Dentro di noi o nello spazio lassù? / Alieni

3 Giugno 2017

La sera del 19 settembre 1961 Betty e Barney Hill stanno procedendo sulla loro automobile in una strada del New Hampshire di ritorno dal Canada, quando sono intercettati da un oggetto volante. Barney scende dall’auto e con un binocolo vede un gruppo di piccoli umanoidi in uniforme nera che li guardano dai finestrini dell’astronave. Risale in auto, ma ben presto cade addormentato insieme alla moglie. Rientrano entrambi a casa verso le 5 e mezza del mattino. Nei giorni successivi ricostruiscono di essere stati prelevati da un’astronave e sottoposti a esami medici dagli alieni. Grazie a un trattamento ipnotico rivelano allo psichiatra che li cura di essere in contatto telepatico coi rapitori; ne tracciano anche la mappa stellare: il sistema binario di Zeta Reticuli. Da questa vicenda John G. Fuller ha tratto un libro, Prigionieri di un UFO, uno dei primi libri che ha portato all’attenzione del mondo il fenomeno dei rapimenti alieni.

 

 

 

Negli anni tra il 1950 e il 1960, come notò Giorgio Manganelli ci fu l’attesa dello sbarco dei marziani sul Pianeta Terra. Correvano notizie di astronavi precipitate in Messico, ma vi furono avvistamenti di oggetti luminosi anche in Val di Susa e dalle parti di La Spezia. Lo scrittore italiano tra il 1973 e il 1983 scrisse una serie di articoli sulle principali testate giornalistiche notando come l’odio per il Pianeta alimentasse attese e speranze apocalittiche: “speravamo in una fine del mondo che ci avrebbe consentito di sopravvivere”. I marziani non arrivarono, al che Manganelli concluse: “Dobbiamo distruggerci da soli?”. Il tema degli alieni è tornato di attualità da quando gli astronomi ci hanno segnalato che esistono nello spazio pianeti simili al nostro, e che dunque non siamo più soli. 

 

Nell’agosto dello scorso anno l’Osservatorio Europeo Australe ha annunciato la scoperta di un pianeta delle dimensioni uguali alla Terra, Proxima B, che orbita intorno a Proxima Centauri, alla distanza di solo 4,25 anni luce dal nostro Sistema solare, per cui una flotta di microastronavi sospinte da raggi laser, viaggiando al 20 per cento della velocità della luce, potrebbero raggiungere la nostra gemella in vent’anni. Da allora non trascorre mese che non si scoprano altri pianeti potenzialmente abitabili. Aumenta l’attesa non più di alieni che ci invadano, come accadeva nei decenni raccontati da Manganelli, ma della possibilità di trasferirci noi su altri corpi celesti, dato che il Pianeta Azzurro sembra in crisi, tra inquinamento, cambiamenti climatici e possibili conflitti finali. Tutto si è rovesciato nell’arco di qualche decennio e alla fine risulta plausibile quello che Jung aveva scritto nel 1958 in Un mito moderno: i dischi volanti sono i nostri sogni “veri” proiettati nel cielo sopra di noi, la ricerca di senso in un mondo che all’epoca appariva totalmente dominato dal progresso scientifico. Il represso appariva di colpo nella notte quale misterioso segno attraverso l’immagine dei dischi volanti, chiosava Manganelli lettore di Jung. Le recenti scoperte incentivate dalla messa in orbita del telescopio Keplero hanno spinto all’ossessiva ricerca della Terra gemella. Perché?

 

A questa domanda cerca di rispondere Jim Al-Khalili, irakeno di nascita, docente di Fisica teorica alla University of Surrey, autore di innumerevoli libri, in un volume che ha allestito con l’aiuto di diciannove ricercatori, scienziati e divulgatori scientifici: Alieni. C’è qualcuno là fuori? (Bollati Boringhieri, pp. 241, € 22). Tutto comincerebbe con una conversazione a tavola nel 1950 di Enrico Fermi con i colleghi del Los Alamos National Laboratory in New Mexico. Si discuteva sulla possibilità che la Terra fosse visitata da alieni a bordo di dischi volanti. Fermi fece una domanda semplice: “Dove sono?”. Presupponeva che data l’età e le dimensioni vastissime dell’universo, comprendente quasi cinquecento miliardi di stelle nella sola Via Lattea, molte delle quali dotate di sistemi planetari, l’universo dovrebbe traboccare di vita e di forme d’intelligenza capaci di produrre tecnologie per viaggiare nello spazio. E allora dove sono? La domanda resta ancora inevasa.

