Copricapi / Tropeoli

31 Maggio 2020

Normandia 1867. Prospettiva dall’alto. Luce ovunque. Due eleganti figurine – lei con l’ombrellino, lui con il cilindro a difesa dal sole del meriggio – si stagliano sulla balaustra di una terrazza che s’affaccia sul blu di un mare trafficato di vele. Sono collocate al centro dello spazio ritagliato da due pennoni con, in vetta, lo sventolio delle bandiere in un cielo azzurro, appena velato dalla calura. In primo piano, seduta di spalle su poltroncine impagliate, un’altra coppia, similmente abbigliata, le guarda. Lui, inquadrato più di sguincio, distinto e barbuto, calza una più consona paglietta. Lei è del tutto nascosta dalla calotta bianca del parasole. La terrazza è circondata da bordure fiorite e rampicanti che ricoprono anche la griglia della balaustra, al suo centro un’aiuola tonda rigogliosa di fiori. È la Terrasse à Sainte-Adresse, uno dei capolavori di Claude Monet (Metropolitan Museum, New York), in cui il maestro ritrae alcuni famigliari nella loro residenza estiva. La disposizione dello spazio è semplice, geometrica, ben ripartita in tratti essenziali: le linee dei pennoni incidono quelle della balaustra e dell’orizzonte, dividendo la scena in tre fasce orizzontali (la terrazza, il mare e il cielo) e in tre fasce verticali: la centrale e maggiore con i protagonisti, accentuata anche dalla linea di profondità del parterre, e le laterali più esigue dove trionfa la vegetazione.

 

Se al centro della terrazza non ci fosse quell’aiuola colma di fiori e tutt’intorno, a incorniciarla, il verde dei rampicanti e i colori squillanti delle bordure, il dipinto perderebbe tutto il suo appeal. Non basterebbero i vessilli del drappo francese e di quell’altro rosso e giallo, che richiama i colori araldici della regione e rilancia in cielo l’accoppiata coloristica dei fiori a terra, per esprimere la pace gioiosa, la gaia serenità di quel momento di relax borghese fissato per sempre sulla tela. Né il blu del mare, né l’azzurro del cielo. 

 

Tra i fiori ritratti, insieme ai gladioli rossi che s’innalzano a replicare la verticalità dei garruli vessilli, il ruolo maggiore lo giocano i tropeoli (Tropaeulum majus). Espansivi e allegri, sono i fiori più ridarelli del regno vegetale. Il pittore-giardiniere nel suo verziere a Giverny lavorava sulla natura con gli stessi criteri coloristici e di divisione dello spazio con cui componeva le sue tele. Seguendo la teoria del contrasto simultaneo e successivo di Eugène Chevreul (1839), accostava i colori caldi dei rossi e dei gialli ai freddi, quali i viola e i blu. In questo suo clos normanno, sotto l’arcata delle rose, lasciava scorrazzare i tropeoli sul viale di ciottoli che ancor oggi conduce dritto alla luminosa casa dalle persiane color menta.

 

 

 

Amati dagli impressionisti, e non solo, i tropeoli sono protagonisti di molti quadri: celebre il Vaso di nasturzi e la danza (1912, Museo Puskin, Mosca) di Matisse dove sul blu profondo les danseuses assecondano in cerchio il movimento dei tralci fioriti che si riversano da un vaso rosso fuoco. Ma composizioni di nasturzi sono state dipinte anche da Fantin-Latour, Caillebotte, Gauguin…

Finalmente, anche i miei tropeoli si sono dati una mossa e mi hanno regalato un angolo alla Monet. 

Forse per via di un inverno per nulla rigido, quest’anno non hanno smesso di vegetare e si sono impadroniti dello spazio vuoto sotto il cipresso, impedendo – vivaddio – ai gatti di usarlo come cesso supplementare en plein air. E da settimane sono esplosi in una fioritura superba. Si sono allungati sulle traversine di legno del vialetto, arrampicati sul cilestre del Ceanothus e sono all’attacco dell’arco con le roselline Blush Noisette.

I francesi li chiamano capucines per la foggia, simile a un copricapo, della corolla accesa nelle prevalenti sfumature del giallo e arancione: cinque petali, due superiori e tre inferiori, riuniti a coppa su un calice di altrettanti sepali, i cui tre superi terminano in uno sperone ben pronunciato. Quanto a grazia, neppure le foglie non sono da meno: tonde, di verde azzurrate, con rilevate nervature a raggera, margine leggermente ondulato e l’originale inserzione del lungo picciolo quasi al centro; persino idrorepellenti: cosicché le gocce d’acqua o di rugiada sostano trasparenti in superficie prima di convergere all’ombelico. 

