1975 e dintorni

13 Febbraio 2016

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1975: Quinta elementare di via della Spiga. I venti del ‘68 raggiungono l’austero edificio nel cuore di Milano, dove gli alunni indossano un grembiule nero o, i più zelanti verso i regolamenti, una giacchetta verde con ricamata una spiga, mentre le alunne un grembiule bianco con o senza fiocco. I genitori, che spesso hanno frequentato lo stesso istituto, si dividono tra chi vuole una scuola più partecipata – sono gli anni dei Decreti delegati – e chi invoca un principio d’ordine in una società dove tutto sembra cambiare. In classe, a un angolo del muro, un altoparlante, eredità del fascismo, gracchia le comunicazioni del mite direttore Ferretti; alle pareti, dietro alla cattedra, divise dal crocefisso, una carta politica e una fisica. Quest’ultima è la meno utilizzata, serve per imparare i nomi delle Alpi: MACONGRANPENALERECAGIU, lo scioglilingua che si tramanda da generazioni per ricordare la partizione dell’arco alpino. Più scarso l’interesse verso la dorsale appenninica: da via della Spiga sembra lontanissima. Impareremo solo più tardi da Manlio Rossi-Doria che esiste un’Italia dell’osso – gli Appennini – e un’Italia della polpa, le rare pianure che le bonifiche postunitarie hanno reso coltivabili. La carta politica è più importante: a quel punto del ciclo di studi dobbiamo aver imparato non solo le regioni, le stesse stabilite dall’Assemblea Costituente, con l'aggiunta del Molise che si è separato dall'Abruzzo nel 1963, ma anche tutti i capoluoghi di provincia. Ci aiutano, più che l’origine dei compagni di classe, che sono tutti milanesi o quasi, i viaggi autostradali compiuti nelle vacanze estive, durante i quali i genitori ci esortano a sciogliere l’enigma di targhe come PR, PU, PT. Nelle gare con i miei fratelli vinco sempre io, non solo perché sono il più grande, ma perché nel mese di maggio seguo religiosamente il Giro d'Italia e, nonostante lo sfocato bianco e nero della nostra TV e delle riprese d’allora, imparo a conoscere i nomi di molte località attraverso la voce senza inflessioni dialettali di Adriano De Zan. Mi appassiono a tal punto che utilizzo i vecchi atlanti stradali del papà per tracciare tappe immaginarie del Giro d’Italia. Molti tratti autostradali sono solo tratteggiati, in attesa di essere completati, il Sud è per me un continente sconosciuto (dove sarà Castrovillari?), il Centro un territorio a maglie strette, mentre, adagiato nella Pianura Padana, faccio scorrere la matita tra le valli alpine, immaginando tapponi durissimi per infrangere il predominio di Merckx e far vincere i giovani Baronchelli e Battaglin (ma il mio cuore batte per quello matto di Bitossi). Quando nei fine settimana usciamo dalla città per andare in campagna, attraversiamo quartieri periferici, che hanno l’aria di esser lì da sempre, per imboccare l’autostrada Milano-Varese. Sfilano ai lati dell’autostrada industrie, capannoni, cartelli pubblicitari che invitano a visitare motel dai nomi dimenticati. Sullo sfondo, nelle giornate terse, l’arco alpino con le cinque punte del Monte Rosa. Dopo Gallarate – siamo oltre il km 30 – finalmente predomina il verde. Molto visibile la scritta, tutta in maiuscolo, EMOSCAMBIO, che non sappiamo cosa voglia dire, ma ci vergogniamo a chiederlo ai genitori. Sembra una brutta parola.

 

 

In campagna gioco alle “macchinine”, le più ricercate sono le inglesi Dinky Toys, sfido i miei fratelli o i miei compagni di classe sulla pista della Polistil, leggo «Autosprint», che esce ogni martedì, e ogni mese «Quattroruote». Tutti gli autunni obbligo il papà a portarmi al Salone dell’automobile di Torino. Dalla folla di bambini, direi che non sono il solo a praticare la religione dell’automobile. Al papà le auto piacciono moderatamente: la sua scelta più eccentrica, una meravigliosa Rover 3000 PI coupé, comprata d’occasione, è resa vana dalla crisi petrolifera del 1973 e dalla conseguente Austerity. In casa comincia poi l’epoca dei pulmini VW. Mi rendo conto ora che la mia generazione aveva l’abitudine di osservare le trasformazioni del nostro paesaggio, che per la maggior parte erano già avvenute, dal finestrino posteriore dell’automobile di famiglia. Esperienza proseguita col cinema.

