Speciale
Bouvard e Pécuchet
Calvino diceva che i classici sono quei libri di cui di solito si sente dire "sto rileggendo..." e mai "sto leggendo...". Abbiamo chiesto ai nostri collaboratori quali classici stanno rileggendo ora.
“La stupidità consiste nel voler concludere. Siamo un filo e vogliamo conoscere la trama”. Flaubert lo scrive in una lettera, condensando la direzione – già la parola senso equivarrebbe a fraintenderlo – che prende Bouvard e Pécuchet, il più ardito dei suoi progetti, il meno romanzo dei suoi romanzi. Leggerlo o rileggerlo oggi (ma quante riletture sarebbero necessarie per afferrarne intenti, retropensieri, obiettivi polemici?) significa fare i conti con un’intera maniera di stare al mondo. Che se da un lato è ancora la nostra, dall’altro, in termini più stretti, è quella degli uomini di due secoli fa – metà del XIX secolo – nel mondo occidentale. Uomini di città e di provincia, uomini della borghesia e del popolo, accomunati dall’incrollabile convinzione di stare – in qualche modo, anche quando si è ai margini – ben saldi dentro al proprio tempo, padroni di sé, con il proprio gruzzolo più o meno consistente di nozioni, con la propria visione delle cose, con la propria soluzione ai problemi del presente e del futuro, con la propria personalissima ma in realtà condivisissima idea del passato, con la propria formidabile certezza che le cose vanno concluse, che bisogna arrivare al punto, che è indispensabile dare forma definitiva al nostro essere qui, tutti convinti di conoscere la trama, pochi con l’umbratile paura di essere solo un filo. È contro questo immenso cumulo di parole, pensieri, oggetti, è contro questo soffocante kitsch della vita, manifestazione e causa del male supremo e onnivoro, la bêtise, che Flaubert parte all’assalto. Accogliere tutto per fare a pezzi tutto. Percorrere ogni abitudine per evidenziarne il non senso. Impossessarsi di ogni teoria per dimostrarne i limiti. Studiare ogni disciplina per metterne a nudo i difetti. Per scrivere Bouvard e Pécuchet Flaubert ha letto qualcosa come 1500 libri. Ha raccolto una quantità enorme di informazioni sulle scienze, sulla religione, sulla filosofia, sulla letteratura.
Una massa che ha finito con l’incombere sulla sua vita, rendendola simile a una prigione, accelerandone probabilmente la fine (Flaubert muore l’8 maggio del 1880, prima di concludere il romanzo). Contro cui, però, non c’è nulla da fare. Una volta messa in movimento, la caccia all’imbecillità è destinata a non trovare mai un punto d'approdo (ancora, una conclusione). E il motivo sta nel fatto che la bêtise non ha una sede privilegiata. Non c’è mappa che tenga. Non c’è un percorso che ci allontani da lei con certezza. Come Flaubert ben sapeva, la stupidità è ovunque, e soprattutto ama annidarsi tra coloro che la combattono, tra quelli che si sentono dalla parte giusta, tra i “salvati”, tra gli immuni dal pregiudizio, tra gli specialisti, tra gli uomini di cultura, tra gli intelligenti.
È da qui che nascono i due personaggi di Bouvard e Pécuchet. Cosa sono i due quarantasettenni copisti parigini, stanchi di tutto, quando li incontriamo la prima volta, nel torpore di una domenica d’estate in città? Sono due perfetti idioti o, come annotava lo stesso Flaubert, “hanno molti sentimenti ed embrioni di idee che faticano ad esprimere”? Difficile rispondere. Inutile rispondere. Quello che capiamo è, all’inizio, che entrambi sanno poco o nulla della cosiddetta realtà, vivono ritirati e insoddisfatti, si nutrono di abitudini e di opinioni poco approfondite. Pur differenti – Bouvard, basso e atticciato, è stato sposato e dà l’impressione di essere “un vecchio gaudente”, Pécuchet, filiforme e segaligno, è scapolo con tendenze mistiche – i due si scoprono felicemente dalla stessa parte. Odiano il mondo mediocre, piatto e frastornante che li circonda, non sopportano i ritmi dell’ufficio, né le masse cittadine, sognano una palingenesi a contatto con l’altrove, che pensano si trovi nelle pacificate atmosfere della campagna. Sono, a questo livello, perfettamente stupidi, l’incarnazione dell’idea ricevuta che la vera vita se ne stia da un’altra parte. Sono già quello che poi saremmo stati e siamo ancora quando popoliamo di esotismi impossibili i nostri sogni afosi.
