Wallace all'italiana

2 Febbraio 2011

Un discorso sullo stato attuale della lingua italiana potrebbe incominciare da uno scrittore che è venuto in Italia una sola volta. Era il suo primo e, salvo errore, è rimasto l'ultimo viaggio in un Paese della cui lingua non conosceva una sola parola. Si tratta dell'americano David Foster Wallace.
David Foster Wallace era uno snob linguistico, membro di una famiglia di snob linguistici: non è una mia illazione, ce lo ha detto lui nel recensire un dizionario dell'uso linguistico americano. Una grande opera, voluminosa come un dizionario e - attenzione - normativa: dice quali forme è meglio usare e quali altre è meglio non usare. Il saggio di Wallace non è una piccola recensione: è molto più lungo della media dei saggi e, come è nello stile di Wallace, salta da osservazioni generali a racconti personali, con digressioni, incisi, punte di umorismo e affermazioni perentorie.
Cos'è uno snob linguistico, o una famiglia di snob linguistici? Il padre di Wallace è un professore di filosofia, studioso di Wittgenstein; la madre, un insegnante di inglese. Sin dall'infanzia i loro figli sono stati abituati a critiche e osservazioni sul loro uso della lingua, sulla pronuncia, sulle scelte lessicali, sulla correttezza sintattica; nonché a valutare ogni persona venissero a conoscere dal modo in cui usava la lingua. Per Wallace l'autore del dizionario, mister Gardner, era un punto di riferimento: in caso di dubbio si rivolgeva alle sue pagine dandogli credito anche quando indicava come scorretta la forma che Wallace voleva usare. Wallace amava molto, inoltre, il proprio ruolo di insegnante. Correggeva l'inglese dei suoi studenti con grande impegno e accanimento e affrontava discussioni anche difficili, per esempio con gli studenti di colore, spiegando con chiarezza e durezza che la lingua è fatta di varietà e, giusto o sbagliato che sia, occorre imparare la varietà linguistica dominante, per non tagliarsi fuori da soli dai posti di lavoro, dai livelli sociali, dagli stili di vita che la impiegano come lingua esclusiva.
Ho scelto di partire da Wallace e ora per me viene il difficile: come è possibile trovare un'analogia fra la situazione italiana e quella che lui descriveva per l'inglese parlato in America? L'assetto piramidale di una lingua stratificata in varietà via via meno prestigiose, corrispondenti a una piramide di strati sociali, è molto convincente: non a caso «Queen's English»: è l'immagine eloquente di una ragionevole coincidenza fra buona lingua e buona società, appartenenza alla classe dirigente e soggezione alle norme - fatte lavorare al loro massimo grado di efficienza. C'è però il rischio di pensare che le cose stiano sempre così, cioè che sia necessario che stiano così. Ma ecco che questo modello, applicato in Italia, pare non funzionare, come la logica delle proposizioni sul linguaggio di un bambino dell'asilo o sul discorso di un pazzo; oppure come la meccanica classica nei confronti della quantistica. Forse il modello di Wallace, almeno nella mia sbrigativa versione, non funziona; forse in Italia siamo più indietro, forse siamo addirittura più avanti, in una situazione sociolinguistica post-qualcosa in cui sono saltati tutti i registri, ammesso che a saltare non sia stata ogni tipologia possibile di discorso.
Occorrerebbero di fatto grosse forzature per trovare il rapporto tra varietà di prestigio e varietà di rango inferiore nel rapporto che c'è oggi fra lingua italiana e dialetti. È una forzatura che ogni tanto viene tentata, dalla politica e per ragioni solo politiche. Poi il discorso cade, anche se indubbiamente una questione dialettale oggi è aperta, o riaperta, nelle pratiche discorsive comuni, con i neodialettismi di ritorno in diverse zone d'Italia.
Non è che, dialetti a parte, l'italiano non conosca varietà: tutt'altro. Ma la gerarchia fra tali varietà è fortemente instabile e soprattutto non pare esserci un'equivalenza possibile fra prestigio della varietà, suo livello normativo e livello sociale del parlante che la adotta.
