Un'inchiesta (parte IV) / Tre domande sull'antifascismo oggi: Janeczek, Vasta, Balzano

4 Marzo 2018

Per provare a interrogarci e confrontarci sull'antifascismo oggi abbiamo posto ad alcuni intellettuali e collaboratori queste tre domande, a cura dello storico Claudio Vercelli. Pubblichiamo oggi tre ulteriori risposte (quiqui e qui le prime: Valerio, Cortellessa, Manera; Lagioia, Sarchi, Inglese; Benvenuto, Ferrario, Zinato).

 

1.

Perché si dovrebbe continuare ad essere antifascisti se è vera l’affermazione, che si fa assunto di senso comune, per cui destra e sinistra sarebbero due distinzioni che non hanno più motivo di esistere? Se invece continua a sussistere una linea di differenziazione tra i due aggregati, quali ne sono le discriminanti in senso antifascista?

 

2.

Se l’antifascismo non si è esaurito, in cosa si deve allora sostanziare? Allo stesso tempo, se il fascismo non è mai del tutto scomparso, sotto quale natura e con quali aspetti si manifesta oggi?

 

3.

Prova a legare alla parola «fascismo», in successione, secondo una scala decrescente di pertinenza, questi cinque termini; ciò facendo ne deriverà quelli che per te sono i tratti salienti e prioritari in cui esso si sostanzia: A) razzismo; B) populismo; C) sovranismo;  D) identitarismo; E) [termine a tua scelta, da scegliere al di fuori dei quattro già indicati; es: nazionalismo]

 

 

Helena Janeczek

 

1.

L’antifascismo dovrebbe far parte degli anticorpi essenziali di tutta la società che si riconosce nello Stato di diritto, poiché qualunque forma di fascismo ne corrode i fondamenti. La nostra Costituzione l’hanno elaborata donne e uomini appartenenti a partiti che avevano in comune solo l’antifascismo e la necessità di ricreare l’Italia su basi democratiche. Ci sono ragioni storico-politiche perché la tradizione antifascista si sia principalmente saldata a quella della sinistra. Perciò il lungo processo che ha causato la crisi della sinistra ha indebolito anche l’eredità antifascista. Esistono ancora, eccome, i contenuti per definire con nettezza il campo della sinistra, per quanto stentino a trovare una rappresentanza politica adeguata, soprattutto in Italia. Ma oggi chiunque si definisca di sinistra farebbe bene a respingere al mittente l’assunto che l’antifascismo sia un vecchio rito di parrocchia o un vessillo per giovani dei centri sociali con cui la gente dabbene non ha nulla da spartire. È comodo dipingerla così, come lo è sempre stato adagiarsi in una posizione super partes, pronta a venire a patti con l’avanzata dell’estrema destra, perché molti sedicenti moderati, liberali ecc. non se ne sentono minacciati nei propri interessi, tantomeno sulla propria pelle.    

 

2.

I gruppi neofascisti confessanti e praticanti che, di recente, hanno avuto grande visibilità si collegano a un retroterra che smentisce la narrazione episodico-emergenziale. Hanno contatti e appoggi internazionali non dissimili a quelli delle reti jihadiste, cosa che dovrebbe forse bastare a non sottovalutare un pericolo che trascende la somma delle azioni compiute in Italia. Su questa specifica presenza si possono cercare informazioni presso coloro che, da anni, si confrontano con i fascisti. Queste fonti, che spesso rimandano alla militanza nella sinistra radicale, all’attivismo LGBT o nell’accoglienza dei migranti, forniscono mappature di aggressioni squadriste talvolta sfociate in omicidi, approfondimenti sulle saldature tra tifoserie ultrà e neofascisti, reportage su come si impegnano nelle periferie e a conquistare il consenso giovanile. Questa non è una partita a boccia, il fumetto di Zerocalcare su L’Espresso dell’11 gennaio, è stata credo la prima volta che un giornale mainstream abbia chiesto di esprimersi a qualcuno che i fascisti li abbia conosciuti da vicino. In genere, i media tradizionali oscillano tra l’allarmismo e la rassicurazione sulla marginalità del fenomeno collocato in un quadro di “opposti estremismi”. Questa simmetria “anni Settanta” è però smentita dall’evidenza che tra i bersagli delle intimidazioni o aggressioni neofasciste rientrano omosessuali, immigrati massacrati nei bangla-tour, parroci attivi nell’accoglienza, come a Pistoia, pacifici studenti di sinistra o docenti che propongono la “teoria gender”. 

