Ancora sul “Dumbo” di Burton / Uomini, elefanti e altri animali

19 Aprile 2019

Il ritorno di Dumbo al cinema pone diversi problemi allo spettatore di oggi. 

Sono passati ben 78 anni dall’uscita del film originale di Walt Disney e il trascorrere di tutto questo tempo ha reso la storia del piccolo elefante dalle grandi orecchie irrimediabilmente obsoleta. Prima del remake di Tim Burton, fra i grandi classici Disney, Dumbo si ricordava a malapena. Nonostante i tanti rilanci succedutisi negli anni (attrazioni dei parchi a tema, riedizioni in Dvd, Bluray, una serie tv a lui ispirata, videogame e quant’altro) il suo mondo appare distante dallo spirito del nostro tempo e per questo inesorabilmente inattuale. Vale così la pena di rinfrescare al lettore la memoria intorno alla sua storia originale, per comprendere meglio il senso dell’operazione forte di Tim Burton. 

 

L’elefantino volante approda al cinema per la prima volta nel 1941, come operazione commerciale, semplice e immediata, che potesse risollevare le sorti della Disney dopo l’insuccesso di Fantasia. La manovra riesce: il film riscuote un grande successo, nonostante i venti di guerra spirassero forte da una parte all’altra del globo terraqueo. La storia del film, inizialmente pensata come canovaccio per una sorta di proiettore giocattolo chiamato Roll-a-Book, è una sorta di riproposizione del mito dell’albatros baudelairiano. Un elefantino, nato in cattività in un circo, rivela delle orecchie grandi a tal punto da renderlo ridicolo. Per questo, egli viene emarginato dai suoi simili che si vergognano del suo aspetto e pesantemente “bullizzato” dai clown del circo e dal pubblico degli spettacoli. A difenderlo resterà soltanto la madre, di lì a poco destinata a essere allontanata da lui, e un piccolo topolino. Il prosieguo della storia mostrerà come dietro la sua deformità e la sua goffaggine si nascondesse un vero e proprio prodigio: l’elefante, scoprirà grazie all’aiuto del topolino e di alcuni corvi, di essere dotato del talento di volare, divenendo l’attrazione principale del circo, ammirata da tutti. 

 

 

 

Il circo è chiamato in causa, in questo poetico racconto di formazione, come set naturale della storia e quindi presentato senza alcuna problematizzazione. Ma sono le sue caratteristiche, guardate con il senno di poi, a connotarlo politicamente. Il circo di Dumbo è una macchina solidale, dove umani e non umani vivono insieme come membri alla pari della sua società. Nel mondo a due dimensioni proposto dal film, gli elefanti non sono meri oggetti da esibire ma danno il loro contributo, montando – come si vede, per esempio, all’inizio – il tendone, insieme agli umani e agli altri animali. Le differenze di status fra i membri del gruppo, però, non pertengono alla distinzione uomo/animale, provengono, piuttosto, dai talenti particolari dei soggetti coinvolti, ognuno integrato nell’ordine sociale in funzione della propria capacità di impersonare, nel momento dello spettacolo, una qualche qualità dell’animo umano. Anche le maschere vengono selezionate secondo questo criterio. I clown, per esempio, vengono considerati molto al di sotto di altri animali, al livello più basso della gerarchia, forse in virtù della loro crudeltà, sottolineata dalla loro sciocca e irresponsabile ilarità. Il circo si presenta, così, come un vero e proprio bestiario, rappresentazione allegorica dei vizi e delle virtù dell’umanità, resa possibile grazie alla generosità dei suoi personaggi, umani o animali che siano. Forse per questo, la sua comunità si rivela fortemente coesa: ogni singolo componente, sia umano che animale, lavora per il successo del circo ed è fiero della propria missione. Tutti vivono come in una grande “famiglia”, la cui esistenza è suggellata dalla figura paternalistica del direttore del circo a cui tocca la responsabilità di mandare avanti la baracca come un buon capofamiglia. 

