1964. Il coraggio degli italiani in mostra al MoMA di New York

23 Novembre 2011

L'articolo di Marco Belpoliti del 10 novembre sulla mostra di Cattelan al Guggenheim di New York mi convince a raccontare la storia di un’altra mostra, di tanti anni fa. Era da un po’ che ci pensavo. Prima però bisogna che accenni a quei miei studenti che nelle ultime settimane hanno cominciato a farmi domande difficili, tipo: “ma, professore, come abbiamo fatto a ridurci così?” oppure “com’è possibile che la stampa di tutto il mondo scriva di noi italiani queste cose?”. Mettetevi nei miei panni, non sapevo da che parte girarmi.

 

Per fortuna d’estate leggo parecchi libri e me ne sono venuti in mente due, nei quali ho creduto di trovare qualche risposta. Il primo, La strada dritta di Francesco Pinto (Mondadori), narra in forma romanzata l’epica costruzione dell’Autostrada del Sole; il secondo, La catastròfa di Paolo Di Stefano (Sellerio), ricostruisce attraverso le testimonianze di chi c’era la tragedia dei minatori italiani a Marcinelle. Peraltro insegno ai futuri geometri delle valli bergamasche, dove da generazioni la gente progetta e costruisce strade e viadotti e da cui, fino agli anni sessanta, in tanti emigravano verso le miniere franco-belghe. Insomma, sentivo che potevo giocarmela.

 

Viadotto sul torrente Aglio, G. Oberti, B. Gentilini, A. Romagnoli. 1957-1959, 164 metri di luce.

 

Ho cominciato così. Pensate cosa siamo stati capaci di realizzare in soli otto anni, fra il 1956 e il 1964: 755 km di autostrada, 113 ponti e viadotti, 572 cavalcavia, 38 gallerie, 57 raccordi con una media di 94 km di strada finita all’anno, su uno dei tracciati più difficili al mondo. Nessuno è mai riuscito a superare questa media. Quando Fedele Cova, l’amministratore delegato della Società Autostrade, era andato in America a cercare dei finanziamenti, aveva incontrato diffidenza e incredulità; un banchiere gli aveva però dato fiducia: ci vuole gente dura per immaginare il futuro -gli aveva detto- e voi lo siete.

 

Avete presente il tratto Bologna-Firenze, quello pazzesco che fra Sasso Marconi e Barberino del Mugello fa disperare automobilisti e camionisti tutti i giorni? Ma sì, quello che da anni si sta cercando di raddoppiare con la famigerata variante di valico. Beh, lì in mezzo ci sono 24 km con ventisei gallerie e ottanta opere fra ponti e viadotti: una vera sfida per gli ingegneri, gli architetti e gli operai italiani di quel dopoguerra. Vedere per credere.

 

Certo, i costi furono alti, e non mi riferisco ai soldi ma ai 74 operai che persero la vita in quei cantieri e ai quali è tuttora dedicata la straordinaria chiesa di S.Giovanni Battista di Campi Bisenzio, nei pressi del casello di Firenze Nord, costruita in pietra e rame su progetto di Giovanni Michelucci. Quando stai per arrivare a Firenze da nord si può vedere quasi per intero, sembra una navicella spaziale, bellissima. Fu iniziata nel 1960 e inaugurata nel 1964…

 

Chiesa di S.Giovanni Battista di Campi Bisenzio.

 

Poi ci sono altre imprese da raccontare, ad esempio la storia dell’attraversamento del Po, con il famoso ponte nei pressi di Piacenza, un gioiello di ingegneria civile, una struttura a 16 campate di 75 metri di luce ciascuna, per il cui collaudo, vero evento mediatico del tempo, furono mobilitati i carri armati dell’esercito.

 

Ponte sul Po presso Piacenza. Collaudo 4-5 giugno 1959.

 

Scorrono le immagini dell’Italia di allora: nel febbraio del 1958 gli operai del cantiere di Colle Citerna lavorano in galleria, fa molto freddo e due lupi ogni tanto si fanno vivi ai confini della zona recintata; una mattina, durante la solita ispezione in galleria, l’ing. Nigro scopre con un sorriso che gli operai si sono messi a fischiettare “Volare, oh oh”. Alle Olimpiadi di Roma il torinese Livio Berruti vince la finale dei 200 metri e dagli spalti dello stadio Olimpico si alza un coro, è la prima volta che succede in tempo di pace: Italia Italia.

