Come mettere in scena Voltaire / Candide, il gioco della rappresentazione

17 Marzo 2016

“Uno spettacolo è come una società ben organizzata, in cui ciascuno sacrifica parte dei propri diritti per il bene della collettività. Chi calcolerà nel modo più esatto la portata di questo sacrificio. L’entusiasta? Il fanatico? No, certo. Nella società sarà l’uomo giusto; a teatro l’attore che avrà la mente fredda.”

Diderot, Paradosso sull’attore

 

Contessa: Candide perché vi alzate dalla sedia? / Candide: C’è Cunegonde, devo parlarle, non ci vediamo da molti anni e tuttavia tu ancora… / Cunegonde (attrice): Signore, sono un’attrice. Non capisce le leggi del teatro? / Candide: Sarà pure un’attrice ma così simile a Cunegonde, se potessi baciarti…”

Un segreto, contagioso ottimismo si sprigiona dal Candide ispirato a Voltaire di Mark Ravenhill tradotto da Pieraldo Girotto che Fabrizio Arcuri ha portato in scena al Teatro Argentina di Roma e che dal 14 marzo è al Mercadante di Napoli. Un paradosso, se non un contrappasso, per uno spettacolo che è un manifesto contro l’ottimismo (con o senza la provvidenza leibniziana) e che si conclude con una donna che si infila una pistola in bocca. Ma è un paradosso (o forse un contrappasso) squisitamente teatrale ed è tutto contenuto nel primo quadro dello spettacolo, quando il settecentesco Candide, messo di fronte a una recita sulla propria vita, ignaro delle leggi della scena, non può fare a meno di alzarsi e di intervenire, scambiando, come dicono i francesi, la preda per l’ombra, il simile per lo stesso.

 

Mazza e Nigro, foto Achille Le Pera.

 

Di questo imprinting giocato in farsa e costumi d’epoca ai piedi di una scala bianca che rappresenta un palcoscenico, lo spettatore non si libera mai del tutto: la sua sovrimpressione continua a velare i quadri successivi, grazie e malgrado gli attraversamenti di tempo e di genere che strutturano lo spettacolo. Per Ravenhill il personaggio di Voltaire appare e scompare, si dilegua e riaffiora come una soluzione di contrasto: lo perdiamo in un albergo dell’Europa contemporanea dove un’adolescente massacra l’intera famiglia (a riprova che no, l’immaginario liberalcapitalista che la ragazza ha avuto in eredità non è il “migliore dei mondi possibili”, ma soltanto l’unico esistente), poi negli studi televisivi dove quella stessa strage viene ricostruita e manipolata fino a diventare irriconoscibile. Ma ecco che, nel quarto quadro, lo ritroviamo ancora in viaggio, mentre approda in un edenico Eldorado che ha l’innocenza e l’ottusità dello stato di natura teorizzato da Jean Jacques Rousseau (il suo Discorso sull’ineguaglianza è del 1755, Candide del 1759).

Un piccolo passo e dall’utopia d’antan, leggera parodia che Arcuri riversa in una fiaba musicale, si precipita nell’algida distopia di un futuro non troppo lontano da noi: Candide è vivo, anzi l’ibernazione gli ha permesso di rimanere eternamente giovane. E, come nel romanzo di Voltaire, si scopre che anche Pangloss, il suo precettore, è sopravvissuto: ora è a capo di una multinazionale farmaceutica che spaccia l’ottimismo come un elisir alla portata di tutte le tasche. Ravenhill, in altre parole, usa l’apologo volterriano per innescare un processo di degradazione dell’ideologia occidentale che dal Settecento arriva fino a noi senza più la metafisica di Leibniz: è la forza e insieme la debolezza di questa commedia che non è la migliore (ma neanche la peggiore) di un autore che esercita la sua famosa rabbia anche buttando via le proprie intuizioni in feroci quanto noncuranti raptus di scrittura. La forza di non mandarlo a dire, che pone la sua critica dell’esistente ai piani alti di quel che oggi resta di pensiero negativo, e la debolezza di dirlo troppo e con troppa insistenza.

