Tipi strani 4. Samuele Mendel, folle morale
Detesto lavorare. In Marx è costante la distinzione tra Arbeit e Tätigkeit, lavoro e attività, il primo è espropriazione coatta di tempo di vita e di risorse produttive individuali, alienazione, la seconda libera espressione dello spirito. Per disposizione fondamentale assecondo la seconda, non farei altro, non fosse che necessità contingenti di sostentamento e compatibilità sociale vincolano a compromessi. La mediazione a volte ibrida i due termini, per cui mi è capitato di dedicarmi ad attività retribuite, per quanto per lo più in forme simboliche. Di una di queste vengo a parlare, una ricerca sulle cartelle cliniche dell’ex frenocomio di Venezia, sull’isola di San Servolo.
Guardando la laguna da piazza San Marco, dietro San Giorgio, si vede un’isola circondata da tre metri di muro di mattoni, dalla fine del Settecento fino alla deistituzionalizzazione, l’Isola di San Servolo è stata sede del manicomio di Venezia (maschile, le donne erano sull’isola di San Clemente). Ora ci sono auditorium, scuole di design, il museo dell’ex manicomio e l’archivio che conserva le cartelle cliniche degli ex degenti.
Il mandato era mappare la gestione delle disabilità relazionali, ciò che ora si chiama lo spettro autistico, nell’istituzione psichiatrica, attraverso la ricognizione delle cartelle cliniche dell’archivio. A orientarci era la semiotica clinica riportata con cura più o meno meticolosa, ma innanzitutto, a colpo d’occhio, la specifica categoria di appartenenza individuata dai dottori redattori. La collocazione nelle macrocategorie nosologiche della classificazione psichiatrica ci guidava nella selezione delle cartelle da analizzare per il nostro lavoro, o la nostra attività. Non pellagrosi, sifilitici, lipemaniaci, furiosi, dementi precoci o senili quindi, ma una serie di insulti ordinati su scala graduata, idiota, imbecille, degenerato, e infine folle morale.
In quest’ultima casella stava Samuele Mendel, una categoria cardine, quella che secondo Gladys Swain è stata all’origine della nascita della psichiatria, in quanto fa segno alla non totale compromissione cognitiva del folle, che è pertanto curabile (con il metodo morale, codificato da Leuret), e che in precedenza era stata indicata in vari modi. Follia parziale, senza delirio per Pinel, monomania per Esquirol, e infine moral insanity, follia morale, nel 1835 per James Cowles Prichard.
La caratterizzazione della follia morale nella storia della psichiatria non rientra nelle finalità del presente testo, e ciò per due ragioni, la prima è che è già stata affrontata in modo perfetto e definitivo da Andrée Bella nel libro esito della ricerca a San Servolo (Russo, Capararo, Valtellina, A sé e agli altri: Storia dell’autismo e delle altre disabilità relazionali nelle cartelle cliniche di San Servolo, Milano, Mimesis, 2013), la seconda è che non sto scrivendo di un caso clinico, per niente, l’intento è più nello spirito delle Vite immaginarie di Marcel Schwob, con la differenza che non c’è nulla di immaginario, tutto è saldamente ancorato a tracce testuali.
Veniamo dunque al testo. Ci si figura, immagino, che una ricerca simile sia tra le cose più deprimenti a cui ci si possa dedicare. Tutt’altro, si è rivelato un lavoro appassionante, ci siamo trovati a ricostruire un mondo scomparso attraverso le tracce delle vite di chi lo popolava, una specie di romanzo con tantissimi personaggi. In effetti non il più gioioso dei romanzi, perché le categorie a cui ci siamo dedicati non prevedevano remissione, per cui morivano tutti internati. Anche Samuele Mendel. A rendere appassionante la ricerca, e la conseguente possibilità di ricostruire le vite negate nell’istituzione totale, è stata la scoperta ricorrente, all’interno del testo ufficiale, di un paratesto spesso meravigliosamente interessante, in particolare quello allegato alla cartella di Samuele Mendel, come vedremo a seguire. Partiamo dunque dalla cartella clinica, il paratesto verrà a integrare i limiti dello strumento burocratico di mappatura psichiatrica, riportando alla vita le gesta del nostro eroe.
