Andy Summers: la bellezza sarà convulsa

31 Dicembre 2022

Non dev’essere stato facile, per un chitarrista formatosi negli anni ’60, amico di Eric Clapton, di Jimmy Page, di Robert Fripp, coetaneo di Paul McCartney e nato un anno prima rispetto a Mick Jagger e Keith Richards, già figlio dei fiori in California e membro dei Soft Machine di Robert Wyatt, autore di uno degli assoli più lunghi della storia del rock – The Animals,  Coloured Rain, anno di grazia 1968, una cavalcata psichedelica di 190 battute –, trovarsi d’un tratto catapultato sulla scena punk inglese dove, fra le altre cose, vigeva il divieto assoluto di lanciarsi in un assolo di chitarra. Farsi sputare in faccia dagli spettatori sì, quello era previsto, persino parte del rituale, la sindrome dello scaracchio libero, ma suonare un assolo di chitarra, quello mai. Spodestare la vecchia guardia era la parola d’ordine dei punk, e niente come l’assolo di chitarra era sinonimo di obsolescenza, conformismo, autocompiacimento estetico.

Per Andy Summers la musica è sempre stata una forza spirituale, un motore di cambiamento. Nei primi tempi, quando il gruppo dei Police prese il volo, non sopportava gli esagitati dallo sputo facile che si presentavano ai concerti. Il punk lo disgustava. Poteva capirlo e sostenerlo sul piano ideologico o politico, ma ne era nauseato sul piano musicale. Summers era cresciuto ascoltando Thelonious Monk e John Coltrane, la chitarra di Grant Green e il sassofono di Sonny Rollins. Amava le armonie sghembe, gli accordi di nona e di sesta, studiava i dischi di Gavin Bryars e i cori bulgari, non sapeva che farsene di Johnny Rotten e compagnia. Sul finire degli anni ’60, novello membro del gruppo degli Animals di Eric Burdon, era emigrato a Los Angeles. Un giorno, con l’amico Zoot Money, decise di fare visita a Jimi Hendrix, impegnato a incidere delle tracce al TTG, uno studio di registrazione di Hollywood. I due s’erano conosciuti pochi mesi prima a Londra, e Summers, al pari di tutti i chitarristi inglesi, ne era rimasto folgorato. Summers e Money entrarono nello studio proprio mentre dagli altoparlanti sgorgavano le note urlanti della chitarra di Jimi. Terminato il brano Hendrix si avvide di loro e, cappello con la piuma bianca calcato in testa, entrò nella sala controlli per salutarli. Summers approfittò dell’interruzione per introfularsi nello studio di registrazione, catapultarsi sulla Stratocaster di Hendrix e chiedere al batterista Mitch Mitchell di accompagnarlo. Jimi, forse sorpreso da tanta impudenza, rientrò a sua volta nello studio, raccolse il basso di Noel Redding, se lo infilò sulle spalle e come se niente fosse si mise ad accompagnare Summers. Andy, in un raro momento di lucidità, pensò: “Cristo, Jimi Hendrix sta suonando il basso con me…”. Solo uno scriteriato o qualcuno con un’invidiabile opinione di sé poteva osare una cosa del genere. L’improvvisazione durò dieci minuti. Poi Hendrix disse: “ehi, amico, ti dispiace se ora suono io la chitarra?” Il gesto era punk, ma tutto il resto no. Un conto è se a rimetterti al tuo posto è Jimi Hendrix, un altro è se sei preso a sputi da un punk in un pub alla periferia di Londra. Che c’entrano Haight-Ashbury e la comunità hippie di Laurel Canyon con il Roxy, il quartier generale del punk?

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C’è una massima di André Breton che Andy Summers amava far sua: la bellezza sarà convulsa o non sarà. Summers la citava per evocare il modo in cui si sforzò di esplorare un nuovo lessico per la chitarra rock sul finire degli anni ‘70. Nella sua autobiografia One Train Later Summers scrive: “io voglio armonie che scoppino come ammassi stellari, intervalli che schizzino come comete sul corpo calloso, configurazioni aperte che portino le seconde minori a collidere con settime, none e undicesime, producendo effetti di palpitante bellezza”. Chi è familiare col repertorio dei Police non stenterà ad associare queste parole all’incessante riff sull’intervallo di nona di Message in a bottle, allo squillante accordo di uncidesima di Walking on the moon – impiegato da Summers per la prima volta nel 1967 in The madman running through the fields del gruppo psichedelico di cui fu parte, i Dantalian’s Chariot, e poi ripreso coi Police – o al famoso arpeggio, pure cesellato con l’aggiunta del nono grado della scala, di Every breath you take. La convulsione sembra però aver accompagnato Andy Summers ben oltre il suo rapporto con lo strumento e le armonie da applicare alle canzoni di Sting. Tutto, nella sua parabola artistica, appare sghembo, inconsueto, asincrono.