 

 

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Negli stessi anni uscivano per Einaudi i primi volumi della Storia d'Italia. Per la borghesia illuminata o radical chic, come si diceva con una punta di disprezzo, era quasi obbligatorio acquistare quella “Grande Opera” e sistemarla negli scaffali profondi della libreria di famiglia, là dove c’erano le opere di consultazione, accanto alla Treccani, per chi l’aveva ereditata dai nonni, ai Classici Ricciardi, ai fascicoli dei «Maestri del Colore» o alle coste gialle del «National Geographic», rivista che univa, al di là delle ideologie, tutte le sfumature della nostra borghesia.

 

La Storia d’Italia Einaudi la leggerò, a spizzichi e bocconi, dieci anni più tardi, quando mi iscrivo alla facoltà di Lettere a Pavia per laurearmi poi in Storia. Ho letto solo di recente il saggio di Lucio Gambi, forse il nostro maggior geografo del XX secolo, dal titolo I valori storici dei quadri ambientali (l’espressione risale ad Alexander Von Humboldt). È una straordinaria sintesi in cui si sente la lezione maestra di Carlo Cattaneo (e più indietro, forse, di Cuvier e di Darwin), in cui a volo d’uccello si percorrono 5000 anni di modificazioni della penisola italica, il rapporto tra l’uomo e l’ambiente nella prospettiva della longue durée della scuola delle Annales, allora all’apice del successo. Gambi era troppo colto per non citare Cattaneo che questa prospettiva l’aveva fatta propria più di cent’anni prima, quando parlava della Pianura Padana come «opera delle nostre mani» e quindi di «patria artificiale». Sempre secondo Cattaneo è l’azione della città che modifica i territori circostanti: «È la città che organizza a sé la regione, la crea». Il Regional planning o organisation de l’espace nascono da qui. Gambi, nell’ultima parte del saggio, pur sempre con passo da studioso, diventa più militante: sono gli anni in cui si insediano le Regioni e il decentramento amministrativo previsto dalla Costituzione entra finalmente in atto. Riconosce alle regioni la funzione di riorganizzazione del territorio nel Centro-Nord, ma non nel Sud (si vedano le lotte, anche violente, tra Reggio Calabria e Cosenza, o le polemiche tra L’Aquila e Pescara). Conclude lo studioso romagnolo che prima di organizzare la pianificazione regionale, nel Sud vanno create le regioni. Sulla Milano-Varese, dopo Gallarate, compariranno circa dieci anni più tardi, le prime scritte inneggianti alla Lega Lombarda. Il suo ideologo, Gianfranco Miglio, si rifaceva a Cattaneo.

 

 

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Per quanto ritenuto precoce, non avrei avuto gli strumenti per leggere Gambi prima di una decina d’anni. Mi stavo invece appassionando alla lettura di libri di cucina, passione rimasta sempre molto teorica. Ricordo qualche titolo: Grandi piatti del mondo di Robert Carrier, Come cucinare cinese di Antonella Palazzi e naturalmente i grandi ricettari come il “Carnacina” o Il Cucchiaio d’Argento. In casa, dopo anni di autarchia lombarda con un uso indiscriminato del burro, si stavano sperimentando nuovi piatti. Sconosciuta rimaneva la cucina regionale italiana, con l’eccezione di alcuni classici come il vitèl tonné (che naturalmente credevamo francese) o i saltimbocca alla romana (importati da una cuoca dei nonni, originaria di Soriano nel Cimino). Nei viaggi lungo la penisola giravamo con le “Guide rapide” del Touring, nate nel 1958 e che circa vent’anni dopo avevano raggiunto un’autorevolezza e un principio gerarchico (due stelle, una stella) che non venivano messi in discussione. Diversa era la situazione per i ristoranti. A quell’epoca i bambini non venivano portati al ristorante e i viaggi erano dunque l’unica occasione per sperimentare nuovi sapori. La mamma naturalmente era contraria e a pranzo, diceva, sarebbero andati benissimo i panini, ricavati di solito dalle prime colazioni quando si andava, raramente, in alberghi un po’ belli. «È un peccato lasciare tutto quel ben di Dio» era una frase che la mamma non aveva neanche bisogno di pronunciare e il cui postulato era: «È già tutto pagato». In vista del pasto serale ci compattavamo col papà e, già un po’ più grandicelli, ci veniva assegnato il compito di scegliere un ristorante, naturalmente con forti limitazioni di budget, visto che eravamo allora in 5 (più tardi saremmo diventati 6). Le guide a disposizione erano la Michelin – la prima edizione italiana risale al 1955 – che era però troppo stringata nei commenti e si limitava a segnalare i piatti più noti solo per i ristoranti stellati (un aggettivo allora non in uso), che erano però fuori dalla nostra portata, oppure le pagine finali della guida del Touring.  Nascevano allora anche guide con titoli come «Le trattorie dei camionisti», ma la mamma, per quanto in teoria di larghe vedute, ma fondamentalmente poco interessata all’argomento, non permetteva che venissero acquistate. Così fu una rivoluzione quando, nel 1978, si affacciò tra i nuovi prodotti editoriali la «Guida dei Ristoranti dell’Espresso», sul modello della francese Gault-Millau, con descrizioni particolareggiate di menu, atmosfere e località. Ci affrettammo a metterla in macchina, ma anche questa guida fu raramente utilizzata, privilegiando piuttosto il metodo classico di verificare quanto il ristorante fosse frequentato e quale fosse la sua clientela.