La cartella clinica si apre con l’anagrafica, Samuele Mendel, figlio di Abramo e Dorotea Hessel, nasce a Venezia il 15 settembre 1831, di religione cattolica (ex israelita). Ha completato gli studi ed è professore di lingue, coniugato a Caesi Giuseppina (legalmente separato dalla moglie), un figlio. Povero, la retta in carico al Comune di Venezia, di costituzione gracile, stato di nutrizione molto scarso. Internato nel luglio del 1896, era la terza volta, due recidive. Cause predisponenti ignote, cause occasionali, patemi. Tendenze al suicidio, coscienza apprezzativa: non si riconosce (evidentemente, non riconoscersi folle era indice di follia). Esito: morto il 27 luglio 1908 alle 4.30 antimeridiane per paralisi cardiaca. Questa l’anagrafica riportata in copertina, su un lato in verticale è scritto: “NB: qual’ora uscisse dimesso, avvisare la Questura”.
Affrontiamo ora l’esame psichico.
“29 marzo. L’ammalato era israelita e nel 1880 si è convertito al cristianesimo, ragione per cui ebbe a soffrire le peggiori persecuzioni dai suoi correligionari. È stato ricoverato altre due volte in sala d’osservazione. La prima nel 1879 per aver tentato il suicidio con l’acido carbonico a causa di dispiaceri e ristrettezza di finanze con la prognosi di 5-6 giorni. La seconda volta nel 1887 per aver tentato ai suoi giorni gettandosi in acqua legandosi le gambe, e vi permanette dal dicembre al febbraio dell’anno successivo. Nel luglio 1896 ha scritto una lettera insolente al Sig. Presidente della Congregazione di Carità e pare abbia fatto uso di parole violente e di minacce, perché si iniziò una causa penale e all’uscita di questo stabilimento deve essere avvertita la questura. Egli dice di non ricordare il contenuto di quella lettera.
Il 29 luglio stesso anno, per riuscire meglio nell’intento, legossi le mani agli arti inferiori poi si gettò in acqua, ma salvato venne inviato in sala di osservazione. Ivi si acquistò la stima e la fiducia dei medici, così che, entrato in sala di osservazione un ungherese che aveva tentato il suicidio nell’albergo col revolver alla tempia destra, il quale parlava il tedesco, egli gli servì d’interprete fra il malato e il medico Pontrenuia [? o qualcosa di simile]. Ma essendogli venuta la notizia della morte della sorella e avendo scritto una lettera di rimprovero al Rabbino, questa non fu spedita all’indirizzo. Egli scrisse un articolo, nel quale stigmatizzava il procedere illegale, ingiusto ed inumano del Primario Dr. Luzanti, indicando a chiare note gli abusi e l’irregolarità che nel reparto si commettevano per mandarlo alla stampa. Ma avendoglielo sequestrato e letto il contenuto, da quel momento volgono le cure contro di lui, e con ciò spiega la sua cattiveria, la sua cattiva condotta, la sua istigazione e la sua pericolosità.
Parla molto bene, chiaro, con pacatezza, dando esatta ragion del suo operato. Ha buona memoria, pronta intelligenza, avvedutezza somma. Ha però molto ottusi i sentimenti morali ed affettivi. Non si notano idee deliranti o allucinazioni.
Digitale e ferro”.
Mendel giunge anziano a San Servolo, vi rimane dodici anni, a queste prime note se ne aggiungono altre, che scandiscono gli anni, e raccontano della sua vita da internato atipico.
“Giugno. Si occupa sempre a scrivere: ora poesie, ora la sua autobiografia, ma e né suoi discorsi e né suoi scritti si mostra sempre denigratorio, accusando i preposti di tutti i luoghi dove fu ricoverato di furfanti, imbroglioni: da tutti ha ricevuto offesa e nello stesso tempo si costituisce quegli che dispone tutte le ingiustizie che si commettono e si vuol mostrare il difensor dell’umanità sofferente, mentre è lo spirito malevolo e l’egoismo più abbietto che lo spronano a comportarsi come egli maliziosamente vuole dare a intendere. Per questo si può arguire dall’osservazione data fin qui sul suo contegno si dimostrerebbe un folle morale”
“1898. Nulla si può aggiungere a quanto riportato più sopra”.