Andy Summers è anzitutto un caso più unico che raro nella storia del rock britannico. Dai Beatles in poi i gruppi rock sono composti, di massima, da amici o quanto meno da coetanei. Ragazzi cresciuti assieme, ascoltando la stessa musica, frequentando gli stessi posti. I Police no. Sting, classe 1951, è cresciuto nel nord dell’Inghilterra, a Newcastle upon Tyne; il batterista Stewart Copeland, classe 1952, figlio di un agente della CIA, benché attivo musicalmente sulla scena inglese (per un breve periodo fu parte del gruppo di rock progressivo dei Curved Air), ha passaporto americano; Andy Summers appartiene quasi a un’altra generazione. Nato il 31 dicembre del 1942, quando iniziò a suonare la chitarra nei locali di Londra, Sting stava forse alle scuole medie. Questa è un’anomalia non da poco nel mondo del rock. Nove anni di differenza, nel rock, rappresentano un abisso. Andy Summers conobbe il successo planetario molto tardi, più vicino ai quarant’anni che non ai trenta. Da un punto di vista anagrafico non apparteneva agli anni ’70 e al punk, ma alla generazione del beat e del blues britannico. S’era fatto le ossa in un gruppo che nel Regno Unito era una mezza istituzione del soul e del rhythm’n’blues, la Zoot Money's Big Roll Band, poi aveva girovagato in altre band, i Soft Machine e gli Animals, era stato chitarrista nei gruppi di Kevin Coyne, Kevin Ayers e Neil Sedaka, senza mai riuscire a trovare terra ferma. A differenza della maggioranza dei chitarristi inglesi del periodo, Andy Summers non si è mai profilato nel solco blues aperto da Eric Clapton. Quando entrò nei Bluesbreakers di John Mayall, lo scalpore provocato da Clapton fu tale che sui muri di Londra cominciò ad apparire la scritta Clapton is God. Non c’era chitarrista inglese che non fosse attratto dal suo stile e dal suo suono saturato. Vero è che Andy Summers ne fu in qualche modo reponsabile. Fu infatti lui a vendere a Eric Clapton la leggendaria Gibson Les Paul – anno di produzione 1959 o 1960 – che tanta parte ha avuto nella storia del rock-blues britannico. Summers la pagò 100 sterline e la vendette a Clapton per 200; oggi un modello come quello raggiunge quotazioni da capogiro, fino a 400.000 dollari: lo Stradivari del rock, il Sacro Graal del collezionista.

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Andy Summers, pur rifuggendo dalla pedissequa imitazione di Eric Clapton, ne invidiava però, nelle sue parole, “la capacità di penetrare l’inconscio chitarristico collettivo”. Summers aveva cercato a lungo una voce. Tutti i suoi amici chitarristi spiccavano il volo grazie a questo o quel gruppo, ma a lui quel balzo sembrava non riuscire. Dopo la stagione dell’amore e il sogno di diventare una star del rock, in California Andy Summers toccò il fondo. Perso il lavoro negli Animals, si vide pignorata la Fiat Spider e fu arrestato per possesso di marijuana. Rimasto senza soldi e senza un tetto si ritrovò a dare lezioni di chitarra per cinque dollari a seduta. Londra era ormai un lontano ricordo, ma un giorno, dopo tre anni di vita ai margini, uno studente gli offrì di comprare la sua chitarra. Era una Fender Telecaster del ’61, modificata, logora e ammaccata. Summers la provò per qualche ora e si accorse che non riusciva a staccarsi dallo strumento. Mise mano ai risparmi messi da parte con le lezioni e la comprò. Fu, quella, la chitarra capace di riaccendere in lui la scintilla, la chitarra con cui si riaprì al mondo, la chitarra che vedremo poi immortalata in tante fotografie nella stagione dei Police, la chitarra con cui inciderà molte delle canzoni più amate del gruppo. Siamo nel 1973. Andy Summers realizza che l’avventura californiana è finita e rientra a Londra, città da cui manca da cinque anni. L’amico Robert Fripp lo mette in contatto con il cantante Neil Sedaka e Summers rientra nel giro. Ricomincia a suonare e ritrova fiducia in sé stesso. Una sera viene invitato dalla Newcastle Symphony Orchestra a suonare la parte solista di Tubular Bells di Mike Oldfield, un disco allora in vetta alle classifiche di vendita. Summers nutre non poche riserve sul brano – lo chiama, in privato, Tubercular Balls – ma nell’intervallo di quel concerto è prevista l’esibizione di un gruppo di Newcastle che si fa chiamare Last Exit, il cui bassista, tale Gordon Sumner, si presenta in scena col nome d’arte di Sting. Il resto, come si suol dire, è storia. Nell’agosto del 1977 Andy Summers diventa il chitarrista di un gruppo destinato a conquistare il mondo.

