Un ritratto di André Glucksmann

18 Novembre 2015

“Cresce sempre più il numero di persone che vogliono usare la loro testa. Non è la ‘nuova filosofia’, ma di nuovo la filosofia”. André Glucksmann risponde così a Max Gallo, nell’intervista per l’Express del 18 luglio 1977, quando da pochi mesi il suo libro, i Maîtres penseurs, è già un caso editoriale, con 30.000 copie vendute in meno di poche settimane, e i media lo inseriscono a pieno titolo nel nuovo movimento intellettuale etichettato nouveaux philosophes. Complice l’altro astro nascente e suo principale compagno di quell’avventura nonché di una vita intera, Bernard Henri-Lévy, che, oltre ad essere l’autore dell’altro bestseller che sta dando notorietà al movimento, La barbarie à visage humain, già nel giugno 1976 ha presentato proprio con questo nome, nella rivista Les Nouvelles littéraires, un gruppo di autori da lui pubblicati nella collana diretta per le edizioni Grasset. Glucksmann parla più che altro di una generazione che vuole aprire gli occhi e rifiutarsi di continuare a pensare, dopo quasi un secolo e mezzo, ancora secondo gli schemi del vecchio barbuto di Treviri, mostrando di non gradire molto quell’etichetta, che ormai ha però preso il sopravvento.

 

Questi giovani che nel 1977 scendono in campo prendendo di mira il “totalitarismo di sinistra” e coloro che, soprattutto tra le fila comuniste, in Occidente, minimizzano i Gulag come il prodotto di un errore d’interpretazione dei testi di Marx e lo stalinismo come una deriva “asiatica” del socialismo, hanno pedigree universitari e politici, filiazioni culturali, riconoscibili e soprattutto portano con loro nuove inquietudini e domande urgenti, che ritengono pericolosamente taciute o rimosse dalla coscienza intellettuale e politica dominante francese. Appartengono in primo luogo alla “generazione perduta” del ’68, con un passato di militanza rivoluzionaria tra le fila di gruppi marxisti, trotskisti o maoisti, ora sconvolta da nuovi avvenimenti come il riflusso del movimento studentesco, il fallimento della rivoluzione culturale cinese, la scoperta del sistema concentrazionario dei campi staliniani con la pubblicazione choc dell’Arcipelago Gulag di Solgenitsin. In secondo luogo, hanno abbandonato la costellazione dei vecchi punti di riferimento (Marx, Lenin, Mao, Sartre, Althusser) e sono alla ricerca di nuovi “padri” che rintracciano decisamente negli esponenti del post-strutturalismo, Foucault, Barthes, Lacan e nei loro substrati: Socrate, Hölderlin, Nietzsche, Freud. In particolare, è la microfisica del potere di Foucault ad attirarli, il programma politico di lotte intorno a micro-centri di potere (un piccolo capo, il direttore di una prigione, un giudice, un rappresentante del sindacato o di partito), la possibilità di un discorso “sovversivo” capace di rompere l’ordine del discorso e, quindi, dei dispositivi di potere e sapere, verso la cui pratica più o meno coscientemente i nouveaux philosophes si orienteranno. Sicuramente il successo mediatico immediato che molti rinfacceranno al movimento, per sottolinearne con non poca acredine la vacuità filosofica, è dovuto in larga parte alla concomitanza con le imminenti elezioni legislative del 1978, in vista della quale gli esponenti del movimento sono frequentemente invitati da radio e televisione ad esprimersi e lo fanno criticamente sul Programma comune dell’Union de la gauche dei socialisti e comunisti e sulla revisione in senso più radicale che ne chiedono questi ultimi.

 