 

foto Achille Le Pera.

 

Arcuri asseconda il testo, ma trattiene il processo sulla soglia di ogni metamorfosi, creando immagini che sdoppiandosi mantengono il prima nel dopo e in tal modo risparmiano alla pièce l’inglorioso naufragio nel dramma a tesi. Lo fa, questa è la sorpresa, mobilitando il Settecento, non solo quello di Voltaire, ma quello di Diderot e del suo Paradosso sull’attore. Passando da un quadro all’altro attraverso il succedersi delle splendide scene di Andrea Simonetti – splendide perché la loro funzionalità drammaturgica fa tutt’uno con la loro sobria bellezza – è la continuità della dissimulazione onesta sotto le spoglie cangianti di un immaginario realistico ciò che maggiormente lascia il segno. Eterno non è il mito, come Candide potrebbe essere facilmente interpretato – Candide o l’ottimismo: un mito moderno che si sgretola in twitter, in slogan e in formule da manualetto di sopravvivenza biopolitica – ma il gioco che fin dall’inizio trascina in scena, come davanti a un tribunale, la sua unica possibile, verità: quella della rappresentazione.

 

Ora sul palco del Candide di Arcuri questo gioco non si interrompe mai, riprende e prosegue da ogni cambio scena, ed è un gioco di immagini tra specchi dove ogni nuova identità è inseparabile da quella precedente. Cunegonde è l’attrice, la giovane, acerba attrice che nel prologo interpreta Cunegonde, e Federica Zacchia sembra appena uscita dal romanzo di Voltaire: “fresca, grassottella, appetitosa”, come la descrive il primo capitolo del Candide, questa nota di frivolezza la mantiene inalterata persino quando, nel quadro successivo, entra nei panni di Sophie, un’adolescente imbronciata che, durante una festa di compleanno, elimina la propria famiglia a ritmi cakewalk, con una progressione splatter tipica della musica a programma dei testi di Ravenhill – dove quando si comincia a sparare o a torturare non la si finisce più – e in genere di un teatro britannico che, per dirla con Edward Bond, “parla di violenza con la stessa naturalezza con cui Jane Austen parlava di buone maniere”. Ma anche, se ci si pensa bene, tipica della frugalità con cui lo stesso Voltaire accumula eventi e dettagli raccapriccianti lungo la strada del suo “racconto filosofico”.

 

foto Achille Le Pera.

foto Achille Le Pera.

 

Candide è una trasmigrazione di anime attoriali che in ogni loro avatar lucidano meglio lo specchio che avevano mostrato all’inizio, perché più che un personaggio, portano avanti una partitura. Ma, nella modulazione, è la nota trattenuta a rivelarli: Francesca Mazza passa dalle vesti ampie e sfarzose di una contessa innamorata alle fattezze sgualcite di una madre alcolizzata, per poi tornare, madre e contessa, nel finale, dove chiunque la veda, o la senta mentre dalla platea alza la voce per contrastare l’ottimismo eugenetico di Pangloss (“un gene… gli individui che pensano diversamente stanno per essere spazzati via”) sa perfettamente chi è. È la coincidenza, felice e dolente, tra la sua straordinaria, carismatica presenza scenica e un’idea (già: un’idea incarnata e dunque irripetibile), quel grumo tragico scorticato dall’ironia senza il quale il Candide non sarebbe quel capolavoro di rettitudine davanti alla sofferenza degli uomini che invece è. Come il Candide di Filippo Nigro, che rompe il calco dell’innocenza a forza di viaggi, di resurrezioni, di voli, si direbbe che anche lei, nel suo ormai “storico” contrappunto drammatico al registro post-drammatico del teatro di Arcuri, vada verso se stessa – ma quel che la attende alla fine del cammino non è un “sì”, bensì un poderoso “no”, il principio, diceva Camus, di ogni rivolta.

