Yasha Mounk, Il grande esperimento della democrazia

20 Agosto 2022

Una democrazia capace di integrare tutti i gruppi che ne fanno parte non esiste ancora: è il più grande esperimento del nostro tempo e determinerà la direzione del nostro futuro.

Sono il tema e la sfida che propone Yasha Mounk con il suo Il grande esperimento (Feltrinelli) arrivato in libreria in queste settimane.

Mounk a differenza del senso comune che trent’anni fa era diffuso e sosteneva che il futuro – incerto o veloce – era comunque segnato dal progressivo equilibrio, non è così convinto che questo sia lo scenario che ci aspetta. È giustamente, molto incerto.

Quell’incertezza non deriva dagli ultimi avvenimenti, ma è parte della riflessione di Mounk da tempo.

 

L’ultimo paragrafo di Popolo Vs Democrazia – uscito nel 2018 – il libro che concettualmente, mentalmente e emozionalmente è strettamente legato a Il grande esperimento, Yasha Mounk lo apriva così: «A oggi è impossibile prevedere quale sarà il destino del nostro sistema politico. Forse l’ascesa dei populisti sarà una fase di breve durata, che tra cento anni verrà rievocata con un misto di sconcerto e di curiosità. O forse sarà un cambiamento epocale, il preannuncio di un ordine mondiale in cui i diritti individuali verranno violati ad ogni piè sospinto e il vero autogoverno sparirà dalla faccia della terra. Nessuno può prometterci un lieto fine». [p.239]. Rimaneva il dubbio.

Il grande esperimento fuga questa incertezza e decisamente volge verso il pessimismo.

Eppure già allora, a ben vedere, in quelle pagine del 2018, Mounk non si nascondeva un tratto inquietante che è parte strutturale della crisi politica di questo nostro tempo che allora era significativo e che in questi anni non è diminuito. 

«Le teorie del complotto – scriveva nella parte finale dell’ultimo capitolo prima di tracciare le conclusioni – sono da tempo un’ostinata realtà della politica. Ciononostante in passato avevano un peso molto più marginale della maggior parte delle democrazie liberali» [pp. 216-217; il corsivo è mio].

Perché questo tratto è inquietante? Perché a lungo abbiamo ritenuto che le teorie del complotto fossero il sintomo di regimi totalitari o autoritari – come per esempio la Russia di Putin (come argomenta e dimostra Bengt Jangfeldt nel suo L’idea russa).

Oppure la conseguenza di una conoscenza generale scarsa e di processi di alfabetizzazione ristretti. Ovvero che la causa del loro successo dipendesse da livelli bassi di acculturazione. Convinzione, quest’ultima, non solo non fondata, ma falsa. Come quando ci diciamo che gli stermini avvengono perché non sappiamo che cosa stia avvenendo, per cui Auschwitz o Katyn sono stati possibili perché non potevamo immaginare cosa rappresentasse quel lavorio di treni, persone mobilitate a catturare altre persone. E che, comunque quell’organizzazione è stata efficiente a mascherare ciò che stava facendo e a distrarci.

Ma cinquant’anni dopo quelle scene, avevamo tutti gli strumenti di informazione per sapere in tempo reale cosa stava accadendo a Srebrenica. Eppure allora, tra domenica 9 luglio e martedì 11 luglio 1995, ci siamo detti che non erano fatti nostri, che i musulmani di Bosnia non erano cittadini di Europa, e dunque non meritavano la nostra attenzione. O, alternativamente, che erano fatti loro, o che se l’erano cercata. Così siamo andati al mare.

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Quella decisione non è diversa dal credere ciecamente nelle teorie del complotto. Infatti, come quella, si costruisce sul non farsi domande e confortarsi delle risposte che troviamo convenienti.

In questa dimensione stanno le sfide che oggi abbiamo e a cui dobbiamo rispondere in termini di “società aperta” ovvero inclusiva, disponibile al confronto, convinta che il processo di crescita non è l’effetto di un solo codice culturale o di una sola cultura che cresce nel tempo, ma che lo sviluppo è anche fatto del continuo interrogarsi sugli attori diversi che popolano e nostre società e che le pratiche di confronto consentono una crescita. 

Ma è anche vero, e Mounk fa di tutto per non nasconderlo, che oggi è proprio questa sfida della multiculturalità ad essere sotto stress perché non governata, sottolinea Mounk, da un progetto di convivenza tra gruppi umani fondata su identità culturali diverse che si percepiscono come costruttive di un patto, ma come alternative e dunque in conflitto per affermare la propria supremazia.

