Conversazione con Andrea Cavalletti / Attualità di Furio Jesi

2 Aprile 2019

La recente riedizione di Germania segreta (Nottetempo 2018) che arriva circa cinquant'anni dopo la sua uscita (Silva, 1967) e quasi venticinque dopo la prima ristampa (Feltrinelli 1995) è un'occasione per riflettere ulteriormente sulla figura di Furio Jesi – mitologo, germanista e critico militante – e per ragionare sulla sua eredità e sull'attualità con il curatore Andrea Cavalletti.

 

Perché ripubblicare ora questo libro? Si direbbe che Jesi ritorna quando si sente il bisogno di fare chiarezza sul rapporto tra cultura e politica e in relazione all'emergere di un clima conservatore, reazionario, neo o post-fascista.

 

È vero, in questo clima, che essendo da troppi anni lo stesso diventa ogni giorno più pericoloso, i libri di Jesi appaiono sempre più attuali. Vi è poi l'altro aspetto, inseparabile, della medesima questione: direi che questi libri sono urgenti proprio in virtù della loro oggi evidente inattualità, ossia per la posizione e il ruolo, certo minoritario ma non inefficace, che Jesi ha giocato, e continua a giocare, nell'industria culturale. Mi riferisco all'autore Jesi come produttore (Autor als Produzent, nel senso di Benjamin), erede originale della tradizione saggistica novecentesca e, appunto, del metodo benjaminiano: dunque all'importanza non solo del contenuto dei suoi saggi, ma anche della loro maniera compositiva, ovvero del “come” sono stati scritti. Comprendere e magari acquisire questo metodo è tanto più necessario oggi, quando, per rifarsi ancora un titolo di Jesi, un certo analfabetismo elitario costruisce e manovra quello di massa.

 

Personalmente ho sempre trovato Germania segreta un libro affascinante, complesso e aporetico: l'edizione del 1995, curata da David Bidussa, è stato uno dei primi incontri con l'autore e uno dei motivi di grande interesse, tale da spingermi a studiare Jesi. La mia idea è che il metodo e la proposta di un'analisi di un certo immaginario collettivo e dei suoi topoi siano chiari, la potremmo definire una storia culturale del sociale o ancora la storia della produzione di figure archetipiche fittizie. Ma mi sembra che i presupposti teorici che ne fanno da sfondo in quel momento non siano ancora risolti. È un libro precedente il conflitto politico con il maestro Károly Kerényi, incentrato ancora sul concetto di “mito tecnicizzato” – il che implica anche quello di mito genuino –, che propone una sorta di psico-storia della cultura e che precede l'elaborazione della teoria della “macchina mitologica”, elaborata nei primi anni Settanta.

 

Credo anch'io che sia un libro complesso, e che, per quello che dicevo prima, ciò rappresenti anche una qualità oggi particolarmente apprezzabile. Credo anche che i materiali pubblicati in appendice nella nuova edizione, gli abbozzi dei capitoli e specialmente lo schema generale del libro, restituiscano al lettore, in maniera più immediata, il disegno generale della ricerca. È vero, qui manca ancora il modello “macchina mitologica” ma nel contempo, aggiungerei, il concetto di tecnicizzazione non implica per Jesi quello del “mito genuino” come lo intende Kerényi, e proprio perché è rivolto contro ogni rimando a una presunta sfera originaria, extra-storica, segnata «da “Ur-”, da “Arche-”». Il saggio su Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito (1964), che causerà nel '68 la rottura col maestro, e appunto sul problema del “mito genuino” o dell'Urphänomen, precede la stesura di Germania segreta. Il momento per Jesi risolutivo, quello della cosiddetta «guarigione», risale poi all'incontro con Kerényi del maggio del '65; e aggiungerei che se il modello della macchina mitologica «traspone al livello del suo inganno funzionale … normativo … l'inganno che Kerényi chiamava la “tecnicizzazione del mito”» (Jesi), le mosse che rendono possibile questo spostamento appaiono già nel saggio del '65 Mito e linguaggio della collettività e, appunto, nelle pagine di Germania segreta. Questo libro resta in ogni caso fondamentale per comprendere Spartakus, che precede di pochissimo l'elaborazione del modello «macchina mitologica». Ma non solo: è un libro sul fenomeno della «reversione del mito», cioè sul modo in cui, come scriverà poi Jesi, la macchina entra in funzione. Si pensi alla sottile spiegazione dell'antisemitismo cristiano, cioè all'accusa del sangue (il saggio omonimo è del 1973, ed è stato opportunamente ripubblicato nel 2007 da David Bidussa) come reversione esatta del mito dell'eucarestia.

