Drammaturgie dello spettatore / Biennale Teatro 2016

8 Settembre 2016

Negli ultimi anni l'attenzione della Biennale di Venezia si è aperta progressivamente al tema della formazione, facendo della sezione College – in teatro e non solo – una delle linee portanti della propria attività. Alla cerimonia di conferimento dei Leoni d'Oro e d'Argento 2016 (rispettivamente a Declan Donnellan e Babilonia Teatri), il presidente Paolo Baratta ha voluto attribuire – a parole – un Leone “virtuale” a Álex Rigola, al suo settimo e ultimo anno di direzione, per il contributo determinante dato alla declinazione del tema College. 

In questi anni, infatti, il regista catalano è riuscito tramite la scelta laboratoriale e la programmazione di spettacoli di artisti internazionali a fare inaspettatamente di Venezia – e nonostante la collocazione agostana del festival – un punto di riferimento importante per il teatro italiano; un luogo di confronto, studio e incontro segnato soprattutto dall'apertura e dalla pluralità (di generazioni, geografie, culture e linguaggi, ma anche saperi e mestieri della scena). 

 

Leone d'oro, ph A. Avezzu.

 

Dal punto di vista di un osservatore continuativo e interno, come chi scrive, quella del 2016 si può considerare a tutti gli effetti un'edizione-summa di questo percorso: che ha visto avvicendarsi le polarità estreme della ricerca testuale e di quella performativo-visiva, insieme all'esplorazione di zone altre della scena contemporanea (quest'anno è stato il circo di Baro d'Evel, il teatro-cinema di Christiane Jatahy); maestri ormai consolidati e un'attenzione particolare alle generazioni più giovani (le scelte dei Leoni stanno a testimoniarlo); laboratori per autori, attori, registi e l'ormai consueto workshop di critica, che ha accompagnato tutte le edizioni con i suoi racconti e analisi. 

Ad attraversare le tre settimane di Festival Internazionale 2016, tanti temi, questioni, stili e orizzonti di ricerca, ma – a posteriori – forse tutti si possono aggregare intorno a una questione centrale, che poi sembra essere tornata di fondo anche nel teatro del nostro tempo: quella delle drammaturgie – in senso stretto e lato – dello spettatore.

 

Dalla partecipazione alla critica (Roger Bernat/Yan Duyvendak e Stefan Kaegi)

 

Partecipazione: ormai in teatro non si parla d’altro. Da qualche anno la scena europea sta vivendo una riscoperta delle dinamiche di coinvolgimento dello spettatore che hanno segnato tanto Nuovo teatro del novecento, almeno dalle soirée futuriste e dada per passare al teatro secondo il suo “valore d'uso” degli anni settanta e arrivare fino a noi. 

Ed è stato questo uno dei filoni portanti della Biennale Teatro 2016, che non a caso ha accolto fra i suoi primi spettacoli Please, continue (Hamlet) di Roger Bernat e Yan Duyvendak: la messinscena di un processo ad Amleto interpretata da professionisti legali e attori, supportata nell'esito giudiziario dalla partecipazione di una giuria composta da sei membri del pubblico. Oltre lo spettacolo – già visto in Italia qualche anno fa, ma ovviamente sempre diverso nell'esito –, restano memorabili le fitte discussioni fuori dal teatro fra gruppetti di spettatori, combattuti fra l'innocenza o la colpevolezza dell'eroe shakespeariano. 

 

Please continue Hamlet, Bernert Duyvendak, ph A. Avezzu. 

 

Please continue Hamlet, Bernert Duyvendak, ph A. Avezzu. 

 

La questione del coinvolgimento drammaturgico dello spettatore è stata naturalmente centrale anche nell'Opendoors dal laboratorio di Stefan Kaegi (leggi la recensione): un percorso in sei storie per altrettanti gruppi di spettatori armati di cuffiette e guidati dai partecipanti al laboratorio nelle splendide sale della Fenice. Ma i veri “attori” della performance si sono poi scoperti essere – appunto – gli spettatori stessi, delicatamente chiamati di volta in volta in questo story-game corale a compiere azioni, supportare la messinscena, addirittura a interpretare veri e propri personaggi intorno a sei tematiche distintive, dolenti, micidiali della città di Venezia (dal problema abitativo a quello dell'invasione turistica, dallo scandalo atroce e attuale del Mose a quelli – storici – dei roghi in Fenice).