Summers sostiene che i Police siano stati l’ultima grande band degli anni ’60. Si potrebbe dissentire, volendo, immaginare cioè che l’ultima grande band degli anni ’60 siano stati piuttosto i Led Zeppelin, oppure i Queen, e attribuire invece ai Police lo statuto di prima grande band del dopo anni ’60; prima degli U2, dei Blur, degli Oasis o dei Radiohead, limitando lo sguardo al Regno Unito. Questioni tutto sommato frivole, da nerd del rock. Più rilevante è semmai sottolineare come il successo dei Police fu vertiginoso. MTV sarebbe nata soltanto nel 1981, ma i Police furono una delle prime band ad essere proiettate nell’olimpo del pop grazie ai videoclip musicali. Bastarono in verità due dischi capolavoro – Outlandos d’amour e Reggatta de blanc –, e una manciata di canzoni che sembravano piovute da un altro pianeta, in grado però di definire l’umore e il sound di un’epoca: Roxanne, So Lonely, Can’t stand losing you, Message in a bottle, Bring on the night, Walking on the moon… I Police, il trio perfetto: il genio compositivo di Sting, un raffinato architetto sonoro quale Andy Summers, capace di tessere uno spazio armonico dentro il quale il rock non s’era mai avventurato, e un batterista posseduto, vera e propria macchina del ritmo o, meglio, del poliritmo quale Stewart Copeland. Col successo arrivò anche il corollario di eccessi e di débauche che spesso associamo al rock. Il disco Ghost in the machine rappresentò forse il punto di non ritorno. Ispirato all’omonimo libro di Arthur Koestler, un saggio sull’istinto autodistruttivo nell’uomo, sembrava evocare gli attriti, le tensioni e i conflitti che stavano dilaniando la band. Nei giorni in cui i Police registravano il disco ai Caraibi, la moglie di Andy Summers chiese il divorzio (si sarebbero risposati anni dopo, smaltite le turbolenze e le amnesie da rock star di Andy). Il rapporto con Sting nel frattempo s’era andato deteriorando. Dopo 75 milioni di dischi venduti i Police si sarebbero sciolti nel 1984, all’apice della fama.

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Prima, durante e dopo i Police, Andy Summers ha conosciuto una carriera straordinaria. Proprio negli anni dei Police si profilò come un precursore in ambito di tecnologia applicata alla chitarra – gli effetti di modulazione a pedale prima: phaser, flanger, chorus, ma soprattutto l’echoplex, un delay a nastro che dilatava il suono del trio in una dimensione quasi orchestrale; la chitarra synth poi – uno sperimentatore indefesso – notevoli in particolare i dischi firmati con l’amico Robert Fripp – un jazzista capace di dialogare alla pari con i migliori musicisti dell’epoca, un apprezzato fotografo e uno scrittore originale (oltre all’autobiografia vale la pena segnalare la raccolta di short stories Fretted and moaning). Più di ogni altra cosa è stato un musicista che ha segnato l’evoluzione del rock ampliandone a dismisura la gamma sonora e lo spettro armonico, rivoluzionando nel contempo il ruolo e il lessico della chitarra nel rock. Da strumento-guida, colossale macchina testosteronica misurabile in watt di potenza e assoli sperticati, a orpello coloristico, raffinato pennello contrappuntistico, ventre materno entro cui adagiare le sublimi melodie di Sting. Ne soffrì a lungo, Andy Summers, di dover rinunciare alle scorribande solistiche su cui ogni chitarrista rock ha tendenza a indugiare – Sting non ha mai gradito gli assoli di chitarra, e per il quieto vivere Summers si adeguò, sondando altre strade – ma in quella rinuncia Summers trovò la sua forza e la sua voce. Gli arpeggi di Message in a bottle e di Every breath you take sono ormai parte della storia musicale del Novecento. Dei conturbanti petali sonori, delicati e tesi insieme, ben più che dei semplici ornamenti, capaci di spalancare un mondo obliquo al quale Summers ha dato un nome bellissimo: il sound del fragile compromesso.

Andy Summers, A certain strangeness, da Harmonics of the Night

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