Se lungo il ’900 il tema era superare le proprie specificità, costruire in nome di un patto di futuro una nuova sintesi che tenesse insieme, ma anche superasse le identità specifiche e proponesse un discorso aperto, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso e poi in quest’ultimo ventennio l’agenda politica e culturale delle realtà multiculturali che tentavano o almeno si ripromettevano di aprire un discorso di “scambio” è radicalmente cambiata.

Quell’agenda non si tiene più sui propositi da costruire pensando al futuro, ma su quelli da affermare confermando il passato. Anzi, più precisamente: proponendo un’ideologia dell’osservanza e salvaguardia del passato, perché come ha sottolineato Ernest Gellner nel suo Ragione e religione (un libretto succoso uscito nel 1993 che sarebbe bene riprendere in mano) il mondo contemporaneo, sul piano delle credenze, è riducibile a un triangolo: a un vertice si colloca il fondamentalismo, che crede in un'unica verità e ritiene di esserne in possesso; al secondo vertice sta il relativismo che nega l'idea di un'unica verità ma che si propone di trattare ogni singola visione come se fosse vera; al terzo vertice, in cui Gellner si riconosce, si trova il razionalismo illuminista, o fondamentalismo razionalista, che crede nell'unicità della verità, ma non crede di arrivare a possederla con certezza.

Per Gellner, che Mounk tiene d’occhio con costanza sotto traccia in questo suo testo, il fondamentalismo, almeno dagli anni ’70, non è una rivincita della tradizione contro la modernità, né il recupero di un codice scritto, ma la decisione di aderire a una civiltà, ovvero la contrapposizione con il moderno non è giocata né su un piano filosofico, né su quello economico (anche se si danno ricadute su entrambi i piani), bensì su quello etnico.

«Contrariamente a ciò che in genere credono gli stranieri – scrive Gellner, e Mounk tiene questo tema con convinzione, – una tipica donna musulmana non indossa il velo perché così faceva sua nonna, ma perché sua nonna non lo faceva (..). Col velo la nipote festeggia la propria appartenenza a quel gruppo, e non la propria lealtà nei confronti della nonna» (p. 31).

E tuttavia a differenza della sfida aperta 30 anni fa, nel frattempo la società ha attraversato processi non solo di diffusione del fondamentalismo religioso come politico, ma anche ha segnato un arresto nei processi di integrazione tanto che il problema delle seconde generazioni di immigrati non è più quello della emancipazione politica e economica, ma di non credere all’offerta culturale del patto di inclusione culturale in cui più o meno volontariamente si erano riconosciuti i genitori o i nonni.

Quello stesso processo contemporaneamente riguarda le generazioni che rappresentano la continuità (o forse più precisamente “gli eredi”) del gruppo originario, che attraversano lo stesso processo di recupero di identità, non sono disponibili a pensare ipotesi di futuro perché interpretano la scommessa multiculturalista sia come un bluff sia come un progetto volto a delegittimarli. Su quel terreno recupera credibilità il codice complottista o discriminativo.

Mounk osserva i processi che hanno connotato gli Stati Uniti in quest’ultimo decennio e particolarmente le nuove realtà conflittuali nel tempo della Presidenza Trump, compresa ovviamente la scena del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill.

Non abbandona un codice ottimista ovvero di reinvestimento possibile sulle azioni dal basso, su pratiche di vicinato, sulla necessità di non abbandonare il terreno dell’analisi concreta dei fenomeni, anche quelli più violenti, per cercare di restare sulla scena inquieta del reale senza costruire procedure astratte. Quello che si potrebbe definire una pratica empirica concreta che obbliga a rimanere sul terreno delle cose da fare.

È certamente un passo importante perché gran parte dei complottismi e delle spiegazioni che propongono principi generali si fondano sull’abbandono del contesto concreto, sulla valutazione dei singoli e dei gruppi umani per stereotipi, infine sulle pratiche consolatorie dell’ideologia.

Ma, appunto, quella pratica si può perseguire se rimangono aperte strade di «buone pratiche» concrete e dunque di azioni che sono conseguenti al prendere in carico gli individui reali, non le icone, compreso il fatto di non assolvere a priori il proprio gruppo.

Le domande alla fine sono due e sono non rinviabili: quanta pazienza c’è ancora? E poi: quanto tempo abbiamo ancora davanti per intraprendere quella strada? Questo Yasha Mounk non lo dice. Magari un’altra volta.

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