Una mostra al MAXXI / Aldo Rossi, il più classico dei moderni

7 Agosto 2021

Capita, a volte, che qui da noi si generino antinomie tra due contendenti, reali o presunti tali, e che si creino di conseguenza schieramenti contrapposti (o supposti) di sostenitori dell'uno o dell'altro. E questo accade ab antiquo. Senza retrocedere eccessivamente, si constata un simile costume già dai tempi dei (consapevoli) Guelfi e Ghibellini e dei letterari Montecchi e Capuleti. Poi, con qualche salto temporale, ecco la volta dei verdiani e dei wagneriani (all'insaputa tanto di Verdi, quanto di Wagner). Segue quindi il caso delle guareschiane figure di Don Camillo e Peppone (così prossime alla quotidianità della provincia italiana post bellica e oltre). E come tralasciare, tra i reali competitor sportivi, le tifoserie di Coppi e di Bartali o dei meneghini Inter e Milan e di tutti i 'derbysti' dell'italico suolo?

Quando frequentavo la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, negli anni settanta, anche noi studenti abbiamo vissuto (o subito) schieramenti duali tra allievi di Composizione architettonica, divisi come eravamo tra le fazioni antagoniste dei rossiani da un lato e dei canelliani dall'altro, in un presunto contraltare di sequele dei due grandi maestri dell’architettura italiana del novecento, entrambi formatisi al 'nostro' Politecnico e che erano pure amici: Aldo Rossi (1931-1997), più classico e Guido Canella (1931-2009), più espressionista. Scegliendo di frequentare i gruppi di lavoro progettuale dell’uno o dell’altro, scattava automatica l’adesione alla relativa partigianeria, ciascuna collocata su un fronte contrapposto di quelle barricate immateriali. Anche se fuori di scuola si bazzicava tutti nel medesimo mitico ‘bar del Poli’, stando, ovviamente, a debita distanza gli uni dagli altri, dentro le aule si tenevano 'puntigliosamente' le posizioni, il mento all’in su.

 

Da canelliana militante, io non ho avuto il privilegio di conoscere di persona Aldo Rossi, e me ne dolgo.

In realtà, dopo l'ignominiosa, arbitraria e iniqua espulsione dalla didattica da lui subita, che investì anche lo stesso Guido Canella, insieme a Franco Albini, Ludovico Barbiano di Belgiojoso, Piero Bottoni, Carlo De Carli, Vittoriano Viganò e l’allora preside Paolo Portoghesi, con la capziosa motivazione: “perché irrispettosi delle normative vigenti in materia di insegnamento e valutazione degli studenti”, Aldo Rossi non ha quasi mai più messo piede in facoltà. Nonostante nel 1974 fosse stato reintegrato, insieme a tutti gli altri, dal ministro Franco Maria Malfatti, egli preferì affidare lo svolgimento dell'attività di insegnamento ai suoi assistenti. Mi è capitato di incontrarlo una sola volta al Poli, mentre saliva le scale per raggiungere la sede della presidenza. Per avere a che fare con lui, bisognava recarsi nel suo studio, ma ciò era consentito soltanto a chi faceva parte del suo gruppo di lavoro.

 

Quella dell’espulsione dall’insegnamento del Gotha dell’architettura italiana è stata una pagina ignobile della nostra cultura, scritta il 23 novembre 1971 dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione Riccardo Misasi, connotata da un rigurgito di fascismo in piena democrazia. Tra quei docenti, come ha scritto Portoghesi in un articolo recentemente apparso su Alias (04.07.2021, si legga qui) “vi erano alcuni dei maggiori esponenti della cultura architettonica, furono allontanati dalla scuola, trattati come banditi”. Molti di loro non hanno più voluto riprendere l'attività didattica, tra questi, insieme ad Aldo Rossi, c'è stato anche Franco Albini. E neppure Paolo Portoghesi è ritornato a dirigere la scuola di Architettura di Milano. Che dire, poi, dell’immenso Piero Bottoni, maestro dei maestri, morto nel 1973, un anno prima che gli fosse tolta di dosso quell'incolpevole ignominia e che in facoltà ci è 'rientrato' soltanto in occasione dei propri funerali?

