Virgilio Sieni: Cena Pasolini, la vita brulicante

9 Aprile 2015

È come guardare una distesa di erba alta battuta dal vento ricordandosi che davvero il vento

«soffia dove vuole». Viene con il respiro della voce che da un punto absidale dello spazio del Salone del Podestà, dove la Corale Savani di Carpi forma a una lunetta con al centro il suo direttore, entra nella navata e scompiglia le figure, le solleva, le incurva, le abbatte: Cena Pasolini di Virgilio Sieni (la conclusione del progetto Nelle pieghe del corpo, un mese di spettacoli a Bologna) all’inizio si presenta proprio così, con un uomo che è già salito su uno dei tavoli, e una fila di donne al lato opposto del rettangolo che stese a terra alzano lentamente un braccio disegnando nell’aria un semicerchio, con quell’aspetto “rituale e quasi ginnico” che il coreografo fiorentino nei suoi appunti riprende da Roberto Longhi intento a studiare La morte di Adamo di Piero della Francesca. Con lo spettatore che, varcata la porta, si ritrova nel mezzo della sala tagliata dai cinque tavoli, lungo foglio di pentagramma sul quale i corpi dei bambini, delle donne, dei giovani, degli adulti, degli anziani imprimono note animose, lunghe e brevi, leggere e gravi, interpunzioni a piedi nudi colorate di tinte pastello – verdi, rosse, gialle, talvolta nere – che, volendo, potrebbero anch’esse evocare i colori di Piero «elementari come nell’iride o nelle vocali di un sonetto famoso».

 

 

Sospeso sulla striscia di nastro adesivo nero che delimita il suo confine lungo il perimetro dello spettacolo, lo spettatore perde subito i suoi riferimenti visivi – dimentica gli altissimi soffitti da cui pendono lampadari di cristallo, azzera gli stucchevoli affreschi simbolisti che ricoprono le pareti – si sente smarrito come se, voltando un angolo di strada in un paese sconosciuto, si fosse imbattuto nella vita brulicante di una piazza dove diverse comunità riunite attorno ai tavoli mettono in scena ciascuna una propria festa, una propria rappresentazione dell’Ultima Cena di Cristo. E va dagli uni agli altri, girando, senza alcun costrutto perché ciò che lo turba non è solo il continuum del movimento e la simultaneità dei piani coreografici – che in un minuzioso contrappunto si toccano e si respingono uno dall’altro – ma l’irriducibilità umana che li compone: non ci sono che corpi, gesti e voci, la musica stessa non è che pura e transeunte melodia – sotto la quale farfuglia una conversazione di gemiti e di sospiri – che sembra a malapena trascritta, come il Miserere di Allegri che estasiava il giovane Mozart in viaggio a Roma.

 

 

Si vorrebbe vedere tutto e ci si limita a inseguirlo, e dunque a perderlo: a un tavolo son seduti in tredici e un cenno invisibile li immobilizza nel fermo immagine dell’Ultima cena – non può essere che quella di Leonardo – mentre un altro è circondato da un girotondo di bambini che lo celebra o lo deride. Il respiro del coro entra ovunque creando diverse distanze, trasformando i gesti in variazioni musicali, in apici, in cadute, in fughe, in silenzi. Un battito di mani richiama altrove, finché non si capisce che bisogna fermarsi per cogliere qualcosa di essenziale in questo canone che incessantemente si perde e si riprende dove il tutto si specchia sempre nella parte. Che bisogna capire, anzitutto, qualcosa dei suoi corpi, diversi da un gruppo all’altro: al centro, alla media altezza dello sguardo, ad esempio, ci sono i bambini e i loro movimenti vengono dal gioco, perché del gioco e della sua imitazione hanno la libertà e la compunta serietà, soprattutto nelle bambine, concentrate e accuratissime nel provare l’equilibrio delle proprie figure. Laggiù, dove la melodia giunge più attenuata, ci sono gli anziani e i loro movimenti sono più lenti e incantati, arrivando dopo fanno risuonare la gravità del tempo, raccontano la sua leggenda, sentono vibrare lo spirito. È il controcanto di Masaccio, il pittore delle crepe che si depositano sui volti e sulle cose, alla fanciullesca freschezza delle Madonne bambine, figlie del proprio figlio, di Giovanni Bellini.