Ci sarebbe addirittura da domandarsi - a partire dal solo uso che si fa della lingua italiana, in Italia - se esista una classe dirigente in questo Paese.
Parlamentari, uomini di governo, magistrati, giornalisti, uomini d'impresa, scrittori, filosofi, scienziati, professori, autorità religiose, autorità militari... La classe dirigente, secondo la ripartizione consueta, sarebbe composta da queste categorie. Categoria per categoria, individuo per individuo, possiamo certamente trovare fra loro sia chi parla e scrive un «buon italiano» sia chi parla e scrive un «italiano non buono», o proprio «cattivo». Il problema è che così si è rovesciato il ragionamento: ci si stava appunto chiedendo cosa sia oggi «il buon italiano» e non possiamo certo usare come strumento della ricerca il suo oggetto. Il buon italiano è quello privo di errori di grammatica ? Quello privo di inflessioni dialettali? Quello che impiega un lessico relativamente ampio o piuttosto quello che lo restringe per essere compreso da tutti?
Se non ci mettiamo alla ricerca di un «buon italiano» ma di una varietà di italiano che è possibile considerare «di prestigio» il discorso cambia. L'italiano scolastico serve per la scuola; quello avvocatizio non viene parlato fuori dalle aule tribunali (e parlamentari), e così via. Nessuna varietà di italiano parlato e scritto da individui appartenenti alle categorie elencate si può considerare «di prestigio»: perlomeno, il prestigio non è riconosciuto e non costituisce un modello per gli altri parlanti.
Eppure i parlanti italiani dei modelli li hanno: non sarebbe né corretto né sensato asserire che i parlanti italiani siano in grande maggioranza degli estrosi utenti della lingua o che domini una sorta di anarchia comunicativa, in cui ognuno parla come vuole e sa, senza subire l'influsso di alcun paradigma sociale.
Esiste un secondo cerchio di autorità linguistiche, costituito da personaggi di grande popolarità: presentatori televisivi, comici, anchormen, dj, cantanti, attori, sportivi e (questi altri non sono popolari di persona, ma pure non vanno dimenticati) i loro autori e uffici stampa, copywriter, p.r., portavoce. I due insiemi non sono privi di intersezioni: gli stessi politici oggi sono anche personaggi televisivi, e viceversa più di un personaggio televisivo è diventato politico e ha ricoperto cariche pubbliche elettive. Ancora più consueta l'osmosi tra giornalisti e personaggi televisivi, così come o tra intellettuali e personaggi televisivi (attraverso la figura dell'«ospite»). A questo cerchio si incominciano ad aggiungere anche autori di siti Internet e blog.
Un terzo livello, infine, è quello di più recente costituzione: comprende un ceto che era già in espansione negli anni Novanta, ma che dal 2000 ha occupato la scena, soprattutto televisiva, con sempre maggiore decisione e crescente influenza. È il popolo interattivo: il pubblico televisivo e radiofonico, i partecipanti ai concorsi e alle trasmissioni, i concorrenti dei reality show, gli intervistati per le strade dai tg, gli utenti di social network, i mittenti degli sms che i programmi fanno scorrere nella parte bassa dello schermo.
È dentro questi tre cerchi che si situano i fenomeni più rilevanti di cui si sente parlare a proposito dell'italiano.
Alcune opinioni diffuse nei riguardi dell'italiano:
è una lingua in via di colonizzazione da parte dell'inglese;
è una lingua che ha colonizzato i dialetti;
è una lingua che viene rovinata, soprattutto dagli sms: la gente non sa più parlarlo e scriverlo;
è una lingua che sta perdendo il modo verbale congiuntivo;
è una lingua che sta diventando «di plastica» (espressione che viene compresa senza bisogno di altre spiegazioni; e che forse è un po' di plastica essa stessa).