 

Il tuo lavoro editoriale ed esegetico su Jesi è stato fondamentale per la sua ricezione e riemersione negli anni Duemila, penso alle riedizioni di Letteratura e mito e Materiali mitologici e dai successivi libri, arricchiti dai materiali provenienti dall'archivio di famiglia. Quale è stata la scintilla del tuo incontro con Jesi e della durata nel tempo di questo rapporto?

 

Decisivo è stato proprio il primo saggio che mi è capitato di leggere, sfogliando un vecchio numero di «Comunità». Diversi anni dopo, quando conoscevo un po' meglio l'opera di Jesi e quando la casa editrice Quodlibet, che era nata da poco, decise di pubblicare una serie di saggi brevi, proposi appunto quella geniale Lettura del “Bateau ivre” di Rimbaud. Insieme ai giovani editori la lesse Giorgio Agamben, che ne rimase altrettanto colpito e decise subito di scriverne una prefazione (in realtà, come ho capito più tardi dall'epistolario jesiano, conosceva già quel saggio, benché dopo tanto tempo l'avesse dimenticato: gliel'aveva inviato l'autore nel '72, e lui aveva risposto allora col medesimo entusiasmo). Poi, poco più tardi, ho iniziato a lavorare sugli inediti, grazie alla disponibilità e all'estrema cortesia di Marta Rossi Jesi. Marta è scomparsa da poco, era una persona autentica e rara. E, davvero, senza il suo aiuto, la sua intelligenza attenta e la sua pazienza, anche nel ricostruire episodi lontani, non avrei combinato nulla.

 

 

L'attenzione che Jesi ha avuto nell'ultimo decennio si deve moltissimo, mi sembra, da un lato a Spartakus e al tema della rivolta e all'analisi politico-filosofica in Cultura di destra. Anche le recenti traduzioni francesi e quelle inglesi, che sono un aspetto interessante della sua ricezione contemporanea, riflettono questa sensibilità. Credo inoltre, che insieme alla sua riproposta editoriale, molto pubblico giovane sia arrivato a lui tramite l'intelligente riproposizione dei suoi temi fattane da Wu Ming (vedi qui e qui) come must-read per una militanza consapevole.

Quello che emerge è uno Jesi totalmente risolto nel politico, anche per quanto riguarda la teoria della mitologia, che è l'asse centrale del suo lavoro. Il che è attestato anche dalla sua presenza nel dibattito filosofico, anche grazie alla mediazione di Agamben, e della “macchina mitologica” come modello da studiare e utilizzare nelle scienze della cultura.

 

Hai ragione, è uno Jesi del tutto risolto in questo senso. Ed è certo la visione giusta, teorica e politica insieme, perché in effetti Jesi non si è mai sentito estraneo a una battaglia che poteva essere quella degli spartachisti, indagata “dall'interno”, quella molto affine dei vampiri dell'Ultima notte, oppure il Kampf sulla mitologia di Creuzer e di Bachofen (forse uno dei suoi saggi più belli, più benjaminiani, e certo meno letti, è proprio il Bachofen, pubblicato postumo, da Bollati Boringhieri, nel 2006). Si trattava in effetti, per lui, di un'unica battaglia, che andava combattuta su fronti diversi (compresi quelli del lavoro editoriale, degli articoli strettamente politici e delle lotte sindacali) perché potesse “durare”. Così, ancora su diversi fronti, dobbiamo oggi operare, e così è stato fatto dagli interpreti che citavi – sia rielaborando in senso filosofico-politico il modello della macchina mitologica e l'idea della “zona di non conoscenza”, sia usando opportunamente gli strumenti jesiani e diffondendo il loro impiego nella teoria e nella militanza antifasciste.