 

 

Insomma, belli, allegri, facili da coltivare, dall’antesi persistente, e buoni. Perché i nasturzi sono tutti eduli: con il loro sapore piccante e frizzantino sono un ottimo ingrediente per insalate e salse, per il ripieno dei ravioli, o per frittate, per sorbetti e composte (aggiungete alcune foglie a quelle al rabarbaro o alle fragole). I boccioli possono finanche essere usati, sott’aceto, come succedanei dei capperi. Ricchi di olii di senape e di vitamina C, sono un antibatterico e ricostituente naturale oltre che un innocuo anti-afidi per le rose.

Ma come li si deve chiamare, nasturzi o tropeoli? Il termine nasturzio è in effetti usato come sinonimo di tropeolo, benché le due essenze appartengano a famiglie diverse. Il nasturzio (Nasturtium officinale) fa parte delle Brassicaceae ed è propriamente il crescione d’acqua. Erbacea perenne, diffusa allo stato spontaneo sulle rive dei fiumi, o in zone umide e ombreggiate, porta piccoli fiori bianchi riuniti in racemi e foglie ovali; usato in cucina a crudo, le sue virtù sono note fin dall’antichità e il suo nome verrebbe dal latino “nasi tortium” a causa del suo odore pungente. Il tropeolo ci arrivò invece dal Sudamerica nel Cinquecento e fa famiglia a sé (Tropaeolaceae). In questo caso, l’etimo sempre latino (“tropaeum”, trofeo) rinvia alla forma tonda delle foglie come quella degli scudi romani. E se s’aggiunge che il fiore può far pensare a un elmo, regalare dei nasturzi significa augurare di non essere arrendevoli, sollecitare a una strenua resistenza. Comunque, le sostanze aromatiche di entrambi sono assai simili e le due famiglie vicine quanto a sistematica: onde per cui il tropeolo non si offenderà se lo chiamiamo, come si suole, nasturzio.

 

Molti gli ibridi rampicanti, prostrati o ricadenti, con colori in tutte le nuances del giallo e dell’arancio (dal paglierino al rosso cupo), con petali sfrangiati o variegati. 

Conosciamo le specie annuali, che seminiamo all’inizio di ogni primavera, ma vi sono anche le meno note perenni, stolonifere o bulbose, tra cui una dai singolari fiori violetti (Tropaeolum azureum).

In onore dei tropeoli potrebbero bastare le citazioni pittoriche sopra ricordate, ma ne ho in serbo anche di poetiche. Una è la spiritosa quanto breve filastrocca tratta Chantefable et Chantefleurs del poeta surrealista Robert Desnos (nato a Parigi nel 1900 e morto nel campo di concentramento di Theresienstadt l’8 giugno 1945). Un libro per bambini divenuto un classico in patria e da noi misconosciuto, che ha visto anche versioni musicate. Peccato tradurla, e fa così:

 

 

La capucine 

 

Un pied par-ci, un pied par-là,
voici venir la capucine.
Un pied par-ci, un pied par-là,
voici fleurir la capucine.
Capucine par-ci,
capucine par-là,
par-ci par-là.

 

L’altra, altrettanto succinta, è tratta da Amore non amore (La nave di Teseo 2019), l’ultima raccolta di Franco Marcoaldi:

 

Una chiave che riapre una porta;

una traccia leggera di acqua

di rose nel letto; dieci gialli

nasturzi che muti ti guardano

quieti legati in mazzetto.

 

E poi, sì, l’ape girerà sempre sul fiore di nasturzio anche nel giorno dell’armageddon, e dopo ancora. Come recita l’esordio della bellissima, consolante e ironica Canzone sulla fine del mondo del poeta polacco Czesław Miłosz:

 

Il giorno della fine del mondo
l’ape gira sul fiore del nasturzio,
il pescatore ripara la rete luccicante.
Nel mare saltano allegri delfini,
giovani passeri si appoggiano alle grondaie
e il serpente ha la pelle dorata che ci si aspetta.

Il giorno della fine del mondo
le donne vanno per i campi sotto l’ombrello,
l’ubriaco si addormenta sul ciglio dell’aiuola,
i fruttivendoli gridano in strada
e la barca dalla vela gialla si accosta all’isola,
il suono del violino si prolunga nell’aria
e disserra la notte stellata.  E chi si aspettava folgori e lampi,
rimane deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
non crede che già stia avvenendo.
Finché il sole e la luna sono su in alto,
finché il calabrone visita la rosa,
finché nascono rosei bambini,
nessuno crede che già stia avvenendo.

Solo un vecchietto canuto, che sarebbe un profeta,
ma profeta non è, perché ha altro da fare,
dice legando i pomodori:
non ci sarà altra fine del mondo,
non ci sarà altra fine del mondo.

C’era Amore qui dentro. Ora invece

c’è solo il balordo rumore

di un cieco moscone che ronza

sbattendo la testa sul muro:

complimenti, un gran bel motivetto.

 

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