“1899. Nulla di nuovo”.
“1900. Si occupa sempre a scrivere sciarade, o compone poesie di circostanza, sonetto ed altra poesia, a tradurre dal tedesco.
Evita tutto quanto potesse farlo credere pazzo, allo scopo di evitare castighi. Nei suoi scritti, talora buoni, manifesta le idee più opposte, talora pare un padre della chiesa, altra volta esprime le idee più eterodosse, sa vestire tutti i caratteri.
“1903. Giugno 26. Tipo furbo di vecchietto che dà sempre un colpo al cerchio e uno alla botte. Passa tranquillamente tutta la giornata scrivendo, poesie, satire e racconti, che poi con evidente compiacenza legge ai medici e ai compagni di reparto. Parla con ricercatezza e con aria di filosofo e critico, caustico sempre”.
“1904. Febbraio 26. Continua a prestare l’opera sua in un ufficio medico, compilando le tavole dietetiche, registrando il movimento dei malati, facendo statistiche più o meno sbagliate. In questi ultimi tempi, però è assai deperito fisicamente e mentalmente. Le sue poesie e i suoi epigrammi hanno perso freschezza e arguzia. La vecchiaia ha ormai preso il sopravvento: però qualche volta si irrita ancora, si arrabbia contro tutti ed allora apparisce chiaramente il suo carattere di folle morale”.
“1905. Luglio. Tranquillo, regolare nel contegno, coerente nei discorsi, si presta con ammirabile assiduità e diligenza, data la sua tarda età, nei lavori di segreteria dell’Ufficio Medico. Ha carattere piuttosto irascibile e parola sarcasticamente pungente: però non trasecola mai e sa mantenersi entro limiti normali. Del pazzo morale (con tale diagnosi è stato qui accolto) non presenta ora che sintomi molto blandi.
Diagnosi – Pazzia morale”.
“19-3-906. Relazione inviata alla regia procura.
Samuele Mendel accolto in questo Manicomio il 14 marzo 1897 perché affetto da follia morale, si mantenne sempre regolare nel contegno coerente nei discorsi. Però ha sempre mostrato un carattere aspro, scontroso facile ad irritarsi per la più piccola contrarietà.
Ottuso nei sentimenti affettivi, egli è profondamente egoista, e si compiace nell’ostentare la propria perizia e nel denigrare gli altri.
Data la sua tarda età e la mancanza di parenti, che di lui non possano aver cura, esposto solo nella lotta per la vita, le sue tendenze poco morali ora assopite, potrebbero di nuovo come per il passato renderlo pericoloso a sé ed agli altri. Per tanto è da considerarsi abbisognevole di cura e custodia e sorveglianza.
“17-7-906. Dal primo del corrente mese il Mendel non frequenta più l’ufficio medico, dove del resto, a causa della sua tarda età e della sordità che si fa sempre più accentuata, egli non mostravasi più pronto come nel passato nel disimpegno delle varie pratiche di ufficio. Rimane ora in riparto, dove passa serenamente la sua giornata leggendo giornali, scrivendo commedie, barzellette, poesie, facendo della maldicenza con i vecchi compagni di riparto e giocando a scarabocchione. Le sue condizioni fisiche sono discrete”.
“27 luglio 1908. Da l’epoca dell’ultimo diario nulla si è mostrato degno di essere rilevato nella vita del nostro vecchietto: arzillo, allegro, occupato per lunghe ore a scrivere autobiografie o versi, o dediche, non ostante i leggeri disturbi dell’età, la sordità crescente.
Questa notte alle ore 4 ½ è morto improvvisamente per paralisi cardiaca”.