L’odio viene attizzato e moltiplicato in rete, con notizie false e meme come la testa decapitata di Laura Boldrini. Ma si propaga anche attraverso i media tradizionali, pronti a ospitare i portavoce di idee e programmi incostituzionali. Il “Testo unico del dovere del giornalista”, che ha accolto la “Carta di Roma” sulla corretta informazione concernente migranti, profughi e vittime di tratta, stabilisce dei precisi vincoli deontologici. Invece giornali, programmi tv e radiofonici normalizzano costantemente il linguaggio razzista, islamofobo, sessista, omofobo e diffondono a loro volta notizie prive di riscontri. Tutto questo costituisce per di più una violazione delle leggi (Scelba, Mancino e Fiano) nate per difendere la nostra democrazia dai rigurgiti fascisti. Si potrebbe cominciare con la richiesta di applicare l’antifascismo già prescritto dai nostri codici.

 

Però non basta, certo. Per immaginare cosa possa voler dire “essere antifascisti” oggi, occorre definire meglio l’aria che si respira anche dove non compaiono croci celtiche. Nelle società avanzate il “fascismo” non aspira a farsi regime dittatoriale o addirittura totalitario, ma tende a una democrazia autoritaria che agisce a favore esclusivo del suo “popolo”, disconoscendo ogni principio di diritto non conforme al suo mandato populista, inclusi i trattati internazionali. Persino nelle “democrature” come la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan la democrazia è stata svuotata come un tetto divorato dalle termiti, senza essere sospesa formalmente. In Italia, il trasformismo di una “destra liberale” già fasulla nell’era Berlusconi, nella destra illiberale che si presenta alle elezioni, è il frutto della crisi che ha depauperato i cittadini di ceto basso e medio e, soprattutto, li ha privati di qualunque prospettiva positiva di futuro. Del resto, non siamo l’unico paese dove la mossa di rovesciare la colpa sugli stranieri, sull’Unione Europea (che di colpe ne ha parecchie, ma non tutte), sulla globalizzazione in mano alla finanza ecc. è riuscita a dei multimilionari e altri inveterati membri delle élite. 

 

Temo che per fermare questa deriva sia insufficiente agire sulle sue cause socio-economiche, con politiche per il lavoro, il welfare ecc. per quanto le ritenga necessarie a prescindere dai risultati. A parte il fatto che anche una tradizionale agenda socialdemocratica oggi appare un programma da sinistra radicale e ogni richiesta di spesa pubblica in un paese indebitato fa gridare al populismo demagogico, c’è da prendere atto che la sostanza corrosiva uscita dal tubetto è fatta di una pasta dal forte gusto irrazionale e, proprio per questo, enormemente appagante. Il razzismo, per esempio, garantisce un senso di superiorità e vicinanza a chi sta meglio, un’identità un tempo definita “falsa coscienza” che può esprimersi nell’esercizio della violenza – verbale o fisica – socialmente legittimata. Un tratto inedito del nuovo sentimento fascistoide è una forte componente misogina che rimanda alla perdita di status, ma anche alla riduzione del lavoro maschile nel mondo avanzato. C’è una parte sostanziosa di antifascismo che spetta giocoforza a una sinistra memore della sua vocazione indissolubile, come sintetizza Nicola Lagioia, nell’impegno per i diritti civili e i diritti sociali. Sarebbe, in questo senso, antifascista sostenere le lotte con cui lavoratrici e lavoratori stranieri che stanno rivendicando condizioni più dignitose accanto a quegli italiani o persino in loro vece, come è accaduto negli scioperi bracciantili in meridione. E sarebbe bello promuovere lo scambio tra chi, come qui su Doppiozero, usa i propri strumenti conoscitivi per interpretare il presente, con la sfera di persone e associazioni dedite a sperimentare pratiche di una cultura inclusiva, esperienze “sul campo” che, oltretutto, coinvolgono spesso anche scrittori, artisti, intellettuali. Perché per non soccombere a questa temperie non basta essere contro e non basta sentirsi “la parte migliore”. Bisogna darsi da fare per trasmettere che sia possibile una vita dove la moneta di godimento più corrente non siano l’odio e il risentimento. 

 

3. 

L’ordine di priorità dei termini mi sembra serenamente discutibile, ma vorrei aggiungere l’aggettivo “reazionario”. Conosciamo esperienze non reazionarie di identitarismo, populismo e sovranismo, per quanto possiamo trovarle criticabili. Quel che connota il fascismo invece è sempre reazionario o, per citare Zygmunt Bauman, retrotopico. I fascismi storici mistificavano il ripristino di antichi imperi conquistati da pure stirpi guerriere. Oggi hanno vinto slogan come Make America Great Again, Take our country back, Take back control. Lo sguardo risentito all’indietro è infatti il solo ad avere il campo libero.   

