Speciale

Un esempio contrario

4 Settembre 2011

La più vasta ed articolata resistenza sette-ottocentesca all’invasore fornisce tuttavia una clamorosa smentita alla rivalutazione operata dalla cultura romantica. Si tratta della disperata lotta per la sopravvivenza condotta per oltre un secolo dalle tribù indiane di fronte alla marea avanzante dei coloni che mangiavano via via tutto il loro spazio vitale. La benevolenza verso le cause nazionali in Europa non vale evidentemente al di fuori dei confini continentali come dimostrerà proprio lo stesso secolo delle colonizzazioni in Africa e in Asia. Troppo lontano, sconosciuto e alieno il mondo dei nativi americani per entrare nell’afflato romantico verso le piccole patrie; di qui un nuovo caso di completo soffocamento del punto di vista degli sconfitti, di una doppia interpretazione tra Europa ed America e di un mutevole giudizio con il progredire storico. I nativi americani infatti sono visti dai colonizzatori come barbari sanguinari, nomadi pronti ad assaltare le carovane di pionieri per derubarli degli averi, uccidere gli uomini e stuprare le donne. Questa è la visione prevalente del tempo in cui si è svolta l’espansione ad ovest che è stata poi lungamente tramandata dalla pubblicistica e senza soluzione di continuità dalla grande cinematografia hollywoodiana; “l’indiano buono” nasce molto più tardi con l’evoluzione ideologica del genere western negli sessanta del Novecento e la chiave di volta consiste appunto nel farne un combattente che, attraverso l’unica forma di lotta consentita dall’inferiorità di forze, difende la propria terra contro un esercito invasore. Allora anche gli scontri improvvisi e le imboscate, tipici del raid, che le tribù già praticavano nelle loro lotte interne a causa della mancanza di precisi confini territoriali e per il controllo dei terreni di transito o di caccia, e che hanno messo in scacco l’esercito americano organizzato secondo principi tradizionali, possono venire riabilitati.

 

A fungere da potente modello nella rappresentazione dell’indiano si incontra nel primo Ottocento il capolavoro di James Fennimore Cooper L’ultimo dei Mohicani. Il protagonista di questo romanzo, come degli altri quattro della serie intitolata Racconti di Calza di cuoio è Natty Bumppo che, in quanto bianco vissuto durante l’infanzia tra i pellerossa, rappresenta l’addomesticamento della cultura nativa. Soprattutto la vicinanza con la natura selvaggia ed intatta, vera protagonista dell’opera fin dalle prime pagine, deve incontrarsi in una sintesi che tempera ed ingloba con la legge morale innata nel bianco. Il cacciatore incarna insomma il meglio della dignità, dell’onore, del rispetto per la grandezza della natura propria agli indiani e la può veicolare attraverso la risentita individualità caratteristica del colono americano, forgiando la duratura mitologia d’un tipo umano. I nativi invece si posizionano su polarità estreme molto vicine allo stereotipo: da un lato il nobile selvaggio roussoiano Cingachguk, non a caso rappresentante di una stirpe in estinzione, coraggioso e leale, prudente, saggio e oracolare, in perfetta sintonia con la foresta, che trasmette questo patrimonio all’amico Natty, dall’altro lato la crudeltà incontrollata e l’infida doppiezza del selvaggio Magua. Questa seconda figura risulterà alla fine vincente nell’immaginario dei bianchi:

 

Pur trovandosi in uno stato di assoluto riposo, e quasi indifferente, nel suo tipico stoicismo, all’eccitata agitazione che lo circondava, una cupa fierezza si mischiava in quel selvaggio alla calma […] I colori della guerra s’erano mescolati in tenebrosa confusione sul suo volto fiero, rendendo le sue scure fattezze ancor più selvagge e repulsive che se l’arte avesse voluto raggiungere quell’effetto prodotto dal caso. Gli occhi soltanto, scintillando come stelle roventi tra nuvole basse, apparivano in tutta la loro selvaggia ferocia. Per appena un attimo quel suo sguardo scrutatore eppur prudente, s’incontrò con quello vagante dell’altro, ma subito, un po’ per astuzia un po’ per disprezzo, mutando direzione, s’immobilizzò quasi contemplasse lontani orizzonti.