Come scrive Portoghesi: “Il lettore mi scuserà per la rievocazione di un avvenimento così lontano e ormai dimenticato persino da chi allora lo condannò severamente. Ma il bisogno di raccontarlo nasce dal fatto che mantiene una imprevedibile attualità sia per quanto riguarda l’insegnamento dell’architettura, tornato, nonostante la creazione dei dipartimenti, all’isolamento dei corsi e agli esami nozionistici, sia per il significato di una esperienza – troncata allo stato nascente – che si poneva il problema di adeguare la disciplina alle esigenze della società e dell’ambiente, perché l’architettura tornasse ad essere strumento valido per migliorare la vita degli uomini.”

 

Milano, giugno 1971, un’istantanea del rapporto frontale tra i docenti della Facoltà di Architettura del Politecnico e le forze dell’ordine (tratta da Alias, 04.07.2021). Il 6 Giugno del 1971 4000 agenti armati avevano sgomberato con la violenza le case IACP occupate dagli immigrati italiani in via Tibaldi, causando la morte di un bimbo di pochi mesi. Le famiglie prive di ogni riparo furono accolte alla facoltà di Architettura occupata dagli studenti, con l’appoggio dei docenti. Alla tragedia degli sfratti e della morte di un innocente è dedicata la Ballata di via Tibaldi cantata da Virginio Savona.


La pagina milanese di Il Corriere della sera del 24 novembre 1971 in cui si dà notizia della iniqua sospensione dei docenti di Architettura, tra cui Aldo Rossi, e dell’allora preside Paolo Portoghesit. Lettera del ministero che comunica ad Aldo Rossi la sua avvenuta sospensione dall’attività di insegnamento al Politecnico di Milano, datata 23 giugno 1971. Entrambi i documenti sono esposti nella mostra romana.


A proposito di questa infame 'cacciata', Aldo Rossi ha così laconicamente annotato nei suoi Quaderni Azzurri (il cui titolo è forse un omaggio alle Note Azzurre di Carlo Pisani Dossi, zibaldone di osservazioni e commenti di varia natura, come queste sue note raccolgono invece pensieri che ruotano soprattutto attorno all'architettura e alla città? È bello pensarlo.): 

“Il tuo rapporto con la scuola si è concluso ecc. in qualche modo. Si è concluso in questo modo.”

In realtà, la sua esperienza didattica continuerà, invece, e precisamente, dal 1972 al 1976, egli insegnerà alla scuola federale politecnica di Zurigo l'ETH, dove scolpirà le menti degli alunni di quella stagione, divenuti poi "eminenze riconosciute del grande circo globale"(Nicola Braghieri, Casabella, nr. 916, 12-2020), ma anche all’istituto MIT di Cambridge, alla Yale, ad Harvard, all’Istitute for Architecture and Urban Studies di New York, alla Cooper Union, alla Cornell University, sempre a NY e infine, di nuovo in Italia, allo IUAV. Tra i suoi allievi svizzeri, divenuti archistar, primeggiano Herzog & de Meuron, che proprio a Milano hanno tributato un omaggio al loro maestro con il progetto della Fondazione Feltrinelli (2013 - 2016), nella cui sezione, così audacemente cuspidata, si riconosce la 'tipica' casetta rossinana (quella il cui modello il maestro aveva importato dalla sterminata provincia americana e che compare in molti suoi progetti), nella cui planimetria è citato l'intervento del Gallaratese ("I nuovi edifici sono anche ispirati dal tratto lungo e lineare delle tipiche cascine della campagna lombarda, che già rappresentarono un importante punto di riferimento per Aldo Rossi e per il suo progetto al Gallaratese", si legge nella relazione di quel progetto).

