foucault e Jean-Francois Lyotard, anche John Cage e William Burroughs, che era appena tornato dall’esilio autoimposto in Inghilterra. Così si potrebbe dire che l’intero evento, che presto si rivelò essere molto polarizzato e rissoso, e che coinvolse, inaspettatamente, circa duemila persone, fu un’estensione del lavoro di Wolfson. Infatti, lo “schizo” fu la prima persona che incontrai arrivando la mattina della conferenza. Vidi un uomo con delle specie di strani aggeggi nelle orecchie (il Walkman non esisteva ancora) in piedi nel corridoio di fronte al muro, apparentemente indifferente a tutto ciò che stava accadendo intorno a lui. Per quanto avevo letto, poteva essere solo Wolfson. Andai da lui e gli proposi di farlo incontrare con Deleuze. Era un contesto perfetto, l’andirivieni continuo tra le lingue, traduzioni su cui la gente non era d’accordo e su cui discuteva animatamente, in un’escalation di violenza da entrambe le parti. L’incapacità di comunicazione tra i filosofi francesi e gli psichiatri radicali e i marxisti à l’américaine era al suo giusto esordio, e ci vollero una o due decadi perché si realizzasse compiutamente".
In qualche modo il procédé che mi si era rivelato nel lavoro sul testo su Wolfson corrispondeva a una sua precisa pratica di lavoro, alla cui base sta l’intervista. L’ho scoperto nella sua prefazione a un volume di interviste a William Burroughs (Interviste, Il Saggiatore, 2018):
"Mi è sempre piaciuta la formula dell’intervista perché sfida la mente a produrre idee in tempo reale. Ogni intervista è una sorta di rappresentazione interpretata da due persone di fronte a un pubblico invisibile. Idealmente, quel che viene pubblicato è l’esatta trascrizione di ciò che è accaduto, e alcune delle interviste ripubblicate qui conservano l’irruenza dello scambio originale («Invasione»). Come tutti i riti, però, o come la musica, le interviste hanno una forma e raggiungono il loro scopo solo se questa forma si trova strada facendo, o a posteriori. Questo è il risultato a cui molti intervistatori giungono rielaborando la trascrizione in misura diversa, creando così un evento che, in senso stretto, non è mai esistito, e nel quale tuttavia è racchiuso anche ciò che può essere stato presente a livello virtuale. Questo è quello che volevo fare, considerando un tutt’uno anche interviste come quelle raccolte qui, che non si era mai pensato di riunire in un libro. (S. L., dall’introduzione)"
Altrove racconta come l’intervista sia stata in qualche modo la scelta obbligata per divulgare il lavoro degli artisti che voleva proporre, e nelle sue mani l’intervista raggiunge qualità stilistiche assolutamente pregevoli. Da tempo con Marco e Raffaele Ferro, che ha conversato con Sylvère per ore, si medita di raccogliere le sue interviste, ai filosofi amici, con Virilio ha scritto tre libri di interviste, Pure War, Crepuscular Dawn e The Accident of Art, al Forget Foucault di Baudrillard ha fatto seguire un Forget Baudrillard, lunga intervista che chiarisce i luoghi fondamentali del pensiero dell’intervistato. Ma di straordinario interesse sono anche le interviste agli artisti e ai letterati, e qui si giunge ai tipi strani. Una bellissima conversazione con Jack Smith apre al mondo di uno dei registi d’avanguardia più significativi del Novecento, così come con David Wojnarowicz, fotografo, scrittore attivista, come Smith vittima dell’AIDS. Era sodale anche di uno dei miei autori sperimentali preferiti in assoluto, Pierre Guyotat, a cui ha dedicato un libro scritto con Marco Dotti, Invito alla lettura di Pierre Guyotat (Medusa, 2008). Ricordo che una volta raccontava di aver fatto incontrare Guyotat con Gary Indiana, altro personaggio decisamente divergente, scrittore e saggista con un passato di frequentazione della Factory di Andy Wahrol. Prima di farli conoscere, a ciascuno separatamente aveva detto di non formalizzarsi rispetto al suo amico, perché era un tipo abbastanza bizzarro. A un altro bizzarro grandissimo, tra i più grandi artisti, autori, teorici del teatro del Novecento ha dedicato meravigliosa attenzione, Antonin Artaud, tra cui una bellissima intervista impossibile, in italiano è stato tradotto Pazzi di Artaud (Medusa, 2006).
La collana di Semiotext(e) che propone il pensiero francese, ma anche il pensiero dell’autonomia del soggetto antagonista italiano, Virno, Negri, Lazzarato, Marazzi, si chiama Foreign agents, perché egli stesso si considerava agente straniero provocatore. Per tutta la vita ha provocato il mondo culturale, e i sassi che ha gettato nello stagno hanno generato onde che non hanno più smesso di crescere e rifrangersi, il mondo artistico, letterario, filosofico, le avanguardie del pensiero contemporaneo, se sono come sono, se si raccordano a un orizzonte determinato di riferimenti, se c’è qualcosa come la Theory, lo devono in gran parte alle provocazioni del foreign agent.
Leggi anche
Enrico Valtellina, Tipi strani 1. Julien Torma patafisico
Enrico Valtellina, Tipi strani 2. La Scuola Operativa Italiana e l’ontologia dello sporc