Così si conclude la cartella clinica di Samuele Mendel, e la sua parabola terrena, di cui non sapremmo nulla di più, non fosse per alcuni allegati, i primi che andremo ad affrontare sono lettere scritte al direttore del manicomio da amici del Mendel successivamente alla sua morte. Ne raccontano la vita incredibile prima dell’internamento.
“Venezia, 30 luglio 1908.
All’On.le Direttore del Manicomio di San Servilio.
Storia
Samuele Mendel, Veneziano, dottato di eccezionale, anzi fenomenale intelligenza, fornito di vasta cultura, poliglotta, sette lingue, e poeta improvvisatore sublime, gajo, brillante, satirico, morì improvvisamente sul suo letto colpito da paralisi cardiaca il 26 luglio a. c. nel Manicomio di San Servilio di Venezia.
Era egli veramente pazzo? No. Ma fu mandato in Manicomio dalla R. Questura per liberarsi da un pregiudicato recidivo, importuno, pericoloso e tanto colto ed eloquente che confondeva Questori, Magistrati, Procuratori del Re, sostenendo che egli per procurarsi la vita, a seconda dei casi, cambiava opinioni politiche e morali non solo ma religione, e che ciò non poteva costituire colpa, dolo, delitto o crimine???
Il Mendel avrebbe potuto addivenire una personalità e celebrità, ma le male passioni del Bacco, tabacco e Venere, come lui poetava magnificamente in una sua lode lo trascinarono nel fango.
Ebreo di nascita, pel suo sapere addivenne ufficiale del R. Esercito e si sposò con una correligionaria che gli portò in dote 80 mila lire.
Ufficiale pagatore del 47° fanteria allora di stanza a Modena, causa il vizio del giuoco prevaricò. Intaccò abilmente la piccola cassa – cosidetta – del Reggimento per 28 mila lire. Scoperta la prevaricazione tutti rimasero esterefatti; pareva impossibile. Il Conte Negri Colonnello del Reggimento rifuse il danno che lo salvò dalla galera, ma il consiglio di disciplina, il Ministero, lo rimosse dal posto e dal impiego; ed allora fu anche scoperto che un giorno aveva perduta l’intera dote della moglie, e questa e il figlio e gli ebrei lo abbandonarono completamente.
Ridotto sul lastrico fu dai carabinieri rimpatriato a Venezia ove fu allontanato da tutti. Allora egli pensò di sfruttare i Cattolici, di farsi Cristiano. Si presentò dal Patriarca Cardinale Agostini, e con la sua fecondia lo convinse della sincerità della sua conversione, e il Cardinale lo mandò ai Catecumeni, dove per mesi fu alloggiato, mantenuto ed istruito nella cristiana religione – della quale istruzione non ne aveva bisogno, perché era già un teologo che traduceva, commentava, criticava il Vangelo di San Giovanni che si recita ultimo alla Messa dai Sacerdoti – dimostrando che è un rebus, una turlupinatura, non un Vangelo di Cristo.
Battezzato, vestito a nuovo, provveduto di corredo e di più centinaja di lire dal Patriarca e dalla Congregazione di Carità, uscì Cristiano e ben pasciuto dall’istituto Catecumeni, e avrebbe potuto far bene.
Ma il vizio del giuoco, in principalità lo rendeva bisognoso di somme di denaro che chiedeva a Sacerdoti, Canonici, al Patriarca con tale frequenza, esigenza perché Cristiano, et anche con velata minaccia che i Sacerdoti informati della sua prava condotta rifiutarono di più soccorrere questo novello cristiano.
Egli allora escogitò, spinto dal vizio, un mezzo estremo; scrisse una lettera al Cardinale Patriarca dicendo che se non gli faceva avere 300 lire, si sarebbe recato in Chiesa San Marco, si sarebbe comunicato, ed avrebbe sputato l’ostia consacrata nel mezzo del Tempio.
Questa lettera mise in scompiglio la Curia Patriarcale; non si voleva propalare lo scandalo, ma si temeva il Mendel e si pregò ufficiosamente la R. Questura di metterlo a posto, ammonendolo.