 

Giorgio Vasta

 

1.

 

Per riuscire a essere antifascista devo quotidianamente essere consapevole di tutto ciò che in me è tentato, a un livello originario e pulsionale, di essere fascista. Vale a dire che devo quotidianamente esplorare questo pensiero, questo impulso a semplificare, e devo negoziare, contrastare, pensare e ripensare, far valere alternative; devo soprattutto esitare, considerando l’esitazione come un tempo in cui convergono scrupolo e dubbio, un tempo etico durante il quale mi permetto di immaginare altri modi, altri percorsi, provando a dare loro fiducia. Tutto questo a partire dall’idea che fascismo e antifascismo siano, prima ancora che prospettive e prassi politiche (nel caso del fascismo prepolitiche), vere e proprie posture psichiche. Atteggiamenti mentali che è possibile trovarsi ad assumere pur essendosi formati studiando, non dando nulla per acquisito, pretendendo di ragionare su tutto. Del pensiero fascista – della sua atmosfera, del suo milieu – fa parte il mito della matrice, l’ossessione dell’origine, il fantasma dell’autentico. La persuasione profonda – e, lo verifichiamo di continuo, profondamente persuasiva – che esista una radice, una sorgente primaria, una lastra esatta e pura, ferocemente incorrotta: un passato mitico in cui il presente ha il diritto e il dovere di riflettersi, come un volto si riflette in uno specchio.

Si tratta di un paradigma istintivo, elementare fino alla banalità, che però continua ad agire e, come scrivevo, a persuadere. A contrastare un modello di questo genere è la disponibilità – ed è quella che secondo me andrebbe a ogni livello il più possibile sollecitata – nei confronti della complessità (qualcosa che nidifica dentro l’esitazione a cui accennavo).

Un esempio di pensiero complesso, straordinariamente antifascista pur discutendo un’esperienza all’apparenza extrapolitica, si può leggere in un libro di Jean-Luc Nancy, L’intruso, pubblicato in Italia da Cronopio nel 2000 nella traduzione di Valeria Piazza.

Registrando le sue reazioni a un trapianto di cuore – l’intruso, appunto, ma un intruso salvifico –, Nancy si rende conto che tendiamo a pensare il nostro corpo come una matrice, come un autentico che un trapianto, seppure necessario, in un certo senso corrompe. È un pensiero naturale, ed è allo stesso tempo, se non viene problematizzato, un pensiero pericoloso, perché l’individuazione certa di una matrice spinge a proteggerla e persuade che sia possibile, se per qualche ragione la matrice si modifica, ripristinarla per come era (dunque, in una prospettiva fascista, per come deve essere). Poco a poco però Nancy – e qui comincia la controspinta antifascista – comprende che la matrice non è data, non sta ferma, ma al contrario esiste – ed è il modo in cui esiste il corpo – in continua metamorfosi. La matrice, dunque, è una continua metamorfosi della matrice, e non è il cuore nuovo a essere l’intruso, ma il corpo nella sua interezza e nella sua complessità.

Questa cultura dell’intruso come struttura è ciò che mi rende sopportabile un concetto, di solito enfatizzato dal pensiero fascista, come quello di patria. Se la patria non è un fossile immutabile ma un organismo in divenire che si nutre di intrusioni, allora posso concepire l’esistenza di una patria: una patria di intrusi (è interessante che l’esperienza della lingua – per esempio quella che si dà quando si scrive un libro, e dunque la scoperta che la scrittura procede «raschiando di nuovo», cancellando per andare avanti, nella logica del palinsesto, – sia una tra le occasioni più illuminanti per verificare che cos’è una patria in divenire).

 

2.

 

Come detto, per me l’antifascismo si sostanzia nel dare forma e credito a una cultura della complessità e della sfumatura, una cultura dell’anomalia come struttura.

Per quanto riguarda il modo in cui il fascismo si manifesta oggi, la mia sensazione è che, per provare a farsene un’idea, sia utile osservare Matteo Salvini – il nuovo Matteo Salvini – più che Giorgia Meloni o Roberto Fiore (che mi sembrano, mi verrebbe da dire, semioticamente residuali e dunque meno significativi del segretario della Lega).