Ma dal coro di anatemi e irrisioni indirizzati al movimento, che Deleuze, ad esempio, vorrebbe ridimensionare a puro fenomeno di “marketing letterario o filosofico”, si dissocia nientemeno che lo stesso Michel Foucault, il quale, nel maggio 1977, sulle pagine di Le Nouvel Observateur fa un elogio convinto dei Maîtres penseurs e del suo autore André Glucksmann, che, con questo libro, dà seguito alla sua volontà di sopperire all’incapacità dei contemporanei di vedere e di prendere in considerazione i drammi del XX secolo e di articolare più a fondo la risposta alla domanda pressante che, senza remore ideologiche, si era posto due anni prima, spinto dalla lettura di Arcipelago Gulag, nel controverso saggio intitolato La Cuisinière et le Mangeur d’hommes: “I campi russi: sono russi, sono marxisti?”. Il che significa secondo Foucault, da un lato, andare alla ricerca di ciò su cui non possiamo più porre speranza, ma anzi dobbiamo “disperare”, come dice lo stesso Glucksmann rovesciando l’adagio kantiano del “cosa posso sperare?”, e, dall’altro lato, interrogarsi sulla svolta che ha condotto la filosofia classica tedesca, da Fichte a Nietzsche, da Hegel a Marx, a fare della rivoluzione la promessa di uno Stato razionale, vero, buono, e dello Stato la forma compiuta della rivoluzione. Sì, perché adesso sul banco degli imputati Glucksmann trascina non solo Marx e il marxismo, ma tutti quei “padroni del pensiero” che hanno sostenuto il progetto moderno di uno Stato coercitivo e normalizzatore e allestito i cammini intellettuali (culto della soluzione finale, dello Stato che terrorizza per il bene della collettività, mito della missione dei dotti o di una scienza sociale per guidare le masse loro malgrado), che non hanno condotto direttamente ai campi di concentramento, ma certamente alla non-resistenza ai campi. E l’alternativa è vista da Glucksmann nella resistenza, nel movimento centrifugo della plebe, che si oppone allo Stato, in virtù non della lotta di classe ma del solo desiderio di non essere oppressa, che veramente l’ha animata nella storia e in momenti insurrezionali significativi come quello della Comune di Parigi. Curiosamente, la decisa opzione anarchico-popolare di Glucksmann di questo periodo fa da contraltare alla nostalgia di Pier Paolo Pasolini, confessata a Furio Colombo nella sua ultima intervista del 31 ottobre 1975, per “quella gente povera e vera che si batteva per abbattere il padrone senza diventare il padrone”, che ormai il poeta italiano vede pessimisticamente risucchiata dalla strategia omologante del potere neocapitalistico.

 

È adesso, comunque, che Glucksmann, dalla logica implacabile della sua analisi, forgia il modello di un nuovo intellettuale come “dissidente”, distinto dal “rivoluzionario”, che non fa capo ad alcuna organizzazione, che pensa, riflette, resiste, denuncia da solo, che non ripiega sulle grandi sintesi, ma affronta problemi locali, crimini circoscritti, violazioni di diritti, con analisi dettagliate. Sarà, d’ora in poi, la cifra di tutto il suo lavoro intellettuale e politico. È qui che Glucksmann si ricongiunge peraltro con le figure occidentali dell’etica della responsabilità individuale: Diogene, l’Orestea di Eschilo, Socrate, Montaigne, contrapposti ai “padroni del pensiero”. E dai suoi pamphlets antitotalitari, con Cynisme et passion del 1981, Glucksmann può estrarre una morale che non definisce più il male in relazione a un bene, ma parte dall’evidenza del male, di quel male di cui, dopo Auschwitz e i Gulag, siamo capaci, per definire il bene collettivo come un male minore. E la traduzione politica non può che esserne l’azione individuale, limitata e puntuale, con tutti i rischi, che ha di mira un male particolare, una crisi particolare, senza l’illusione che non ne sopraggiunga un’altra.

 

“Impegnarsi, lottare contro i mali, d’accordo. Impegnarsi, assicurandosi la manipolazione di un bene universale imposto ad altri, no grazie” (L’atto antitotalitario, Spirali 1983). Il codice di questa nuova morale e “politica della puntualità”, che fa tesoro anche della lezione di Hannah Arendt, lo porterà, a partire dagli anni Ottanta, a contestare il pacifismo del disarmo unilaterale dell’Europa e a difendere l’installazione in Europa di missili nucleari, nel confronto bipolare Est-Ovest, così come a lottare per la causa di polacchi, bosniaci, kosovari, ceceni, georgiani, ucraini, e a schierarsi col fronte della “guerra giusta”, lui che era stato il più brillante studente e assistente di Raymond Aron ed epigono delle sue memorabili lezioni su Clausewitz, dichiarandosi favorevole agli interventi militari in Serbia, in Iraq, in Libia, ma non senza la disponibilità all’autocritica come nel caso iracheno.

 