 

 

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Non credo di essere sceso a Sud prima di un memorabile viaggio con i compagni di scuola, nell’anno della maturità. Conoscevo già le capitali europee, le isole greche, avevo maledetto la cucina inglese nelle famigerate vacanze-studio degli anni Settanta. L’Italia, a parte le classiche mete – Roma, Firenze, Venezia – era sconosciuta. Così resta memorabile un viaggio di famiglia nella settimana di Pasqua – sarà stato il ‘77 o il ’78 – nell’Italia centrale tra Umbria e Toscana. Nuovo era cambiare albergo tutti i giorni e provare i sapori decisi della cucina toscana o umbra e nuova era la dolcezza del paesaggio disegnato dalla mano dell’uomo, ma i ricordi più vividi sono legati alla relativa povertà dei piccoli centri, che spesso avevano un’aria semiabbandonata dove un solo negozio fungeva da bar, alimentari, edicola e merceria. Un’avventura fu percorrere le strade bianche che proseguivano per chilometri e chilometri, mentre da noi erano già state tutte completamente asfaltate. Di quelle strade più che il paesaggio rurale intorno mi colpivano le vestigia della modernità: i tralicci dell’alta tensione, le case cantoniere, i robusti trattori che per me avevano il valore simbolico di una coppia di buoi. Il paesaggio delle strade bianche fu poi reso familiare dal Mulino Bianco, un brand creato nel 1975 da Barilla (allora di proprietà americana), che è stato il primo segno di un’inversione di rotta, dopo tre decenni di progresso e sviluppo, di un’invenzione della nostalgia, con cui si idealizzava un passato rurale appena lasciato alle spalle. Prima ancora che in TV, incontrammo le pubblicità del Mulino Bianco sulle pagine di «Topolino», che era allora ricchissimo di inserzionisti, anche se quasi tutti i miei coetanei (maschi) ricordano soprattutto i prodotti della ditta SAME di via Algarotti a Milano, in particolare i formidabili occhiali a raggi X che permettevano di guardare attraverso i vestiti delle donne. «Tutte le fanciulle vi scanseranno», aggiungeva SAME con ipocrisia, ma la strada verso un mondo di cittadini-consumatori era ormai cominciata.

 

 

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Oggi, quando si vuole evocare qualcosa di demodé ma che ancora ci appartiene almeno emotivamente, si utilizza l’espressione «anni Settanta», a segnare la fase aurorale dell’epoca in cui viviamo, per molti l’inizio dei nostri ricordi, per chi è più anziano l’epoca in cui nascevano i figli e si formavano (o si disfacevano) le famiglie.

 

Ritrovo il sentimento di quei viaggi nelle foto di Luigi Ghirri, specie in quelle degli anni Settanta, dove l’Italia è colta a metà tra ieri e oggi, tra modernizzazione e civiltà contadina, dove quasi tutti girano su utilitarie e la FIAT 128 è già un’auto rispettabile, dove ai bordi delle strade ci sono ancora vuoti da riempire, terrains vagues che accendono la fantasia. Scriveva D’Annunzio in morte di Giuseppe Verdi: «Pianse e amò per tutti». È come se Ghirri avesse fotografato per tutti. Ritrovo in quelle foto soprattutto il senso di incertezza e di avventura che, prima dell’arrivo di Ton ton, Tripadvisor, AIRBNB, gli italiani provavano quando si incontravano per la prima volta con persone molto diverse da loro, ma che parlavano la stessa lingua.

 

Versione ampliata di un saggio scritto per il catalogo della mostra Comunità Italia, Architettura, città e paesaggio dal dopoguerra al 2000, a cura di Marco Biraghi e Alberto Ferlenga, Triennale di Milano, fino al 6 marzo.

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