Per farsi coraggio talvolta è necessario essere in due. L’incontro di Bouvard e Pécuchet è addirittura un colpo di fulmine. Da subito si sostengono reciprocamente, non smettono mai di parlare, scoprendosi simili e prendendo le distanze da tutto il resto. Si comportano come due innamorati. Desiderano solo stare l’uno con l’altro. Immaginano fughe. E il sogno diventa realtà grazie a una cospicua eredità di cui inaspettatamente beneficia Bouvard, che, insieme all’amico, dopo mesi di ricerche (“volevano una campagna che fosse proprio campagna”), procede all’acquisto di “un podere di diciotto ettari, con una sorta di castello e un orto molto redditizio” a Chavignolles, tra Caen e Falaise, nel Calvados.
Chiusi nella convinzione di andare a stare meglio, protetti dall’orto concluso della vita agreste, cercano di tradurre in realtà l’aspirazione alla serenità, coltivando la terra, acquisendo i ritmi pacati della campagna, liberi dalle ansie mediocri della contemporaneità. È il più macroscopico e contemporaneo dei luoghi comuni: la vita lenta e pacifica e pura della campagna. Ed è da qui che inizia tutto. Perché fare gli agricoltori non è facile, nemmeno dopo aver letto quei trattati che dovrebbero dare consigli utili. Così come non è semplice essere giardinieri originali. Sbagliare, ottenere il contrario – con un effetto da slapstick: Bouvard e Pécuchet archetipi di Laurel e Hardy? – è in fondo più facile che ottenere un risultato.
Flaubert fa vivere ai due personaggi ogni sorta di avventura che mette in gioco il loro corpo e la loro mente. Perché il problema è questo: di fronte ai fallimenti, Bouvard e Pécuchet cercano sempre una via d’uscita facendo altro, con un movimento che, come è stato detto, ricorda quello della spirale (e letterariamente rimanda agli insuccessi di don Chisciotte e Sancio Panza). Così, fallito il sogno voltairiano di “coltivare il proprio giardino”, si dedicano senza successo alla creazione di marmellate e di conserve alimentari. Il bisogno di capire, l’entusiasmo, l’ostinazione li conducono allo studio, inizialmente messo in disparte (non sono grandi lettori, i libri che hanno trovato a Chavignolles all’inizio possono rimanere chiusi negli armadi). Bouvard e Pécuchet affrontano sistematicamente tutti i rami del sapere. Senza capirci molto si dedicano alla chimica, quindi, annoiandosi, studiano anatomia, comprando un manichino “che non assomigliava affatto a un cadavere, ma a una specie di giocattolo, molto brutto a vedersi, pulitissimo, che odorava di vernice”. Arriva la volta della fisiologia. Fanno esperimenti sugli animali: iniettano del fosforo a un cane per vedere se getta fuoco dalle narici. Si sentono quasi medici, si permettono di prescrivere delle terapie. Se abbandonano il campo è perché “i meccanismi della vita ci sono ignoti, le affezioni troppo numerose, i rimedi problematici”. Dopo aver dedicato il loro tempo allo studio degli alimenti, che arrivano a considerare tutti pericolosi per la salute, si sentono attratti dall’astronomia, vorrebbero sapere come si è formato l’universo. Studiano gli animali attravero l’opera di Buffon, tentando “congiunzioni anormali”. Passano poi alla geologia, andando a caccia di fossili, cercando di soddisfare la loro curiosità sul Diluvio e poi sui massi erratici. Di fronte ai limiti evidenti di questa scienza, diventano archeologi, raccogliendo oggetti d’arte in tutto il Dipartimento. Lo studio del passato più lontano viene tralasciato per cercare di capire meglio gli anni della Rivoluzione. Ma “i due non avevano più sugli uomini e i fatti di quel periodo una sola idea che cadesse giusta”. La storia è piena di incertezze: quella “antica è oscura per mancanza di documenti. Quella moderna ne ha fin troppi”.
