Speciale

Questo non è un racconto / Al cinema con Sciascia

1 Marzo 2021

La particolarità degli scrittori siciliani interessati al cinema, rispetto ad autori continentali come Pasolini o Soldati, è di aver aspirato a un ruolo di soggettisti o sceneggiatori e non già di registi o attori (tolto il caso isolato e occasionale di Vittorini interprete), così da rimanere dentro la sfera letteraria e conservare la propria natura. Anche Sciascia, come Brancati, Patti e già Pirandello e Verga, ha esplorato  questo mondo, prima come appassionato di film soprattutto degli anni Trenta, in questo esattamente come Bufalino, e poi come autore di testi, invero piuttosto ordinari, nella specie di soggetti cinematografici: una vena in forma di infatuazione, parallela a quella giovanile e altrettanto transitoria per la poesia, che probabilmente sarebbe rimasta allo stato carsico, superficialmente osservata, se Paolo Squillacioti – impegnato da anni in un profondo e impagabile scavo di testi sciasciani dimenticati e sepolti che Adelphi sta pubblicando via via in volumi tematici – non l’avesse in Questo non è un racconto (pp. 176, euro 13) restituita al canone integrando e completando l’analogo lavoro di ricerca compiuto nello stesso filone da Emiliano Morreale, Matteo Di Gesù, Maria Rizzarelli e Angelica Bianca Saponari.

 

Aggiungendo al patrimonio di reperti già acquisiti (costituito dalla vasta interventistica in tema di cinema svolta nei modi di recensioni di film e note critiche) tre testi inediti che testimoniano una passione e una rottura: la passione che lo porta a immaginare trame di film così come vorrebbe vederli e la rottura dello stile che gli è più proprio e qui del tutto piano e ipotattico a sconfessione di quello singolarissimo, fatto di rovesciamenti di proposizioni principali e secondarie, costrutti latini con il verbo finale, nuove concordanze, esatta proprietà di linguaggio e ridondanze lessicali. 

Si tratta di tre testi che rimangono sulla carta perché mai trasposti in sceneggiature - ma il terzo è più esattamente un cartone preparatorio di un soggetto che un soggetto vero e proprio come gli altri: che sono precedenti all’anno di svolta, il 1969 nel quale l’interesse di Sciascia verso il cinema scema e va ad esaurirsi entro un atteggiamento di delusione e distacco per il quale egli vedrà il contributo che ogni scrittore possa offrire al cinema limitato ai soli “compitini pulitini” utili ai dialoghi perché non siano sgrammaticati quali in effetti gli appaiono. 

 

E tuttavia nei testi ritrovati da Squillacioti grazie all’opera di recupero compiuta dal nipote di Sciascia, Vito Catalano, si scorge un approccio alla ripresa cinematografica che è tipica degli anni Sessanta, mutuando egli da Elio Petri e Damiano Damiani (i registi che nel ’67 e nel ’68 hanno girato A ciascuno il suo e Il giorno della civetta, senz’altro da Sciascia visti, nonostante la sua negazione) il ritmo concitato, scorciato e alternato delle scene, lo svolgimento analogico e lo sviluppo puntualmente diacronico.

 

 

Ma non si pensi a un amore sviscerato, peraltro chissà quanto alimentato dalla possibilità di guadagni economici di diversa fonte, se già prima della trasposizione cinematografica di sue opere Sciascia è stato chiaro nello stabilire che “non c’è film, per quanto buono, che valga un libro anche mediocre”, lucidissimo nel ritenere che un regista non possa mai misurarsi con opere letterarie che siano letterariamente complete ed autonome: una teoria che, facendogli preferire senza esitazioni la letteratura, lo porterà due anni prima della morte a dire che il cinema ormai lo annoia e che “per saturazione” non va più a vedere un film, lasciando la domanda se saturato debba intendersi lui o il cinema: che ormai considera una parodia e col quale confessa di avere avuto solo “rari e fuggevoli contatti”. Contatti che sono stati anche equivoci e controversi. Vediamo.

 

Nel 1964 valuta Sedotta e abbandonata di Pietro Germi in termini di critica del modello invalente delle mogli fedifraghe e dei mariti traditi in carcere già visto tre anni prima in Divorzio all’italiana, entrambi film di ambientazione siciliana che, offrendo “un ragguaglio piuttosto arretrato”, prospettano una Sicilia “votata al delitto d’onore, ossessionata dal mito della verginità”. Senonché tra l’una e l’altra commedia Sciascia ha dato nel 1962 il suo contributo alla sceneggiatura di La smania addosso di Marcello Andrei, film anch’esso siciliano ispirato al tema del matrimonio riparatore e da Squillacioti del tutto ignorato nella sua Nota «per problemi di spazio». Il film rinverdisce per giunta altri stereotipi quali la violenza carnale e l’intervento della mafia perché il responsabile prenda in moglie la donna oggetto del suo desiderio e dimostra come nemmeno Sciascia sia sfuggito agli irretimenti della più vieta tradizione quando si è trattato di metterci le mani, epperò non ha mancato di prenderne le distanze in veste di teorico di una nuova cultura liberata da ogni “ragguaglio piuttosto arretrato” e tuttavia impastoiata nella corrività e come sospesa: talché la donna è sì la moglie del Giorno della civetta che fa il nome dell’assassino al capitano rompendo il tabù dell’omertà ma è anche Luisa Rosella, la femme sans merci di A ciascuno il suo colpevole di uxoricidio come pure la Assunta di L’onorevole che in sé recupera il rigore morale perduto dal marito.

 

Un modello di molteplice fattura che ritroviamo anche in due dei tre testi cinematografici inediti procurati da Squillacioti, portatori di due tipi di donne à rebours, determinate ad affermare un’idea di giustizia che in una è intrisa di vendetta e nell’altra si fa scrupolo di coscienza, tutt’e due schierate contro la mafia e nello stesso tempo contro anche lo spirito di connivenza mafiosa che vedono tralignare in ambito familiare. Siamo nella piena convenzione, come si vede. 

Il migliore Sciascia in rapporto al cinema non è dunque il soggettista, incapace di andare oltre la cascaggine dei luoghi comuni di cui lui stesso professa il superamento, ma l’osservatore esterno cui spetta di intuire che l’erotismo così frequente nel cinema del suo tempo “vive tanto più intensamente quanto più rigorosa è la censura” e che un regista non va messo sotto accusa né se interpreta né se immagina dei fatti: “La responsabilità dell’artista non va nemmeno posta” scrive nel 1978, quando ha già fatto la sua scelta a favore della letteratura, si è stancato del cinema e nondimeno cede a un’attestazione di merito verso una musa che ormai gli dice ben poco.

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