 

Opendoors, Stefan Kaegi, ph A. Avezzu. 

Opendoors, Stefan Kaegi, ph A. Avezzu.

 

Il tutto, con un particolare riguardo per le tattiche di manipolazione mediali che subiamo ogni giorno, che lo spettatore è chiamato non solo a fruire, ma anche a incarnare per gli altri gruppi che lo osservano. Il teatro avviene continuamente tutt'intorno a noi, il teatro siamo noi stessi – sembra voler dire Kaegi attraverso il suo Opendoors. Critica, ironia, partecipazione – negli interstizi vibranti tra questi nodi si situa l'esperienza per lo spettatore proposta in questa performance: una fruizione teatrale “giocata”, impastata fra immedesimazione e straniamento, fra partecipazione e intrattenimento, dopo la quale resta il retrogusto profondo e amaro di aver fatto conoscenza di qualcosa non tramite un racconto altrui – come di solito accade – ma in qualche modo in prima persona. 

 

Dalla critica all'interpretazione (Romeo Castellucci e Angélica Liddell)

 

La questione della partecipazione dello spettatore non si pone soltanto in quei progetti che la chiamano in causa in maniera esplicita e diretta. 

Romeo Castellucci, alla Biennale con il bellissimo Ethica, nell'incontro pubblico al teatro Piccolo Arsenale ha parlato – in merito allo spettacolo – delle proprie opere come “oggetti lanciati in uno spazio proprio perché possano essere accolti da opinioni diverse”, tornando più volte sul tema dell'importanza della libertà interpretativa dello spettatore. «Il compito dell’artista» – ha constatato – «non è quello di dare risposte, ma di confezionare un enigma il più pericoloso possibile», mentre sono anni che insiste sul ruolo-chiave del lavoro del pubblico (con idee come quella della “curvatura dello sguardo” o di “epopteia”). Non a caso con gli allievi del laboratorio condotto in Biennale si è soffermato – racconta – sulla figura-cardine di Marcel Duchamp, che per primo a suo avviso ha aperto il campo alla potenzialità interpretativa dell'opera d'arte e dunque alla centralità dell'attività dello spettatore-fruitore.

 

C'è molto di questo nell'impostazione di Ethica, un intenso dialogo a tre a partire da Spinoza scritto da Claudia Castellucci per la Luce, una Telecamera e la Mente rispettivamente interpretate in uno spazio-tempo scenico vibrante e rarefatto da una donna appesa per un dito a diversi metri da terra (Silvia Costa), un cagnone nero libero di girare fra il pubblico e – per la Mente – una voce, nessuno, forse il buco nero di una sagoma umana sulla parete di fondo o forse quel muro bianco stesso? Ethica si concentra sulla impossibilità di comunicare e però anche sulla necessità di provarci (fra Luce e Telecamera, fra corpo e mente, fra persona e persona); ma è anche un lavoro di grande emotività sui sentimenti, la solitudine, la perdita (di sé, dell'altro) o almeno il suo rischio; e però inoltre una riflessione sull'unione e separazione delle cose, fatta per contrasti (luce/buio, distrazione/concentrazione, fissità/movimento, ecc.). Non è facile stabilirlo e non è semplice, al solito nei lavori del regista cesenate, collocarsi in una posizione comoda, sicura di osservazione e interpretazione: capire il “messaggio giusto”, cogliere l'idea di partenza nella sua univocità, seguire un percorso prefissato. Forse perché quel tragitto non c'è o, meglio, ce lo dobbiamo immaginare e conquistare da soli, passo dopo passo all'interno dello spettacolo, formulando ipotesi per poi vederle subito sgretolarsi o magari crescere, attribuendo significanti instabili e fragili, collegando e ricollegando continuamente i fili di una matassa che appartiene principalmente al singolo individuo che la osserva (o anche lasciarsi andare alla bellezza delle immagini e del testo, senza per forza voler incastrare tutte le tessere del mosaico performativo). 