Ognuna di queste affermazioni è indipendente sia dalla realtà della lingua, così come la descrivono la linguistica, la storia della lingua e la storia tout court; sia, molto spesso, dall'uso stesso dei parlanti, che contemporaneamente denunciano gli anglismi e dicono «ok» e «no problem», deprecano la lingua di plastica e ribadiscono i tormentoni della pubblicità in ogni occasione.
Messo di fronte alla lingua come istituzione - come per esempio è successo di recente con alcuni sondaggi condotti dalla società Dante Alighieri - il parlante sembra avere un atteggiamento di rispetto corrucciato: corrucciato per essere uno dei pochi che mostrano appunto rispetto per un bene comune, comunemente maltrattato. L'uso personale effettivo è poi un altro paio di maniche.
Per fare un solo esempio, il gruppo «Lottiamo contro la scomparsa del congiuntivo», su Facebook, conta oggi quasi centomila iscritti, e sono certamente tanti.
Il suo manifesto è questo: «Dedicato a tutti quelli che soffrono d'orticaria quando sentono bestie parlanti usare l'indicativo e il condizionale al posto del congiuntivo. Non saper usare il congiuntivo non vuol dire essere moderni: vuol dire semplicemente non saper parlare correttamente l'italiano. Ma non di solo congiuntivo si vive in questo gruppo! Troverete discussioni su tantissimi aspetti della lingua italiana, con toni più o meno seri: dall'uso del "piuttosto che", al nuovo linguaggio generato dai telefonini, dagli anglicismi alle espressioni dialettali, ce n'è per tutti i gusti».
È un testo molto interessante, per alcune spie che contiene. Naturalmente un gruppo in un social network non è un seminario accademico, ed è anzi assai significativo che Internet - uno dei luoghi a cui tradizionalmente si attribuisce una grande e perniciosa influenza sull'italiano contemporaneo - sia anche il canale per argomenti di questo tipo. Centomila persone dedicano parte del loro tempo a discussioni e segnalazioni su esempi di «cattivo italiano»: lo ritengono istruttivo e anche divertente. Di fatto, il manifesto del gruppo non passerebbe all'esame di uno snob linguistico, quanto meno per l'eccessiva presenza di modi di dire consunti: «soffrire di orticaria»; «non di solo congiuntivo»; «ce n'è per tutti i gusti». Fra gli altri luoghi comuni fa spicco: «il nuovo linguaggio generato dai telefonini».
Che più che di opinioni sulla lingua si tratti di sentimenti, stati d'animo lo testimonia proprio il tema della scomparsa del congiuntivo, che non è affatto quello che più preoccupa i linguisti. Una recente analisi dell'italiano scritto in tesine, tesi e altri elaborati universitari si è conclusa sottolineando gravi e diffusi problemi - di proprietà lessicale, di uso della punteggiatura, di coerenza e consistency testuale - ma ha anche evidenziato che il congiuntivo viene usato, e viene usato correttamente. Per ragioni non facili da indovinare il congiuntivo è diventato il punto sensibile, il dente dolente della autocoscienza linguistica nazionale.
A me piacerebbe avanzare l'ipotesi che nel congiuntivo venga istintivamente individuato lo snodo che fa passare dal linguaggio comune - quello che si usa per intendersi - a un livello linguistico più prestigioso perché più sorvegliato e prezioso: un livello linguistico di cui si avverte e si lamenta la carenza, al punto da non accorgersi che in realtà il congiuntivo viene spesso usato anche in un parlato non particolarmente accurato. A una lingua prestigiosa mitica - vagheggiata anche se non c'è - corrisponde un modo verbale mitico - rimpianto anche quando c'è.
Andrebbero poi fatte comparazioni di cui io non sono capace per stabilire se anche altrove, ovvero in altre società ad alta presenza di mass-media, si continuino ad affermare moduli fortemente espressivi: pronunce dialettali parodistiche, neologismi umoristici, quelle espressioni ricorrenti che Alberto Arbasino ha brillantemente battezzato «tormentoni», esclamazioni e usi informali, fino alla diffusione epidemica e noncurante del turpiloquio. Spezie che rendono più saporita la pietanza del discorso, quando non la sostituiscono del tutto. Avremmo così tre livelli: la noia dell'italiano corretto; il divertimento dell'italiano neo-espressivo; lo snobismo linguistico di chi prova noia per l'italiano divertente.