 

Ed è proprio con il Gallaratese che è avvenuto il mio primo incontro vis à vis con l'opera di Rossi. Ne ricordo ancora il momento. Era una mattina di primavera del 1975, quando, con un gruppo di compagni di corso, abbiamo fatto un tour ciclistico in ricognizione delle nuove architetture di Milano, con tappa fondamentale, ça va sans dire, proprio a quel quartiere, dove, insieme all'intervento di Carlo Aymonino, era da poco stata completata l'Unità Residenziale rossiana.

L’edificio di Aldo Rossi è costituito da un fronte continuo, lungo centottantadue metri e profondo dodici, sulle cui aperture, finestre e portici, giocano luci e ombre. Ha un’altezza complessiva di 12 metri, con tre piani fuori terra, e appare completamente avulso dal contesto periferico in cui sorge: il maestro, infatti, ha preferito connetterlo alla tradizione delle residenze popolari milanesi e delle cascine lombarde, con tanto di ballatoi e di portici, riservando solamente agli interni degli alloggi una distribuzione spaziale di impronta razionalista. “Il ballatoio" scrive "significa un modo di vita bagnato negli avvenimenti di ogni giorno, intimità domestica e svariate relazioni personali”. [Aldo Rossi, Autobiografia scientifica, Il Saggiatore, Milano, 2009]

 

In questo intervento progettuale, che costituisce uno dei capolavori più alti della sua produzione architettonica, si attua appieno quel dialogo, da lui sempre ricercato, tra il contemporaneo e l’antico.

Questo corpo di fabbrica, così lungo e così bianco, è stato definito dal suo autore una lama che entra dentro il groviglio dell’impianto di Aymonino […] dinosauro rosso, con una rigida e lunga coda bianca”. [Aldo Rossi, Quaderno Azzurro 23, 30 luglio 1978-1 gennaio 1979, in: Aldo Rossi, I Quaderni Azzurri 1968-1992 (a cura di Francesco Dal Co), Electa/The Getty Research Istitute, Milano 1999]. 

 

Milano, il complesso abitativo del Monte Amiata, più noto come Quartiere Gallaratese (1967 - 1974). In alto: planimetria dei due interventi di Aldo Rossi e Carlo Aymonino. Aldo Rossi, disegni di progetto del suo intervento residenziale. In basso: il fronte dell’architettura di Aldo Rossi.


Aldo Rossi è stato uno dei maestri più poliedrici dell'architettura del nostro paese, il primo italiano, tra l'altro, a vincere, nel 1990, il prestigioso Pritzker Architecture Prize, che corrisponde al Nobel per l’architettura. In quell'occasione, Ada Louse Huxtable, membro della giuria, lo ha definito: "un poeta prestato all'architettura". Altrove, Vincent Scully, appassionato studioso dell’architettura rossiana, ci ricorda “di quanto l’architettura di Rossi, come anche la sua scrittura, fosse luminosa, perfino erudita, quasi alessandrina.” E quelli alessandrini, sono versi che appartengono alla poesia alta.

"L'immaginazione e la fantasia non possono nascere che dalla conoscenza del reale", era solito ribadire questo architetto geniale e visionario creatore di linguaggi, da convinto assertore qual era della responsabilità etica e culturale che l'architettura ha, da sempre, nei confronti della realtà in cui si colloca. Egli, infatti, intende l'architettura "come creazione inscindibile dalla vita civile e dalla società in cui si manifesta; essa è per sua natura collettiva. [... ] L'architettura é così connaturata al formarsi della civiltà ed è un fatto permanente universale e necessario."