 

Ethica, Castellucci, ph Guido Mencari.

 

Si potrebbe azzardare che molta della libertà interpretativa evocata – a parole e nei fatti – da Castellucci si possa trovare anche nelle modalità di fruizione proposte dall'Opendoors della residenza di Angélica Liddell (leggi la recensione). La breve performance – in cui l'artista è accompagnata da un attore e dieci astanti – è un primo attraversamento del Decameron, quasi un'incisione nello spazio-tempo scenico e nella scrittura boccaccesca. In scena, Liddell presenta una serie di materiali sparsi, fondati su poche immagini di fortissima potenza – quasi insostenibili fra brutalità e bellezza – e sulla centralità di una parola straziante, debordante, poetica e profonda che porta al suo centro il tema dell'invecchiamento della donna. 

In un'epoca di crisi, dove – come sembra indicare Liddell – la malattia e l'invecchiamento sono tabù, dove tutto sta cambiando e non si sa bene come, c'è da stare ben attenti perché sì dopo una devastazione totale come la peste è possibile fare spazio a qualcosa di nuovo e migliore (come suggeriva Boccaccio, come sosteneva Artaud); ma è anche questo il momento in cui – lo sentiamo tutti i giorni ciascuno per sé – basta un niente per tornare indietro al flagello dei tanti flagelli che hanno sconvolto l’umanità (e qui il pensiero va all’atroce monito di Albert Camus, che sinceramente sconvolge molto di più della discussa catasta di topi morti su cui la performer a un certo punto si getta). 

 

C’è tutta un’avanguardia (storica, prima e seconda, neo- e post-) che ha investito molto sullo spettatore, sulla sua attivazione, sul suo ruolo determinante nella messinscena, ma con un approccio di segno diverso rispetto al teatro partecipativo in senso stretto, che mira a coinvolgere anche e soprattutto il corpo del pubblico nella scrittura scenica. Ma, d’altra parte, anche Roger Bernat nell'incontro pubblico della Biennale ha parlato della “responsabilità del teatro”, del suo ruolo in epoca contemporanea per le sue potenzialità di “dispositivo critico”, che – rispetto ad altri media attuali – lascia singolarmente fra azione e reazione – appunto – un importante tempo per l’interpretazione.

 

Fra teatro e società, fra scena e realtà (Declan Donnellan, Fabrice Murgia, Christiane Jatahy)

 

Il punto, per Bernat – nello spettacolo pienamente colto, meno nell'Opendoors del suo workshop, legato a una modalità di coinvolgimento (fisica) più tradizionale – non è quello della partecipazione in senso stretto: come ha dichiarato durante il talk, il coinvolgimento è stato un obiettivo-chiave di tutto il Novecento e ora, con una diversa e ricca consapevolezza, si tratta più che altro di mirare all'aggregazione temporanea intorno a un problema condiviso, di approfittare del teatro per creare occasioni – seppure fittizie e momentanee – di dialogo e confronto, piuttosto che del desiderio utopico della trasformazione della società in modo permanente. 

 

Il tema del ruolo del teatro nella società e in particolare delle sue potenzialità come strumento di riattivazione di una modalità diversa di relazione, incontro, dialogo – soprattutto in tempi come questi di estremismi e chiusure – è stato anche per altri versi al centro di questa Biennale Teatro. A partire dall'intenso discorso pronunciato da Declan Donnellan per il Leone d'Oro a inizio festival e per chiudere l'ultimo giorno con l'incontro pubblico di Fabrice Murgia, oltre agli interventi sulla questione Brexit formulati da artisti di base in Gran Bretagna (Simon Stephens, Mark Ravenhill) e alle lucide riflessioni sul senso e ruolo del teatro proposte – a parole e in scena – da Babilonia Teatri («per me il teatro è sociale per definizione, altrimenti non è teatro», rivendica Enrico Castellani nel talk pubblico). 

Per Donnellan, nei «tempi spaventosi in cui viviamo» in Europa, fra crisi e amnesie, estremismi e nazionalismi, è importante sviluppare, più che la simpatia per gli altri, l'empatia – un atteggiamento che ha a che fare con il riconoscimento (e il rispetto) della diversità altrui, all'interno di cui il teatro, secondo l'artista, può geneticamente giocare un ruolo sostanziale. 