 

La mia impressione è che troppo spesso Jesi sia molto apprezzato e citato, al limite della santificazione, quanto poco letto in profondità: il suo profilo di critico letterario, così come quello di antichista, studioso di Egitto e di Grecia, rimangono marginali nella ricezione generale, benché siano analizzati e valorizzati (penso al lavoro di Marco Belpoliti in Settanta o più recentemente alle ristampe curate da Giulio Schiavoni per Aragno). Resta il fatto che la complessità dello scrittore di idee e della personalità culturale di Jesi sia tale che spesso l'unico modo per gestirne la portata sia quello di sezionarne e isolarne gli aspetti per comunicarli di volta in volta a pubblici diversi: io, ad esempio, mi sono da un lato prefissato di “urbanizzare Jesi” e di renderlo accessibile, operando una storia della critica e scegliendo alcune piste di lettura dentro le teorie del mito tardo novecentesche, per poi trovarmi a scrivere di Jesi per gli ambienti filosofici, germanisti o storico-religiosi...

 

Sì, infatti, si tratta di volta in volta di pubblici diversi, o anche, direi, delle diverse fasi di adeguamento dei lettori, noi compresi, all'esigenza del testo. Penso anche al tema jesiano e kierkegaardiano della didattica... Credo anch'io che rendere accessibile significhi appunto non temere una certa “difficoltà” né evitarla, come non l'ha evitata né temuta un autore che insegna d'altro canto a sostenere l'offensiva della “cultura di destra”, ossia di tutto ciò che appare facile solo perché non deve essere compreso. Ricordi, per esempio, l'introduzione all'Isola del Tonal di Carlos Castaneda? In quel periodo, nel 1975, Castaneda godeva anche da noi di un certo successo, ma scrivendo quel testo Jesi non ha inteso andare, come si dice, incontro al pubblico: come il gusto è costruito dall'allusione al suo oggetto, il pubblico dei lettori è un prodotto della tecnicizzazione, e chi pretende di assecondarlo si comporta da maestro, presume di governare la macchina. La teoria jesiana dell'apprendistato prevede invece la sparizione della figura del maestro dalla visuale dell'allievo.

Tornando ai nostri contributi, restano ancora modesti e vi è moltissimo da fare. Per esempio, non solo il rapporto di Jesi con l'ebraismo in generale non è stato ancora indagato sufficientemente, ma neanche quello con le figure di Martin Buber o di Gershom Scholem. Se la lettura dei testi di Buber è stata determinante soprattutto intorno alla metà anni sessanta, l'influsso di Scholem (e soprattutto del suo capolavoro, Le grandi correnti della mistica ebraica) è stato anche più profondo e duraturo, come testimonia fra l'altro il breve ma significativo carteggio pubblicato da Enrico Lucca. Jesi considerava Scholem un maestro al fianco di Georges Dumézil e Kerényi.

 

Uno degli aspetti che si è evidenziato in questi anni, ad esempio nella pubblicazione del numero di Riga a lui dedicato, o nelle pubblicazione di diversi testi inediti per Nottetempo o su Alias/il manifesto, è la figura di Jesi come figura chiave del mondo editoriale, traduttore e operatore della cultura. In questo credo che Jesi, un poligrafo free-lance sin dal 1969 che ha lavorato per i principali editori e che solo le circostanze materiali fanno diventare germanista accademico, sia una figura assolutamente contemporanea e attuale. A partire dalla sua condizione precaria, ma  di assoluta libertà e autonomia, per arrivare alla mobilità e all'idea di “impaludarsi” negli ambienti editoriali e accademici usandoli come contesto per fare altro. Un altro aspetto che credo sia ancora tutto da scoprire è quello che riguarda la rete di relazioni intellettuali che Jesi ha costruito nella cultura degli anni Settanta e che il suo ricchissimo epistolario privato testimonia.