 

Così, a proposito della poetica dell'architetto milanese, scrive Francesco Dal Co: "La nostalgia per il significato compositivo del progetto ha, nell'opera di Rossi, radici profonde. Lungi dall'attribuire all'architettura aspirazioni riconducibili al significato 'volgare' del termine organico, Rossi pretende da essa una pratica volta a stabilire ordini minimi ma essenziali tra parti diverse, tra immagini storicamente formate oppure autonomamente consistenti. Come giustamente ho notato Vittorio Savi, i suoi disegni sono ostinati ritorni, indagini condotte con mezzi compositi sul segreto che si cela nel riproporsi delle forme, le quali riaffiorano, senza un ordine prestabilito e improvvisamente, dalle teche dei ricordi. [...] L'architettura di Rossi è quindi analoga al rapporto del suo autore con la città e gli ambienti costruiti. Poiché tale rapporto è dominato dalle funzioni del ricordo, il luogo ove la memoria si manifesta come segno tangibile è l'analogo della città stessa, la metafora di un palcoscenico umanistico, un teatro che dialoga col mondo predisponendo la scena per la danza dell'immaginario." (in Manlio Brusatin, Alberto Prandi, Aldo Rossi. Teatro del mondo, Cluva, 1982).

 

Alcune vedute della mostra in corso al MAXXI Aldo Rossi. L'architetto e le città.


Aldo Rossi. L'architetto e le città è il titolo della mostra, curata da Alberto Ferlenga con il coordinamento di Carla Zhara Buda e realizzata in collaborazione con la Fondazione Aldo Rossi e con l’apporto di Fausto e Vera Rossi e di Chiara Spangaro, visitabile fino al 17 ottobre 2021 al Museo MAXXI di Roma. Tra documenti, carteggi, modelli, schizzi, disegni e fotografie, i pezzi esposti sono più di 800, prevalentemente provenienti dalla Fondazione Aldo Rossi conservata presso il MAXXI stesso.

Anche la rassegna romana si articola ‘rossianamente’ su una lunga direttrice centrale, un’enfilade da stoà classica che sarebbe piaciuta al maestro, composta da quaranta tavoli, su cui si susseguono, modelli, disegni, fotografie, relazioni di progetto secondo un andamento tanto cronologico, quanto geografico sui 94 siti in cui Rossi ha operato, in Italia e nel mondo.

Una parte dell’esposizione è dedicata alle fotografie scattate alle sue opere da illustri fotografi, quali Luigi Ghirri – con cui Rossi ha stretto un consolidato legame di amicizia – Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramonte, Ugo Mulas, Mario Carrieri, Stefano Topuntoli, Antonio Martinelli e Marco Introini, “autori che hanno indagato i rapporti che legano le forme ricorrenti del lessico rossiano alle città e ai paesaggi cui appartengono”.

 

“Rossi non è stato solo un architetto”, ricorda Ferlenga “ma anche un teorico dell'architettura, uno scrittore, un designer, un artista nei suoi raffinati disegni coloratissimi e perfino un film maker. Un intellettuale totale che può avvicinarsi alla figura di Le Corbusier. È vero che non ha lasciato eredi, e forse era impossibile per l'unicità della sua architettura.”

Electa, per accompagnare la rassegna, propone il volume Aldo Rossi. I miei progetti raccontati (pp. 44, € 25.00), curato da Farlenga, che raccoglie le sue relazioni di progetto, molte conservate nell'archivio a lui intestato presso il MAXXI Architettura (nel 2001 i suoi Eredi hanno infatti donato il corpus delle sue opere al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, confluito poi negli archivi di questo museo).

Non esiste nella Storia dell'Architettura moderna un altro architetto che abbia scritto tanto quanto Aldo Rossi, per trovarne uno bisogna retrocedere fino allo Scamozzi, al Palladio, o, addirittura all'Alberti, che egli, peraltro, amava moltissimo, persino attraverso le mediazioni dei neoclassici, Boullée e Durand, con la differenza che, in Rossi, per effetto del tempo in cui opera, cambia la tipologia dei testi: i maestri antichi, infatti, redigevano manuali (così come prescriveva la cultura di allora), mentre il nostro ha scritto sempre saggi, anche quando ha messo mano a memorie private, a lezioni oppure a riflessioni su temi specifici, come il suo prediletto, quello della città, appunto, e tutti, immancabilmente, prossimi alla poesia.

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