Quello incarnato da Matteo Salvini è un fascismo pragmatico e funzionale, un fascismo assunto come metodo, una specie di fascismo-utensile, qualcosa con cui pianti un chiodo, mangi la minestra, sgomberi un campo rom. In Salvini colpisce la modalità apparentemente ragionevole, tanto da poter risultare, il suo fascismo, morbido se non ironico, un fascismo ludico in grado di entrare in relazione con la sensibilità e con la cultura di ogni italiano. In effetti, quando Matteo Salvini esprime il suo punto di vista, ricorre a una strategia che sembra avere nel suo complesso l’obiettivo di dialogare con qualcosa che viene dato per noto, talmente da dover essere considerato implicito. E l’implicito, se si volesse provare a esplicitarlo, è: Lo sappiamo che in fondo risolutezza e decisionismo ci piacciono e che il principio dialettico ha dei limiti così come sappiamo che è infruttuoso stare nell’esitazione e continuare a immaginare un altro modo – non brutale, non ignobile – di comportarsi: essere ignobili, provare a trasformare la miseria del proprio ragionamento in una prassi, è una tentazione umana alla quale io, Salvini, vi invito a cedere senza nessun imbarazzo, perché io, Salvini, noi della Lega, serviamo culturalmente a collocare in scena quanto a lungo è stato considerato osceno; e dunque, suvvia, non vergognatevi, non vergogniamoci, riconosciamo – umilmente, realisticamente – di voler essere fascisti.

Una sintesi di tutto questo – qualcosa che vale da esempio di che cos’è il fascismo ludico e del modo in cui una pratica fascista viene ormai a incarnarsi nel quotidiano – è quanto è accaduto un anno fa, il 23 febbraio 2017, a Follonica, quando tre dipendenti della Lidl, dopo aver rinchiuso due donne in un gabbiotto collocato sul retro del supermercato, le hanno filmate e hanno poi caricato la sequenza sui propri canali social. Considerato che la denuncia nei loro confronti è scattata nel momento in cui qualcuno, vedendo il filmato, si è reso conto che in quelle immagini era documentato un reato, l’intero complesso delle azioni – rinchiudere, filmare, caricare in rete la sequenza – si è articolato in un clima di impunità a oltranza, un’impunità non esibita provocatoriamente (Vi sfidiamo a dirci che quello che stiamo facendo, che sappiamo essere sbagliato, non si può fare, e contestualmente sfidiamo la legge) ma del tutto introiettata.

Ecco, a me sembra che il fascismo italiano contemporaneo abbia a che fare con questa introiezione, un fenomeno che rende il fascismo acritico, o forse post-critico, e profondamente spontaneo. Un’introiezione che non legge nessuna parte dell’azione compiuta come esecrabile perché tiene tutto dentro il perimetro del gioco (c’è da domandarsi se si sia pensato di realizzare il filmato a sequestro avvenuto, o se il sequestro sia servito a creare le condizioni per riprendere le due donne: quale sia la causa e quale l’effetto, la sequenza delle due donne che urlano dentro il gabbiotto è assimilata dai dipendenti della Lidl di Follonica a un contenuto on line come gli altri – dalla ripresa di un compleanno a un cucciolo di cane che gioca a una serata tra amici in pizzeria: è una scena del quotidiano, non una forma dell’osceno).

Vale la pena segnalare, infine, il modo in cui sui media si è ragionato su quanto è avvenuto a Follonica. Si è di continuo precisato che le due donne imprigionate nel gabbiotto erano di etnia rom, circostanza che in qualche modo è stata ritenuta in sé determinante. L’identità, o meglio il suo fantasma, è considerato più forte del che cosa è avvenuto. L’episodio non è stato rifiutato nella sua struttura interna, non è stato vissuto come abuso e come scandalo (sui siti dove è stato mostrato il video si sono moltiplicate le attestazioni di stima per i tre dipendenti della Lidl, e inevitabilmente Matteo Salvini ha subito espresso nei loro confronti solidarietà e sostegno), bensì accolto e al limite sottoposto a una serie di distinguo (Si deve capire che la gente è stanca dei furti dei rom).

A tutto questo si risponde con un antifascismo che si fonda sul bisogno – per fortuna ancora profondamente umano – di riconoscere, dell’altro, la vulnerabilità: non per colpirla ma – individuata la vulnerabilità come esperienza condivisa e come valore – per proteggerla: per farne legame.

L’antifascismo è dunque una risposta alle cose radicalmente creaturale.

 

Marco Balzano 

 

1.

