Àlex Rigola. Un campus d'agosto

8 Agosto 2012

Àlex Rigola, fra i rappresentanti di quella nuova possente generazione della regia europea che – ne abbiamo visto qualche esito proprio nelle ultime sue Biennali – continua a scuotere i palcoscenici e a reinventare il linguaggio teatrale, è al secondo mandato come direttore del festival lagunare. Qui, con l’intenzione di fare di Venezia un campus internazionale delle arti sceniche, sta sperimentando una curiosa formula di direzione, capace di intrecciare la logica laboratoriale con il momento della messinscena. Tale orientamento sembra coinvolgere tutti i livelli della creazione teatrale: prima di tutto quello della regia e dell’attore, ma anche – testimone è il festival 2011 – quello della scenografia, del light design e addirittura della critica teatrale.

Il primo giorno del nuovo Laboratorio Internazionale delle Arti sceniche, Rigola ha incontrato la redazione che seguirà e racconterà i lavori: ecco quanto è emerso.

 

Una Biennale all’insegna del laboratorio: il progetto, avviato nel 2010, che quest’anno si condensa in un’unica settimana e richiama a Venezia più di centocinquanta fra maestri e allievi…

 

Ne abbiamo già parlato diverse volte: per me il laboratorio non è un luogo di lezione, unidirezionale, ma è necessaria una qualche forma di “simmetria”. Deve essere un posto in cui il maestro sperimenta qualcosa e gli allievi lo seguono, possono vedere come lavora: ma deve essere innanzitutto anche un’occasione per il maestro stesso, un momento che serva profondamente anche a lui, ossia uno spazio per mettersi alla prova. Il laboratorio, dunque, non può seguire una direzione univoca – una comunicazione dal maestro agli allievi – ma diventare una occasione di condivisione di esperienze.

L’elemento di differenza più forte, che è segno di come si sia trasformato il progetto in questi tre anni, si ritrova nell’organizzazione contemporanea dei laboratori: tutti insieme, in questo inizio agosto. Nel 2010, quando abbiamo cominciato a lavorare, i workshop si dipanavano per una settimana al mese, da ottobre a marzo. Poi ci siamo interrogati sul senso di questa esperienza e abbiamo pensato che, forse, sarebbe stato interessante poterli organizzare tutti insieme, in contemporanea, coerentemente rispetto a quell’idea di “condivisione” che anima il progetto della Biennale Teatro.

 

Fotografia di Maider Mendaza

 

Veniamo alla presenza dei maestri: nelle passate stagioni si poteva individuare un legame empatico, quasi generazionale, fra gli artisti invitati in Biennale. Quest’anno la proposta è “esplosa”: c’è un grande maestro come Ronconi e un regista come Donnellan; si trovano la drammaturgia, il teatro-danza e l’esperienza di un autore-regista come Claudio Tolcachir… Qual è il criterio, l’interesse, che ti ha mosso verso queste persone?

 

Il percorso di selezione – quest’anno, ma anche nelle edizioni precedenti e future – è un processo complesso. Ma non esiste una teoria: a esempio lavorare con artisti che appartengono a una stessa generazione. Quella del 2011 si può dire sia stata una pura casualità: anche se è vero che le coincidenze non esistono e si potrebbe pensare che, trattandosi di artisti tutti miei coetanei, sono persone il cui lavoro mi piace molto e da cui ho imparato tantissimo, innanzitutto come spettatore.

 

Che relazione lega gli artisti coinvolti nel 2012?

 

Luca Ronconi è un maestro, ma è qui – come non era mai successo prima – per un workshop dedicato soprattutto a giovani registi mettendo in gioco, oltre alla condivisione, anche quella che definirei la “trasmissione di un’eredità”, ossia il lavoro di una vita. Declan Donnellan è un grande regista che sviluppa un lavoro profondo sul testo, ma è anche uno dei maggiori esperti mondiali di Shakespeare. Con Neil LaBute si avvia, finalmente, un laboratorio sulla scrittura: esperienza che non avevamo ancora coinvolto in questo nostro progetto e che, assicuro, non si concluderà quest’anno. Peeping Tom fanno un teatro che mi piace moltissimo; e Claudio Tolcachir, infine, appartiene a una generazione tutta nuova di artisti che sta sperimentando un modo di fare spettacoli molto legato ai giovani.

Ognuno è qui con il proprio percorso, con il proprio lavoro e un’estetica specifica. Il punto, piuttosto, è un altro: un progetto laboratoriale è profondamente diverso da un festival – e noi, in questi 3 anni, ci stiamo muovendo fra entrambe queste polarità. Workshop e spettacolo sono elementi strettamente legati: per me è un punto molto importante. Non si viene a Venezia soltanto a seguire delle lezioni o a vedere delle messinscene; si viene alla Biennale piuttosto per un campus estivo dove il tratto determinante è la condivisione di esperienza a tutti i livelli. Qui si può incontrare il lavoro di un maestro e gli allievi possono seguirne i processi di sperimentazione. Ma la trasmissione di sapere funziona anche fra i singoli partecipanti dei laboratori, fra allievi attori e registi... Siamo tutte persone a cui piace il teatro e che vogliono imparare qualcosa in più: è per questo che ci ritroviamo tutti insieme per una settimana.

 

Come si rapporta questo progetto legato alla dimensione laboratoriale e della ricerca con uno spazio istituzionale come quello della Biennale di Venezia?

 

Devo dire che qui c’è una grande libertà artistica. La Biennale è un luogo in cui si può provare a realizzare quello che si desidera artisticamente. Ogni volta che ho raccontato le mie idee e i miei progetti sono sempre stati accolti con interesse e curiosità: non dappertutto esiste tale disponibilità nei confronti della direzione che un artista intende proporre. Mentre qui, semmai, la libertà finisce esclusivamente con il finire del budget, con il limite dei soldi.

In particolare, per quanto riguarda i percorsi laboratoriali, è stata proprio la Biennale a stimolare un approccio del genere: l’idea non è soltanto mia. A esempio Ismael Ivo, direttore del Settore Danza, ha attivato un percorso formativo lungo cinque mesi. Ora c’è il nostro, con il teatro; e a fine ottobre ci sarà Musica. Sono progetti formativi che si dipanano quasi per tutto l’anno.

E quest’idea fortemente sostenuta dal Presidente Baratta: il termine “Biennale College” è suo. Ciò significa che ci siamo incontrati su di uno stesso cammino: le nostre ricerche si uniscono nella volontà di abitare questa “città della conoscenza”, dove abbiamo la fortuna di trovarci. Proseguendo su questa linea, la Biennale Teatro potrà diventare la “Cambridge dell’arte scenica”. Potrà sembrarvi una definizione eccessiva ma, guardandosi un po’ intorno, ci si rende conto che al giorno d’oggi, in teatro, non c’è nessuno che stia lavorando a qualcosa di simile.

 

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