 

In questo contesto si dipana la storia di Dumbo, della sua emarginazione e del suo riscatto. Solo la solidarietà del topolino, chiamato Timoteo, potrà salvarlo, quando tutto sembra volgere al peggio. Essi troveranno una imprevista affinità nel fatto di essere freak, l’uno così grande e l’altro così piccolo, outsider a cui è richiesto uno sforzo in più per dimostrare il proprio talento e ottenere cittadinanza nel collettivo. Sarà proprio Timoteo a vedere la bellezza della “imperfezione” di Dumbo e a spingerlo a tirare fuori la sua magica personalità.

La forma “politica” così apprestata, come si diceva, è considerata tanto normale e ovvia da essere data per scontata, assunta in buona fede e nemmeno lontanamente messa in discussione nel film. 

 

 

 

Le cose stanno diversamente a proposito del remake di Tim Burton.

Se è vero che la questione dell’emersione di sé attraverso l’accettazione consapevole della propria imperfezione rimane la colonna portante della storia, a essa si aggiunge un discorso secondo sul modello del circo. Nei 78 anni che sono passati dalla prima versione, infatti, il circo tradizionale – in particolare quello con gli animali – è stato messo duramente sotto accusa da parte dei movimenti animalisti e non solo, cosa che lo ha relegato ai margini dell’intrattenimento per bambini. Non è un caso che il film di Burton non sia stato “aggiornato”, filologicamente mantenendo la medesima ambientazione anni quaranta del primo film. L’unico modo per salvare Dumbo – deve aver pensato Burton – è raccontarlo al passato. Lo spettatore del film è così portato a proiettare se stesso in un tempo mitico, in cui la magia del circo, fatta di “sfida” e “meraviglia”, non era stata ancora infranta, aveva ancora posto nella società. È grazie a questa operazione fondamentale di ritorno al passato che il regista può avere le mani libere, può raccontare la sua versione dei fatti. E lo fa procedendo per lievi slittamenti che piano piano, riconfigurano l’intero senso della storia. 

 

 

Il circo, nella versione di Burton, esce dal registro fiabesco del primo film e sposa una sorta di “realismo magico”, la cui vita quotidiana è raccontata in tutta la sua trivialità: gli animali non sono più figure allegoriche dei vizi e delle virtù umane ma, al contrario, soggetti in carne e ossa, la cui alterità rispetto all’uomo è completa: le bestie del film sono ingombranti e maleodoranti, recalcitranti, difficili da gestire come nella vita vera. Il limine fra umano e non umano è così ripristinato: agli umani, nel film di Burton, toccherà, però, occuparsi degli animali, prendendosi cura di loro, vivendoci insieme. Il che significa che il domatore di elefanti, per esempio, non potrà esimersi dal provvedere alla loro pulizia e, soprattutto, sommo disgusto, dall’occuparsi della nettezza dei vagoni dove sono alloggiati, altrettanto colmi di elefantiaci escrementi. È questa la chiave attraverso cui Burton scardina il discorso animalista che vede nei circhi e nei circensi il male assoluto. Nella visione di Burton, il circo diventa una palestra di comunicazione, in cui gli uni e gli altri, per il fatto stesso di frequentarsi, di vivere insieme non possono che aggiustarsi progressivamente, imparando dalla relazione a rapportarsi, nella diversità, sempre più consonamente. Di più, uomini e animali, per questa via, saranno portati a prendere atto di un’ancora più profonda connivenza “mammifera”, legata alla genitorialità, tema fondamentale del film che mette in comunicazione questi due mondi. È così che a prendere il posto di Timoteo, il topolino, saranno due bambini orfani, cuccioli d’uomo, in grado di comprendere, per esserci passati in prima persona, sia la reazione ferina della mamma di Dumbo di fronte allo scherno del suo figliolo sia il senso di smarrimento e solitudine del medesimo elefantino una volta separato da lei. Il direttore del circo, interpretato da uno straordinario Danny De Vito, assume, così, il ruolo di un candido patriarca, testimone e garante di questo vivere insieme, di questa somiglianza. Niente di negativo può essere detto di fronte al candore dell’universo “internaturale” del circo messo in scena da Tim Burton. Grazie a questa prospettiva quasi “etnografica” il circo, da anni offeso, negato, bistrattato, umiliato, cancellato dalle nostre città può rivelare alle giovani generazioni che purtroppo non l’hanno potuto conoscere, la sua poetica (e fetida) bellezza. 