 

Mi rendo conto che comincio a prenderci gusto, i ragazzi mi guardano. Mi ricompongo. Ci sono pagine molto belle verso la fine del romanzo di Francesco Pinto, nelle quali si incrociano un’ultima volta i destini dei vari personaggi: Bruna, sul sagrato della chiesa di Campi Bisenzio, si rivolge al capocantiere De Angelis e a Fedele Cova, prima di stringere loro le mani: “se smarriamo la memoria del nostro coraggio – dice - non saremo più capaci di ritrovarlo”. Nell’ultimo capitolo i protagonisti dell’impresa, Cova e i suoi collaboratori, si ritrovano a Firenze Nord, stanno per assistere all’inaugurazione ufficiale dell’Autostrada, è il 4 ottobre 1964. Passeggiano fra le corsie deserte, il manto liscio di asfalto accoglie i loro passi, dopo di loro sarebbe toccato ai camion e alle auto di un paese che aveva fretta di crescere.

 

Uno, di nome Bottura, osserva: “l’hanno definita la spina dorsale d’Italia”. Cova, il capo, commenta: “speriamo di riuscire a mantenere nei prossimi anni la schiena dritta”. E qui, prima di approfondire il concetto con i miei studenti, faccio un salto a New York e gli racconto della mostra al Moma inaugurata il 30 giugno di quell’anno, il 1964, che celebrava con alcuni mesi di anticipo “la più bella autostrada del mondo” e rendeva omaggio al coraggio degli italiani.

 

Twentieth Century Engineeringcatalogue, Museum of Modern Art, New York, 1964.

 

Ma bisognava tornare su quel fatto della schiena dritta, che mi sembrava da non sottovalutare dal punto di vista educativo. Ho allora pensato di ripartire dalle schiene ingobbite dei minatori italiani e mi sono fatto aiutare dalle pagine di Catastròfa di Paolo Di Stefano. Nelle miniere del Belgio i primi italiani cominciano ad arrivare nel 1945, subito dopo la guerra. De Gasperi aveva strappato ai governanti belgi un accordo che oggi fa riflettere: per ogni mille lavoratori “aiutati ad emigrare”, l’Italia avrebbe ricevuto da 2500 a 5000 tonnellate di carbone all’anno. Nel 1956, alla vigilia della tragedia di Marcinelle, i minatori italiani in Belgio sono cinquantamila. Facciamo due conti: è tanto carbone.

 

Poi leggiamo la testimonianza di Vincenzo Catano, ex-minatore oggi ottantaduenne: “ora viene uno che ha bisogno dello psichiatra, come il senatore Bossi, a dire che noi del Sud siamo parassiti: non sanno che noi dopo la guerra abbiamo messo in piedi l’Italia. Roba che ti viene da…”

 

 

Fissiamo alcune date. San Donato Milanese, 19 maggio 1956: il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi presenzia alla posa della prima pietra dell’Autostrada del Sole. Meno di tre mesi dopo, l’8 agosto, un incendio scoppia 975 metri sottoterra al Bois du Cazier, Marcinelle: muoiono 262 minatori, 136 sono immigrati italiani. L’11 agosto si svolgono i primi funerali. Fuori dalla miniera, tenuti alla larga dalle operazioni di soccorso, i familiari continuano per settimane ad attendere.

 

 

Giuseppe Avanzato, il siciliano dai due cuori, uno per piangere il fratello morto in miniera, l’altro in festa per avere ritrovato un mese dopo la sua Giosefina, consegna le parole più amare: “la gioventù nostra è stata venduta dal governo e noi ci facevamo comprare perché avevamo fame... Abbiamo obliato la memoria di quanto siamo stati miserabili nel mondo”.

 

I primi tempi gli italiani vengono alloggiati nei vecchi baraccamenti usati dagli alleati come campi di prigionia durante e dopo la guerra. Silvio Di Luzio, abruzzese ex-partigiano della Brigata Maiella racconta di aver lavorato braccio a braccio con i tedeschi prigionieri, ex soldati del Terzo Reich, contro cui fino a qualche mese prima aveva combattuto da partigiano: “con uno di questi condivideva quotidianamente le sue tartine al burro, anzi alla margarina”.

 

Venivano da quasi tutte le regioni d’Italia e molti si stabilirono in Vallonia per sempre. Fra loro si aiutavano, è bello leggere le loro testimonianze. Vittorio Dal Gal racconta: “da veneto andavo d’accordo con tutti, anche con quei sacramenti di abruzzesi..che sanno cos’è il lavoro e non si tirano mai indietro. Ma gli amici sono stati siciliani sopratutto, il leghismo in Belgio non si conosceva, non c’era Nord e Sud nella mina.” Rocco D’Alfonso, abruzzese: “se c’era qualcuno malato si correva e tutti gli italiani erano là.. Io conoscevo tutti, napoletani siciliani leccesi toscani emiliani abruzzesi veneziani friulani, perchè la sera in mina ci tagliavo i capelli a tutti..”

 

Erano così gli italiani di allora, al di qua e al di là delle Alpi, nelle miniere in Belgio e nei cantieri stradali sull’Appennino. Se metti insieme questi racconti e quei ricordi, c’è mezzo di riuscire a spiegare quel fatto della schiena dritta. E il coraggio. E la perfezione di quei viadotti.

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