 

Ma qui e lì, tra gli adulti o tra i bambini (che in realtà sono ragazzi, ma sembrano più piccoli), la figurazione del gesto riprende una matrice, una somiglianza, quella del corpo accolto, assistito, soccorso che è tipica delle coreografie di Virgilio Sieni: queste deposizioni e queste pietà – o gli accompagnamenti orfici, la mano lievemente premuta sulla nuca del viaggiatore – che nelle sequenze della Cena appaiono frammentate in cenni e molecole, appartengono allo stesso alfabeto degli Arlecchini professionisti che saggiavano la loro precarietà in uno spettacolo apparentemente lontano come il De Anima. Sciogliendo la virtù nell’essere, trasferendo la complessità dalla particella elementare al disegno, il coreografo toscano ha portato in scena un popolo che nei gesti della sofferenza divina fissati dalla tradizione iconografica riapprende i gesti della propria sofferenza immemoriale. In altre parole, ha messo un affresco in movimento, utilizzando la somiglianza, questa ambigua qualità di transizione che unisce ciascun corpo ad altri corpi attraverso il medium del corpo santo, proprio come Pasolini nel suo cinema a un tempo profano e religioso. Con la differenza che la Cena non è un quadro o un’inquadratura – e neppure i tableaux vivants della Ricotta ispirati a Rosso e a Pontormo – è un rito immerso nell’impeto performativo di un tempo musicale dove ogni figura sacra è decostruita e ricomposta senza posa secondo un disegno che si intuisce (o si deduce) perché non lo si vede.

 

 

Un battito di mani risuona nell’aria e i bambini rompono la simmetria della loro sequenza disperdendosi come farfalle in ogni direzione dello spazio. È un tana libera tutti che non spezza il disegno, lo supera e lo invera. Così come avviene in altri due momenti della Cena, quando è il coro stesso ad avanzare, saltando i tavoli e travolgendo via via i ranghi degli apostoli che si sciolgono e si riuniscono nella folla di un esodo, per ben due volte: la prima come una processione che scorre lungo la navata centrale di una chiesa, la seconda come un corteo cui gli spettatori assistono dai bordi di una strada. E infatti gli accenti sacri della melodia che prima aveva intonava il Miserere e l’Agnus Dei di Arvo Pärt si mutano in quelli civili di Bella ciao. È un altro dei sensi della Pasqua, in fondo, quello politico della liberazione degli Ebrei dalla Schiavitù d’Egitto. E, come ricorda lo stesso Sieni, è una delle qualità che Pasolini voleva attribuire al suo film evangelico dove la figura del Cristo avrebbe dovuto possedere alla fine «la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione». Anche se forse, nel caso di Sieni, quel «senza religione» andrebbe più inteso come un «senza comunione e senza memoria».

 

Perché in una movenza di comunione, più che di resistenza, si chiude Cena Pasolini, rito memoriale coniugato al presente: in un rinserrarsi di corpi attorno alla memoria dell’essere stati insieme corpo civile. Niente di trionfale o peggio di identitario: quest’opera che unisce l’entusiasmo della festa allo splendore primitivo della figurazione non lo sopporterebbe. Ci si è spesso chiesti, in questi ultimi anni, se un’arte sacra sia ancora possibile. I critici e i teorici “miscontemporanei” alla Jean Clair (o alla Marc Fumaroli) hanno risposto che l’unico gesto con cui l’arte contemporanea si ricollega al sacro è il sacrilegio. Il lavoro di Virgilio Sieni sta aprendo un’altra strada.

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