La letteratura, il romanzo storico in particolare, sembrerebbe offrire qualcosa in più. Leggono prima Walter Scott e, in seconda battuta, Alexandre Dumas, che li incanta “come una lanterna magica”. Ma la scoperta di alcuni loro svarioni, li spinge a leggere altro: passano ai romanzi umoristici, quindi alla tragedia, imparando a memoria i dialoghi più famosi di Racine e di Voltaire, e approdano infine alla commedia borghese. Talvolta sono i dubbi linguistici a incepparli. “Ne conclusero che la sintassi è un ghiribizzo e la grammatica è un’illusione”. Senza risultati, si interrogano su cosa sia il Bello.
Se la proclamazione della Repubblica nel mese di febbraio del 1848 diventa l’occasione per dedicarsi alla politica, ancora una volta con esiti grotteschi o deludenti, sono i fallimenti sul piano amoroso – Bouvard scopre che la signora Bordin di cui si ritiene innamorato aspira solo a mettere le mani sulla proprietà, mentre Pécuchet prende la sifilide dalla giovane e smaliziata cameriera Mélie – a spingerli verso la cura di sé. Siamo all’origine delle fallimentari sedute di ginnastica, dei goffi tentativi di evocare gli spiriti grazie ai tavolini semoventi, delle snervanti letture filosofiche, dell’approdo a uno sconsolato nichilismo e al tentativo di suicidio. L’ultimo atto, pur esso senza esiti, vede protagonista la pedagogia, col maldestro tentativo di educare, senza l’uso di metodi coercitivi, i due bambini difficili Victor e Victorine.
In ognuna di queste occasioni Bouvard e Pécuchet leggono, studiano, discutono. In tutte le circostanze, immancabilmente, falliscono. Nonostante spesso i due siano di opinioni opposte, il risultato è sempre tendente allo zero. Non solo. Il loro atteggiamento, le loro stravaganze, i loro tentativi di applicazione pratica di quanto studiato con la popolazione locale (si veda in tal senso l’analisi della superficie del cranio alla luce dei principi della frenologia), costruiscono attorno a loro un’aura di diffidenza. Qualcuno li considera pericolosi. Altri, come il medico Vaucorbeil, li ritiene tipi da manicomio. Insomma Bouvard e Pécuchet appaiono due imbecilli innocui, che, in effetti, non possono nuocere a nessuno.
Ma non è tutto. In effetti i due protagonisti sono anche i portavoce di Flaubert, scrittore quanto mai attento a non lasciar filtrare nulla di sé sulla pagina, come mette in evidenza l’uso sistematico del discorso indiretto libero. E allora? Quali sono le conseguenze? Facendo finire in frantumi qualsiasi disciplina, mostrando i limiti di ogni sapere cosa intende dirci lo scrittore? Che ogni attività umana – letteratura compresa, ovviamente – è destinata ad avere una portata limitata e non può essere accolta come la soluzione di tutti i problemi? O che l’assenza di metodo e il dilettantismo degli interpreti azzerano la portata di ogni sforzo intellettuale? Insomma la bêtise sta ovunque o sta nel modo di avvicinarci alle cose (e quindi esiste un modo per sfuggirle)?
Sappiamo che Flaubert aveva intenzione di aggiungere un secondo tomo al suo romanzo. Bouvard e Pécuchet, dopo aver raso al suolo ogni esperienza, avrebbero dovuto tornare a fare il loro mestiere, i copisti. Si fanno preparare una “scrivania a doppio leggio” e il materiale di cancelleria (“sandracca, raschietto”). Avrebbero lavorato insieme, fianco a fianco, raccogliendo tutto il copiabile, trascrivendo la summa dell’idiozia umana, ovunque sia apparsa. È quello che possiamo leggere nell’incomparabile Sciocchezzaio, vero bestiario della stupidità umana. Perché quanto alla fine Flaubert ci dice è che la bêtise, pur essendo ovunque, corre il rischio di dissolversi. Non dobbiamo dimenticare di essere fondamentalmente degli idioti. Tutti.