Questo assunto di senso comune secondo me è falso. Destra e sinistra sono differenti e suppongono visioni del mondo diverse dal punto di vista valoriale. Chi nega questa differenza, di solito, è di destra. O comunque non di sinistra. 

Si dovrebbe continuare ad essere antifascisti perché non lo siamo mai stati davvero, non abbiamo mai davvero iniziato ad essere un Paese e un popolo antifascisti. Questo perché in Italia – e, se ci penso, questa stessa domanda in Francia o in Inghilterra avrebbe meno senso – non c’è mai stata una destra che fosse, e che sia, integralmente antifascista. La destra italiana è sempre stata inquinata da scorie di fascismo e quando è rinata sulle ceneri ancora calde del Ventennio (l’MSI entra in parlamento già nel 1946!), non ha mai proposto un profilo di sé davvero rinnovato e armonico coi principi costituzionali. L’antifascismo è rimasto così una prerogativa dell’essere di sinistra, ed è proprio qui che sta l’anello che non tiene: l’antifascismo deve essere – perché così è scritto sulla Costituzione in vigore oggi in Italia – contrario a qualsiasi individuo o aggregazione, non può essere una caratteristica ideologica o un punto del programma di questo o quel partito. Finché non ci sarà questa consapevole acquisizione dell’antifascismo come parte del nostro essere cittadini, avrà senso essere antifascisti e stimolare le istituzioni a vigilare di più sui principi a cui loro stesse dichiarano di adeguarsi.

Le discriminanti, infine, sono sotto gli occhi di tutti: una destra intaccata da scorie o da nuove volontà di fascismo è sempre una destra razzista, violenta, rozzamente identitaria. La cultura di destra in altre zone d’Europa, benché il vento soffi in direzioni non incoraggianti, è una cultura che non ha, e non accetterebbe di avere, connotazioni di questo genere. In sintesi: altrove in Europa si può essere di destra senza essere fascisti, in Italia è ancora molto difficile.

 

2.

L’antifascismo si deve sostanziare di ciò che c’è scritto nella Costituzione. Alla luce, ad esempio, di quanto è scritto nella XII disposizione transitoria e finale, le forze politiche razziste, violente e apertamente fasciste non devono avere possibilità di dialogo nella società civile e con chi si muove dentro i dettami costituzionali. Se ce l’hanno è perché le istituzioni glielo permettono. Quindi l’antifascismo si deve sostanziare di istituzioni autorevoli, che non devono lasciare la vigilanza dei principi costituzionali all’iniziativa del singolo o di una parte politica, ma la devono garantire per tutti: sempre. Si potrebbe anzi sostenere che il fascismo – anzi, tutti i fascismi – è un metro di misura indicativo di quanto siano forti le istituzioni democratiche di un paese, perché attecchisce sempre dove queste si rivelano fragili o rimangono silenti. 

Il fascismo, che non è mai del tutto scomparso né da certe porzioni di società né da certa politica, si manifesta oggi sotto svariate forme di xenofobia e di violenza. Ma cerca, ad esempio, di appropriarsi anche della politica sociale, di intercettare le sacche di povertà delle periferie. Questa prassi non denuncia solo il vuoto che la sinistra ha colpevolmente lasciato, ma evidenzia immediatamente l’interessamento a doppio fine che una destra contaminata dal fascismo ha verso i più deboli: gli aiuti che vengono portati (beni alimentari in dono, sostegni economici, assistenze mediche e legali, ecc.) implicano sempre in cambio il dovere di aderire all’ideologia, di ingrossare le fila della squadra, di adeguarsi al capo, di uniformarsi nell’aspetto e nel linguaggio, di armarsi per andare a cacciare il nemico, che è colui che la pensa diversamente e che, in virtù di questo, va escluso o picchiato. 

 

3.

Scelgo senz’altro identitarismo. Il fascismo, anche quando interviene in quei vuoti politico-sociali di cui dicevo, non mira a renderti libero, ma a inglobarti nel suo modello identitario, a cui si deve obbedire ciecamente. Non vuole renderti uguale a un altro per diritti e doveri, come vuole appunto la Costituzione, vuole renderti uguale a se stesso. Il fascismo mira così alla costruzione di un’identità (parola già di per sé conservativa) che coincide con l’inquadramento e l’obbedienza a precise gerarchie e, in ultimo, a un capo. Questo identitarismo è l’anticamera del nazionalismo, che porta con sé tutto quel che ne segue: razzismo, sovranismo e, aggiungerei, militarismo. 

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