E oggi che il terrorismo islamico è arrivato ad attentare il cuore della sua Francia, vale la pena ricordare come quel segugio del male che è stato André Glucksmann, con la pubblicazione nel 2000 di La troisième mort de Dieu, un anno prima dell’attentato alle Torri Gemelle, aveva denunciato gli orrori commessi dal gruppo musulmano integralista del GIA in Algeria, a cominciare dalla strage di Baïnem con bambini sventrati e un ragazzino inchiodato per le braccia, la vigilia di Natale del 1998, nell’indifferenza di un’Europa dove la religione è ormai scomparsa o è soggetta a mode intermittenti o ridotta alle dispute sui comportamenti sessuali. Come l’“uomo folle” di memoria nietzschiana, all’inizio del XXI secolo, Glucksmann annunciava la terza morte di Dio, di un Dio che muore perché in suo nome gli integralisti islamici uccidono in Algeria, i talebani lapidano le donne in Afghanistan, e sempre in suo nome, ovvero in nome di una Grande Russia ortodossa e slava, i russi uccidono i ceceni, affidando alla religione la funzione di mobilitare che l’ideologia marxista-leninista ha esaurito. E come l’uomo folle della Gaia scienza, Glucksmann era forse venuto presto, anche nel denunciare il dilagare della “voluttà di distruzione” di questo nuovo terrorismo, omicida e suicida insieme: “Il terrorista classico (giacobino o bolscevico) universalizza il senso della morte. Il terrorista teologico, armato cavaliere da un Dio o da un’idea teologica, innalza la morte del senso a minaccia. Il primo lavora per l’uguaglianza, sia pure suo malgrado: la sua virtù vuol essere legge prima della legge e si immagina identica in ciascuno, come la mortalità. Il secondo fa il lavaggio del cervello: la sua follia vuol essere legge al di sopra della legge e piazza il prossimo in una controllata assenza di gravità”. Dopo i fatti terribili dell’11 settembre, Glucksmann provocatoriamente definisce questi terroristi, che hanno inaugurato l’era delle “bombe umane” dopo l’equilibrio del terrore atomico, non come fondamentalisti ma come prodigiosi nichilisti, tanti Raskolnikov, che vogliono innalzarsi come eroi sul sangue dei loro massacri, veri esemplari “di quell’umano volere che preferisce volere il nulla piuttosto che non volere”, a detta di Nietzsche. Un nichilismo dell’odio che può attrarre tutti, islamici e no, religiosi e no, pronti a prendere in prestito un’icona, per rendere rispettabile e anzi ammirabile e imitabile la propria volontà di uccidere. Al fondo, è lo stesso odio che ispira tanto il fanatico jihadista quanto il fanatico israeliano che assassina il suo premier perché ha aperto i negoziati con i palestinesi.

 

Vivere significa allora sopravvivere a quest’odio, educarsi a disinnescarlo dentro di noi, interrogarsi su se stesso e sulle credenze ereditate, pensare e giudicare in prima persona, compresi coloro che ci aiutano a farlo, in altri termini, conoscere se stessi. Glucksmann torna così nel suo “testamento” filosofico, pubblicato nel 2009, Les deux chemins de la philosophie, alla via maestra di Socrate, che non cessa d’interrogarsi sul vero e il falso, sul bene e il male, da scegliere rispetto all’altra via della filosofia, quella esemplificata da Heidegger, che privilegia invece la risposta, le spiegazioni ultime e totalizzanti, come il destino metafisico dell’Occidente iniziato con Platone e culminato nella tecnica moderna, nel Gestell, che conduce il filosofo tedesco a porre sullo stesso piano l’agricoltura meccanizzata e la produzione di cadaveri con le camere a gas. E così la causa dei disastri più recenti è fatta arretrare in un’origine fumosa e mitica. Il responsabile del dominio attuale della tecnica? Semplice, Platone. E, dal lato progressista, per Adorno e Horkheimer, non è da meno. Il responsabile del trionfo della razionalità strumentale e avida del capitalismo non è forse Ulisse? Quando troviamo la risposta in forze anonime, sovra-individuali, che operano alle nostre spalle e alterano inesorabilmente le nostre migliori intenzioni, “il sentimento dell’irresponsabilità diventa ecumenico”, scrive Glucksmann.

 

Ma per meglio prendere congedo da questo protagonista della vita intellettuale francese degli ultimi cinquant’anni, figlio di due genitori di origine ebraica, miracolosamente scampato da bambino ai campi e a una morte precoce crudele, durante l’occupazione nazista in Francia, forse bisogna tornare alle pagine commoventi dei Maîtres penseurs dedicati all’Ebreo che i “padri del pensiero” e numi tutelari della civiltà occidentale hanno visto come l’antitesi del cittadino dello Stato, di quello Stato da loro eretto a incarnazione moderna dell’idea del Bene e identificato tout court con popolo e nazione. L’Ebreo stigmatizzato perché rappresenta l’assenza di terra, il denaro che circola, la peregrinazione, l’interesse privato, il legame diretto con Dio, cioè tanti modi di sfuggire allo Stato. Nel suo recente e importante libro dedicato al commento dei “Quaderni neri” di Heidegger, Heidegger e gli ebrei, Donatella Di Cesare ricorda giustamente come per lunghissimo tempo sia passata sotto silenzio l’ostilità di molti filosofi verso gli ebrei, ma omette di dire che uno dei primi a rompere il tabù è stato proprio André Glucksmann, che, nel suo capolavoro del 1977, ha passato in rassegna l’antisemitismo, certo raffinato, mai volgare, di Fichte, Hegel e dello stesso Marx, che avevano fatto assurgere, nella Germania del XIX secolo, la “questione ebraica” a dignità filosofica. Inconsciamente memore del passato famigliare segnato dalla tragedia del ventesimo secolo, André Glucksmann non ha smesso, anche dopo la stagione combattiva dei nouveax philosophes, d’infiammare, col suo tono dolce ma fermo, le tribune televisive o i dibattiti accademici sempre in difesa dell’umanità in ogni angolo del mondo e di lanciare il suo j’accuse per quello che ha continuamente ritenuto il più grave crimine contro l’umanità, quello che ha reso possibile tutti gli altri: il crimine dell’indifferenza.

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