 

Evocando l'«autore come produttore» pensavo proprio a questi aspetti: alla situazione di un intellettuale che vive in condizioni di precariato (un free-lance, come si definiva) e riesce mantenere un livello di ricerca altissimo, agendo attraverso i meccanismi editoriali in modo comunque libero. Benché la situazione forse per molti versi migliore di quella attuale, non si trattava certo di un'impresa facile: comportava anzi un'enorme dispendio di energie, un carico di lavoro a tratti estenuante persino per Jesi. Credo anch'io che a questo proposito l'epistolario rappresenti un documento importantissimo, e specialmente per comprendere il suo modo di operare nel sistema dell'industria culturale. Faccio un esempio. Nell'estate del 1973, Jesi iniziava a scrivere su commissione dell'editore Paravia un libro per le scuole medie, Il cattivo selvaggio: un testo rimasto incompiuto e, si potrebbe anche pensare, un tipico lavoro di sostentamento. Nondimeno, e anche per il carattere apertamente didattico del progetto, la lettura dei frammenti (si tratta di alcuni capitoli dattiloscritti, in versioni pressoché definitive) e del carteggio col referente editoriale Igino Vergnano risulta particolarmente istruttiva. Nella costruzione di questo testo sul razzismo destinato a un pubblico di adolescenti non vi è infatti alcuna concessione alla retorica dell'esempio (che è sempre nefasto, perché suggestivo). Jesi anzi rifiutava esplicitamente di opporre un modello edificante alla galleria di materiali che aveva reperito nella “cultura di destra” sia ufficiale o più triviale e sapientemente ricomposto: «se il “giusto” deve risultare convincente – scriveva allora a Vergnano –, occorre ricavarlo organicamente […] dallo smascheramento dello “sbagliato”, non dal suo semplice ribaltamento in positivo». Mi sembra che queste parole illustrino molto bene il metodo jesiano, specialmente se collegate alle pagine di Spartakus sui rivoltosi, che vedendo nel nemico un mostro disumano subiscono anche il suo fascino e devono opporgli un contegno speculare, umano e leale fino al sacrificio di sé. 

Infine, vorrei aggiungere che dal carteggio in generale, e in particolare proprio dal breve scambio con Agamben che citavo prima, emerge chiaramente anche il sentimento di disagio o meglio di totale estraneità provato da Jesi rispetto alla cultura italiana allora dominante.

 

Il recente documentario su Jesi, Man from Utopia, di Carlo Trombino e Claudia Martino ha raccontato con fine sensibilità gli anni palermitani ('76-'79), una pagina poco nota nella biografia di Jesi – la militanza politica nel Settantasette e la dimensione artistica – che coincidono con la fase matura e con la visibilità pubblica dello Jesi intellettuale e autore prolifico. Inoltre secondo me il film conferma l'idea che la grande attenzione che molti lettori, non solo giovani, abbiano nei suoi confronti si debba alla poliedricità e alla capacità di essere un critico radicale, trasversale a discipline e ambienti.

 

Mi pare che il documentario abbia fra l'altro il merito di restituire in maniera diretta, anche in momenti di commozione, l'effetto che Jesi fece ai giovani allievi palermitani. Spero perciò che possa anche invitare alla lettura di un libro importante come Esoterismo e linguaggio mitologico, che fu composto innanzitutto per gli studenti universitari, come degli altri testi di quel periodo, o dei saggi sulla breve attività didattica di Jesi, a Palermo e a Genova. È situandosi in questa prospettiva che si possono intravvedere gli sviluppi di una ricerca che, muovendo da Rilke, collegava ormai – per tornare all'inizio di questa conversazione – il “mito genuino” alla “pura lingua (reine Sprache)” di Benjamin, e quindi la mitologia alla traduzione, o meglio lo studio delle mitologie al “compito del traduttore”. 

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