È molto raro che qualcuno difenda esplicitamente e pubblicamente l'italiano neo-espressivo che pure avanza da sé, con la mera forza dei dati di fatto, nelle trasmissioni radiofoniche giovanilistiche come nelle telefonate compiute nei luoghi pubblici. Personalmente ricordo solo un'intervista in cui lo showman Fiorello, che era già un personaggio di successo ma era un poco meno scaltro di quanto sia adesso, disse: «Io piaccio alla gente perché faccio gli stessi errori di grammatica che fanno loro». Gente, loro: detto, fatto.
Non si può dire, quindi, che neppure l'italiano neoespressivo sia la varietà di prestigio dell'italiano contemporaneo. Non resta che da chiedersi se di una varietà di prestigio ci sia veramente bisogno, se se ne senta la mancanza o se questo sentimento non sia artefatto o vuoto, come la nostalgia di chi rimpianga le piramidi.
La gran parte dei fenomeni a cui ho accennato ha una faccia desiderabile e una indesiderabile. «A che punto è la notte?» si chiede il titolo del nostro incontro: potrebbe trattarsi di un punto anche molto avanzato, ma potrebbe anche darsi che la notte sia la condizione abituale e permanente del tempo presente, in cui è difficile leggere le prospettive, le linee di sviluppo dal passato al futuro.
I mass-media dominanti hanno inglobato il loro pubblico (una volta passivo) e così si è definitivamente innescato un rispecchiamento capace di annullare il dislivello tradizionale fra parlanti professionali (diciamo così) e loro uditorio. Abbiamo ancora linguaggi settoriali più ricercati: accademici, giuridici, scientifici, burocratici, politici (in senso stretto e tecnico). Sono però sempre più strettamente settoriali: il critico letterario quando scrive per il giornale evita al possibile di usare il suo linguaggio critico usuale, il che corrisponde naturalmente a un sensato calcolo dei registri discorsivi. Nessuno desidererebbe il ritorno allo specialismo che non si spiega: però avvertiamo anche un calo di tensione verso ciò che non conosciamo e ci sono linguaggi che è possibile non avere mai occasione di ascoltare, cercare di comprendere, prendere a modello. La modalità dei mass-media è quella dello storytelling, il tentativo è quello di farci immedesimare, identificare, rivolgendo il discorso alla nostra sfera emotiva più che a quella emotiva. Lo specialismo che diventa favola non è una soluzione del problema, ma è l'apertura di un altro problema.
Senza poi considerare che, maggiori sono le ambizioni del critico letterario, del criminologo, del commentatore sportivo di diventare un personaggio pubblico di successo, più tenderà a riportare l'intero suo discorso nei limiti di quella lingua media, o lingua-media , che è avvertita come la sola che è naturale usare nell'arena pubblica. È come se parlare un italiano corretto e sobrio corrisponda, per i maschi, al presentarsi in pubblico con la cravatta: e si sa che togliersi la cravatta è il primo segno di informalità che si può dare in un incontro conviviale. Altrettanto liberatorio sembra il gesto linguistico informale, la parolaccia sdoganata, la battuta sentita mille volte, la costruzione sintattica a senso, l'implicita premessa: «tanto ci intendiamo».
Una lingua scalza e scravattata, che si rinnova mediante trovate, considera snob la consapevolezza di sé e cercando di distinguersi perpetua la propria medietà. È questa l'unica possibile dimensione di libertà e disinibizione? Quando, in Italia o altrove, si parla e scrive fidando nell'intelligenza di chi ascolta e legge già si incomincia a fare qualcosa per la lingua stessa. Il prestigio seguirà: se seguirà.

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