 

Le chagrin des ogres, Fabrice Murgia.

 

Fabrice Murgia, autore e regista poco più che trentenne, è diventato da poco direttore del teatro nazionale di Bruxelles; e il suo progetto – come ha spiegato nel talk – verte fra le altre cose sulla riconnessione fra gli artisti e gli spettatori, fra il teatro e la società. A suo avviso, in tempi come questi, il teatro deve avere un forte ruolo politico, ma non nel senso tradizionale e ideologico del termine: dal punto più vista – più semplice e forse più essenziale – di farsi luogo di incontro di opinioni differenti (degli artisti e degli spettatori) e di, non certo dare risposte, ma almeno porre domande (il che, sostiene l'artista, è già in sé molto politico in un'epoca come questa, dimostrando una posizione per certi versi simile a quella di Castellucci). Le Chagrin des ogres, il lavoro di Murgia presentato in Biennale, pur risalendo a diversi anni fa, è in effetti uno spettacolo che lavora sulle lacerazioni del contemporaneo: a partire dalle vicende di Natascha Kampusch, rapita e segregata per lungo tempo dall'età di dieci anni, e di Sebastian Bosse, adolescente autore di una strage in un liceo tedesco nel 2006. E nonostante qualche punta estrema di grottesco e che i temi di cocente attualità siano forse mutati, è una messinscena che divide – con il supporto dell'utilizzo del video live – intorno ai temi del male, al rapporto e all'identità di vittime e carnefici, alle correlate responsabilità della società. 

 

In un certo senso divide gli spettatori, anche sapendo arrivare con forza al cuore del pubblico, E se elas fossem para Moscou?, riscrittura dalle Tre sorelle di Cechov diretta fra cinema e teatro da Christiane Jatahy. Qui l'uso – complessissimo ma non invasivo – delle videocamere live acquisisce un ruolo fortemente drammaturgico: sdoppiando, svelando e intrecciando le prospettive dei diversi personaggi in scena, in un percorso a metà fra il disinnesco e la seduzione della finzione per certi versi vicino all'approccio mediale espresso da Stefan Kaegi. 

Prima si vede lo spettacolo, e poi il film girato e diretto dal vivo (o viceversa). E scuote scoprire più da vicino l'inquietudine autolesionista della piccola Irina, l'amara solitudine di Olga, la più matura e materna delle tre sorelle, o lo strazio che si cela dietro la frivolezza di Maria; insomma, scoprire in ogni caso sullo schermo nuove e diverse storie dietro quelle che si erano viste, ascoltate, seguite e interpretate poco prima durante la messinscena. Si cambia idea, posizione, prospettiva; si vede (e in realtà ci si vede) in modo diverso. 

Anche in questo caso, il pubblico entra – letteralmente – nello spettacolo, con le tre bravissime attrici che continuano a interloquire direttamente con gli spettatori come se fossero gli invitati al compleanno di

Irina. E così anche qui il teatro ci riguarda tutti, fuor di retorica, all'interno e all'esterno del palcoscenico. 

 

E se elas fossem para moscou, Christiane Jatahy. 

 

«Credo che il teatro sia molto politico» – rifletteva Donnellan nel suo incontro pubblico – «non perché debba dire chi o cosa votare, ma per la sua capacità di fare domande»; e «l'atto politico del teatro» – continuava – «consiste nel parlare a persone che hanno un punto di vista diverso dal proprio».

Il nodo, da qualsiasi punto di vista lo si voglia cogliere, sembra essere sempre lo stesso: ritrovare la dimensione del teatro che rappresenta ed è incontro fra le persone, come strumento critico e di confronto pubblico; insomma, come atto strettamente, radicalmente e autenticamente politico. Una verità antica come il teatro stesso, e che però in questi ultimi anni sembra dare nuova linfa alla sperimentazione della scena e forse anche nuovi orizzonti di senso per il ruolo del teatro all'interno della nostra società (e che nel loro piccolo, queste sette edizioni di Biennale Teatro hanno forse saputo alimentare, nel segno del pluralismo e dell'apertura). 

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