 

 

Ed è a questo punto che si comincia a delineare il vero antisoggetto del film. Si tratta di un nuovo modello organizzativo in cui il circo, proprio in virtù della sua felice affermazione, è risucchiato. A un certo punto, grazie al successo della performance di Dumbo, la compagnia attira, infatti, le attenzioni di un imprenditore senza scrupoli, che l’ingaggia per accaparrarsi il prodigioso spettacolo dell’elefante volante. L'uomo d’affari si impadronisce della fragile comunità di saltimbanchi gestendola come un’impresa, una delle tante attrazioni di un gigantesco (e burtonianamente lugubre) parco dei divertimenti. Questo nuovo modello, anche se ricalca la forma del circo, ne rappresenta il contrario, non rispetta né gli uomini né gli animali, la sua azione viene animata unicamente dalla volontà di dominio. La sua macchina diabolica cerca la standardizzazione, non fa altro che ripetere se stessa, producendo esperienze di intrattenimento mirabolanti e spettacolari quanto si vuole ma inesorabilmente appiattite alla logica del massimo profitto. Si capisce che un sistema di questo genere finirà per stritolare il piccolo mondo antico del circo, umiliandone in primis il suo ingenuo patriarca. 

 

La visita a questo tipo di parchi “modello Disneyland” (in un film prodotto proprio dalla Disney!) è l’esperienza di intrattenimento più vicina a quella degli spettatori del film, di regola tempestati da genitori in malafede di ingiunzioni a partecipare a feste a tema e momenti di svago di tal fatta. Nella sua versione dei fatti, Tim Burton ci tiene a ricordare che sono questo tipo di esperienze il vero cattivo da cancellare, la prigione da cui scappare. Letteralmente. E, per fortuna, l’evasione di Dumbo e dei suoi amici va a buon fine, segnando una possibilità di emancipazione, per circensi e spettatori. 

A questo punto il film potrebbe finire e sarebbe perfetto. Ma mi piace immaginare che i manager Disney, in un momento di sobrietà, abbiano realizzato la potenza della dichiarazione d’amore di Tim Burton per la "strana famiglia" dei suoi miseri e ancestrali circensi, richiedendo un finale adeguato, che chiarisse la posizione ideologica del progetto. 

 

Con un balzo temporale al presente, ritroviamo i protagonisti della pellicola. Il circo come lo conosciamo è stato distrutto, uomini e animali sono stati definitivamente separati, Dumbo mandato a forza in Africa “dove sarà sicuramente più felice”, nell’apartheid senza umani a cui viene condannato. Ritroviamo i nostri circensi senza tendone, stanziali e ripuliti, fare gli artisti da strada seguendo la moda dei cosiddetti nuovi circhi di buskers et similia. Una mistificazione: queste nuove compagnie non vogliono avere nulla a che fare con i circensi storici, non frequentano i discendenti delle grandi famiglie dei Medrano, degli Orfei, dei Togni, dei Vassallo e quindi non avrebbero ammesso nemmeno i simpatici accoliti del circo di Dumbo, condannandoli a passare come fantasmi nelle nostre periferie, nel disprezzo e nell’ignominia. 

 

Leggi anche: Daniela Brogi, Quando Dumbo eri tu, o ero io

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