 

 

 

Per quanto solo il 36% degli americani creda agli UFO, mentre il 17% non ci crede, e il restante 47% è invece indeciso (ricerca del 2012 di National Geographic Society), l’attesa degli alieni è ancora molto forte, tanto che esiste la SETI (Search for Extraterrestrial Intelligenze) iniziata dai pioneristici approcci di Frank Drake, autore dell’equazione omonima. Nel 2015 è stato annunciato uno stanziamento di cento milioni di dollari della SETI e Stephen Hawking ha dato voce a un desiderio collettivo: “È tempo di impegnarsi a trovare una risposta, a cercare la vita al di là della Terra. È importante per noi sapere se siamo soli nell’oscurità”. Non sono più gli alieni a venire da noi, come accadeva cinquanta anni fa, ma noi ad andare da loro. Perché arrivavano invece i dischi volanti negli anni Cinquanta e Sessanta? Per ridurre in schiavitù l’umanità; per usarci come cibo; per prosciugare i nostri oceani; per procurarsi materie prime; per cercare una nuova casa; perché incuriositi dai terrestri. Lewis Dartnell, che in Alieni passa in rassegna tutte queste ipotesi, finisce per confutarle. Paul C. W. Davies, cosmologo e autore di libri di grande successo, avanza perciò l’ipotesi che siano state le scoperte di pianeti extrasolari, che vi siano circa un miliardo di pianeti simili alla Terra, a incentivare l’ipotesi di forme di vita nel cosmo.

 

Nel 1972, anno della pubblicazione di Il caso e la necessità di Jacques Monod, biologo premio Nobel, dominava l’idea che l’universo non era sul punto di “partorire la vita” e che dunque l’uomo fosse “solo nell’immensità indifferente dell’universo”; ancora nel 1981, Francis Crick, co-scopritore della doppia elica del DNA sottolineava come l’origine della vita sulla Terra fosse uno straordinario miracolo. Poi intorno agli anni Novanta, un altro premio Nobel, Christian de Duve, biochimico belga, ha ribaltato la situazione: la vita è un imperativo cosmico e l’universo ne abbonda. Davies pone la questione fondamentale: “il fatto che un pianeta sia abitabile non significa che sia abitato: lo può diventare soltanto se genera la vita”. E la vita è legata all’acqua liquida. Gran parte degli interventi più interessanti di Alieni s’interrogano su questo: cosa è la vita e come sorge? La formula, per quello che ci riguarda, è riassumibile così: energia, carbonio, acqua liquida e pochi altri elementi. La biochimica della vita sulla Terra, e forse anche altrove, si fonda totalmente sulle proprietà dell’acqua. Così, chiedendosi perché gli alieni non ci abbiano ancora raggiunti, o come fare per arrivare noi su pianeti simili al nostro, gli autori mobilitati da Al-Khalili s’interrogano sul perché esiste la vita sulla Terra; o meglio, perché ci siamo noi, Homo Sapiens Sapiens, e non un discendente diretto dei dinosauri?

 

Come conclude Ian Stewart, matematico inglese nella sua rassegna sugli alieni nella letteratura fantascientifica, gli extraterrestri “sono uno specchio nel quale poter osservare i nostri difetti e le nostre fobie”. Il modo con cui li trattiamo nei romanzi e nel cinema, o reagiamo alla loro presenza, “la dice lunga su noi stessi”. L’alieno vero è dentro di noi. Manganelli in uno dei suoi articoli, raccolti in Ufo e altri oggetti non identificati (Quiritta) concludeva che la moda degli UFO passerà, ma “non passerà la voglia dell’assurdo”. Avrà ragione? Scienza o fantascienza che sia, la realtà in cui viviamo sembra alimentare la smania della fine del mondo. Tra riscaldamento globale, sovrappopolazione, fantasie distruttive delle grandi potenze e altri cataclismi possibili, l’ipotesi di trasmigrare altrove alla ricerca di nuove terre abitabili sta diventando d’incontrovertibile attualità. Oltre che un grande affare economico. Sarà dunque meglio comprare un biglietto su una nave spaziale ai nostri discendenti, invece di lasciare loro in eredità un appartamento in una desolata città terrestre?

 

Questo articolo è già uscito su “L’Espresso”, che ringraziamo.

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