Ma la Questura, venuta in possesso della famosa lettera, lo denunciò al Tribunale e da questi fu condannato a tre anni di reclusione e tre anni di sorveglianza speciale della pubblica sicurezza.
Scontata la pena della reclusione quella grave della sorveglianza lo ricondusse spesso in carcere per inosservanza di pena, e conseguentemente la sua vita, di espedienti, era addivenuta un vero martirio.
Chi scrive, riconoscendo il suo reale valore, volle tentar di redimerlo, e siccome i suoi fratelli sono da anni e anni al Cairo dopo la morte del loro padre che era il primo pasticciere di Venezia, come in oggi è il Lavena – pensai di inviarlo colà, dove avrebbe potuto con la sua scienza riabilitarsi e cangiar vita.
Ottenuto dall’autorità politica, per atto di grazia, il passaporto; dalla Navigazione Generale un biglietto gratuito da Genova al Cairo; ed avendo raggranellato da un’aperta pubblica colletta altre 600 lire, il sottoscritto lo provvide d’indumenti, lo scortò in stazione e lo munì di biglietto ferroviario di 2° classe da Venezia a Genova e gli consegnò le rimanenti 428 lire augurandogli di saperlo presto a posto. Ed esso, giurando, partì.
Ma il Mendel si fermò a Milano, giuocò le 400 lire, perdette tutto e perché privo di mezzi e recapiti e sorvegliato speciale della P. S. fu tradotto dai R. Carabinieri a Venezia e condannato a più mesi di reclusione. Scontata la pena e trovandosi abbandonato da tutti, scappò a Padova e di pieno giorno tentò di slanciarsi nel fiume; trattenuto fu tradotto a Venezia e nuovamente condannato.
Scontata la pena pensò di darsi alla religione protestante. Fece perfino delle dottissime pubbliche conferenze, che fecero gran scalpore, ma i denari non venivano, allora ritornò ebreo, e su e giù per le prigioni. La questura stanca, lo fece, per salvarlo, accogliere nel Ricovero di Mendicità, dove mise la rebilione tra monache, Ispettore, Procuratore, ricoverati, e finì per essere espulso. Di nuovo sulla strada scamiciato, contravventore alla vigilanza, e la Questura lo fece accogliere in Manicomio di San Serviglio, dove pare si sia rifatto Cristiano.
Allontanati da San Servilio i fate-bene-fratelli, i nuovi medici Direttori, non ostante le nuove teorie che scriminavano anche i più feroci criminali, non devono certo aver riconosciuto il Mendel un pazzo, meritevole di vivere a carico della Provincia per tanti anni ma avendo scoperto in esso un tipo classico di sapiente e delinquente, lo trattennero certo per studiare il fenomeno; e lo occuparono nell’Amministrazione, e lo trattavano come un vero impiegato e pagandolo, tanto è vero che il Mendel stesso, vestito più che civilmente – con sorpresa di chi lo sapeva degente in Manicomio – si vedeva pei caffè, birrerie, trattorie di Venezia; dove vantava sfacciatamente la sua abilità di menar in giro anche la scienza medica moderna, che lo manteneva lautamente e lo mandava anche a spasso benché recluso qual maniaco.
È tanto vero che turlupinò tutti, che morto sul suo letto per paralisi cardiaca fu ordinato dalla direzione del Manicomio: ‘Il trasporto della salma con barca dell’Istituto e che una rappresentanza segua la bara del povero estinto fino al cimitero’, così la Gazzetta di Venezia in cronaca il 29 corr. mese.
In qual cimitero fu traslata la salma del Mendel? Il giornale non lo dice perché fu israelita, Cristiano, Protestante, e morì come?
Tanto per la verità, non altro che la verità; ma purtroppo, troppo spesso le necrologie mentiscono e certe necrologie non si dovrebbero fare.
Cesare Locatelli”.
E ancora:
“Onorevole Sig.r Direttore!
Mi manca il coraggio di presentarmi a Lei per ringraziarla della sua cortesia e gentilezza nel rendermi edotta del decesso del povero disgraziato Samuele.