 

Dal grande affresco di Cooper si fece presto nel secondo Ottocento a cogliere e irrigidire i tratti già in sé più da cliché. Letteratura dozzinale quale le Dime novels (i romanzi da 10 cents), pubblicate dal 1860, colgono e reduplicano all’infinito gli elementi negativi o caricaturali dell’indiano, mentre il gigantesco baraccone itinerante di Buffalo Bill Cody sul Selvaggio West, “miscela di circo e melodramma” (F. Galvano) in cui recitavano anche veri grandi capi sconfitti come Toro Seduto, giocano la storia in chiave epica, edulcorata e già nostalgica. Infine sarà il cinema a prendere il testimone dalla narrativa popolare nella creazione ed imposizione a livello mondiale della mitologia americana della frontiera con relativa demonizzazione degli indiani; se fin dalle prime prove del nuovo mezzo troviamo film sui nativi (Thomas Alva Edison con Sioux Ghost Dance del 1894), che si sforneranno a cento ogni anno nel primo decennio del Novecento, per continuare a buon ritmo fino alla metà del secolo, non sarà certo possibile darne qui un rendiconto esaustivo. Solo qualche parola dunque su un paio dei capolavori di un gigante del cinema come John Ford.

 

Il titolo italiano Ombre rosse (1936) pare davvero azzeccato per le presenze indiane che, come dice uno dei personaggi del microcosmo presenti nella diligenza “non lasciano tracce, strisciano come serpenti”. Il centro della narrazione consiste appunto nel viaggio senza scorta della diligenza attraverso territori resi pericolosi dalle scorrerie apaches e in particolare nel desiderio di vendetta che anima il protagonista Ringo e su cui si chiude poi il film. Gli indiani incombono dapprima solo sotto forma di voci su un pericolo confermato talvolta dalla visione di rovine fumanti. Quando finalmente appaiono nella parte centrale del film sono pure apparizioni senza parola o spiegazione; in una scena epica che ha fatto scuola cavalcano a fianco della diligenza colpiti come sagome in una fiera e soprattutto scorrono nei riquadri dei finestrini appunto come in quelli della pellicola cinematografica. Fantasmi dell’immaginario dunque, eventi ed evocazioni di cui si sa soltanto che dovrebbero stare chiusi lontano e invece pervicacemente vengono a turbare la vita della piccola comunità: “Quel beccaio di Geronimo ha oltrepassato i confini della riserva”. Se alle figure marginali dei viaggiatori – la prostituta, il medico filosofo e ubriacone – viene accordata pietà umana e occasione di riscatto, niente di tutto ciò tocca l’universo alieno dei nativi.

 

Vent’anni dopo (1956) con Sentieri selvaggi Ford ci mostra questa volta un raid riuscito degli indiani Comanches. Tuttavia tutto in luce negativa perché compiuto ai danni di una pacifica famigliola di coloni di cui non vengono risparmiati donne e ragazzi. La fattoria in fiamme è ancora il segno della distruzione, il rapimento della piccola Debbie per farla vivere nella tribù quello della sottrazione. L’assalto per di più avviene con il buio notte dopo che con un tranello – i cavalli uccisi – erano stati fatti allontanare in un vano inseguimento i cowboys dei dintorni. In altri casi però gli stessi indiani, quasi pavidi nell’aggredire la casa, si gettano scriteriatamente all’assalto dei nemici asserragliati in posizioni vantaggiose. E il capitano Clayton, che li definisce “selvaggi ignoranti e infantili”, è pronto ad attaccarne un centinaio con soli quattordici uomini a disposizione. Tra questi vi è sempre Ethan Edwards (ancora  ) che per anni seguirà gli spostamenti della tribù dei rapitori alla ricerca della nipote; un inseguimento senza fine che sradica il bianco fino a farlo diventare simile ai suoi odiati nemici. Anche se più volte si sottolinea, in questo film accreditato dal regista come anticipatore dei primi western revisionisti, l’irriducibilità razziale tra bianchi e pellerossa. “Vivere da Comanches non è vivere” sentenzia Ethan e quando vengono recuperate alcune donne bianche sono mostrate ormai completamente prive di ragione. Gli indiani continuano del resto ad essere raffigurati silenziosi, con espressioni truci e impenetrabili. Solo il capo Scout – gratificato da Ethan di un “sei intelligente per essere un indiano” parla una volta nel suo tepee vantando agli ospiti una collezione di scalpi. Se non congenitamente crudele l’indiano viene ridicolizzato, come nell’agghiacciante siparietto comico su Look, squaw involontariamente comprata al posto di una coperta dal giovane Martin, che l’allontana a calci quando lei si dispone a goffe avances coniugali. La collocazione spazio-temporale di questi due capolavori del genere western indica che è l’ultimo conflitto militare per la conquista del Nord America, avvenuto tra gli anni sessanta e settanta nelle Grandi Pianure, ad essere tramandato quale epitome dell’intera epopea fondativa americana, “il più potente emblema del trionfo del Destino Manifesto” (J. Wilson).

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