Mi manca, dissi, il coraggio anche per tema di recarle disturbo; ond’è che per questo me ne servo di questo semplice scritto.
Le giuro, Egregio Signor Direttore, che una tale triste ed improvvisa notizia, mi piombò come fulmine a ciel sereno, e ne provai una grande impressione e non piccolo dolore. Da più di venti anni lo conoscevo il Mendel, ed ebbi per lui, fino a che non venne accolto in cotesto pietoso Istituto, tante cure quante non si potrebbero avere per un vero fratello; e ciò perché lo sapevo maltrattato e rovinato dai maligni e dai cattivi. E come egli sferzava, e parlava, e pubblicamente scriveva per il male operare di certe Amministrazioni, a costo proprio della sua rovina; altrettanto da ché fu costì, non ebbe che a dire sempre un mondo di bene.
Era vecchio il povero Samuele; ma da tutto il suo assieme, dall’aspetto florido, dal colorito sano e rubicondo, gli si poteva dare ancora io penso, degli anni di vita.
Perdoni, Esimio Signor Direttore, della libertà che mi presi, mentre, ringraziandoLa di nuovo me Le professo con tutta devozione e rispetto
Delle S. V. Illustrissima
Umilissima obbligatissima
28-7.08
Schena Maria”.
E infine quest’ultima lettera in ricordo di Samuele Mendel al direttore.
“Venezia, 28 luglio 08
Ill.mo Signor Direttore, La ringrazio infinitamente per la sua bontà nel darmi notizia della morte del povero Mendel ho proprio rimorso di non esser venduta a fargli la visita promessa, perché fui, è vero, assente da Venezia, ma avrei dovuto egualmente trovare il tempo per venire, sapendo di fargli tanto piacere. L’ultima sua lettera in data 22 corr., mi accompagnava un inno sacro indiano, che finisce: “ciò mi basta per attendere la mia fine, che sarà il mio rinascimento in te”. Diceva di averlo trovato sul foglietto nel quale “erano incartocciati dieci grammi di rape”. Povero poeta di San Servolo! Mi ripromettevo appunto di venirlo a ringraziare ed ora invece mi rimane un vero rimorso per non avergli dato questo piccolo conforto.
A lei, l’Ill.mo signor Direttore e a’ suoi egregi Colleghi, oltre alla coscienza di tutto il bene che fanno ogni giorno, rimanga la soddisfazione di aver usato tanta gentile pietà a questo povero naufrago della vita. Permetta che io pure ne La ringrazii, ed accolga la espressione del più cordiale ossequio
a lei devotissima
Pezzé-Pascoluto”.
Questo è quanto resta di un personaggio straordinario. Ho cercato tracce in archivi online, ho scritto ai referenti culturali della comunità ebraica di Venezia, senza evidentemente averne risposta. Un intellettuale del suo livello, mi dicevo, avrà lasciato impronte da qualche parte, delle migliaia di pagine scritte, qualcuna si sarà salvata dall’oblio della storia. Nulla, a parte un sonetto d’occasione rimasto tra gli annessi paratestuali della cartella clinica. Composto come promemoria per chi doveva procurargli la carta per le sue composizioni. Si conclude con un giusto ribaltamento ducassiano dei ruoli, rivincita della creatività sull’ordine mortifero dell’istituzione, dell’attività sul lavoro.
“PROMEMORIA
Sarò importuno
Quanto si vuole…
Gli scritti restano
Volan parole.
Non si dimentichi
In carità
Donarmi il papiro
Ch’Ella già sa
E ringraziandola
Di tutto cuore,
Suo grato ed umile
Buon servitore
Samuele Mendel
dipinto da scellerati e scaltri
pericoloso a sé… agli altri.
dal manicomio San Servilio, Venezia li 19 aprile 1897”.
Leggi anche:
Enrico Valtellina, Tipi strani 1. Julien Torma patafisico
Enrico Valtellina, Tipi strani 2. La Scuola Operativa Italiana e l’ontologia dello sporc
Enrico Valtellina, Tipi strani 3. Sylvère Lotringer, padre della French Theory