Al lato opposto, c’è l’esodo di Lucia Mascino, inafferrabile nella sua ammirevole gamma di toni e di maschere, ubiqua e irriconoscibile, un trickster che imprime il proprio tocco su tutto ciò che nella pièce di Ravenhill è petulanza, servilismo e complicità con il potere: dall’autore cicisbeo del primo quadro all’infermiera-imbonitrice in giacca di paillettes dell’ultimo, passando per una esemplare figura di “terapeuta narrativa” che è una delle invenzioni più riuscite dell’invettiva dell’autore inglese contro la tecnocrazia dell’ottimismo. Un incisivo Francesco Villano soffia energia a pieni polmoni nelle metamorfosi del suo Pangloss, disegnando la parabola di un miserabile self-made man della retorica: ieri filosofo nella migliore delle province possibili e mendicante impestato a Lisbona, oggi scienziato che impartisce eucarestie di felicità globale (la “metafisico-teologo-cosmoscemologia” ne ha fatta di strada). Matteo Angius diverte e si diverte, arlecchineggia e si prende in giro nel ruolo dell’attore che interpreta Candide, è insuperabilmente irritante in quello di Ben, il ragazzo incappucciato che accompagna la strage del secondo quadro con le sue rime rap (irritante a tal punto che quando la sorella gli spara, a uno spettatore dei palchetti scappa un “finalmente!” pieno di sollievo morale), quasi incantato nell’Eldorado musicale dove, pensando l’unicità dell’individuo, si scopre suo malgrado filosofo. E così è di tutti gli altri, di Francesca Zerilli, di Domenico Florio, di Lorenzo Frediani, di Giuseppe Scoditti, del cameo di Luciano Virgilio, ottimi e affiatati animatori di una vorticosa ronde che il violino elettrico e la possente voce farinelliana di H.e.r avvolgono in un sound fatalmente privo di un’epoca.

 

foto Achille Le Pera.

 

Il pubblico che fiabescamente si estasia alzando gli occhi verso Filippo Nigro che a cavallo di una pecora si libra sopra Eldorado (“Arrivederci voi semplici, buone, perfette, ottuse persone”) è lo stesso che, con insospettabile cattiveria, ha scandito con un ghigno ogni colpo di pistola di Sophie. Lo stesso che nell’epilogo, vedendo riapparire la fresca Cunegonde sotto la maschera di una decrepitezza orribile (che Arcuri ha avvolto in una bandiera europea), non frena la risata quando, alla domanda “ma quale causa in questo mondo che è il migliore dei mondi possibili, ha potuto portare a una tale conseguenza”, l’incartapecorita vieille fille risponde seccamente: “la vita”.

Siamo in piena catarsi, ma la risata che, diceva Diderot, ci libera del seccatore che ci assilla quando lo vediamo imitato in scena, qui è pronta per noi, per chi ride lanciando un’occhiata obliqua al proprio porta-pillole. Il rischio (demoniaco) è che, dopo tutti i fallimenti della nostra pulsione all’immortalità evocati da Ravenhill, sia il teatro stesso a prendere il posto del “migliore dei mondi possibili”. Idea per altro non lontana dalla poetica di Fabrizio Arcuri, che sotto il suo habitus da artigiano della scena nasconde un animus da fondamentalista della rappresentazione. Nel 2008, il regista romano voleva segregare il pubblico in una giornata completamente tatuata dallo spettacolo; One day, che non venne mai realizzato, aveva un sottotitolo eloquente: “vivere finalmente servirà a qualcosa”. Convinto che la vita si presenti ormai in forme già spettacolarizzate, ma che il teatro sia il suo unico possibile tribunale critico, di One Day Arcuri ha abbandonato il formato, ma mantenuto il programma.

 

foto Achille Le Pera.

 

Le vera differenza di quest’ultimo rispetto ad altri suoi spettacoli recenti – ivi compresa la messinscena del testo di Carnevali Home Sweet Europa – è di una semplicità quasi disarmante: nel Candide c’è un visibile principio di piacere che dal processo si comunica al risultato, dal regista va agli attori e da questi ultimi si riversa sul pubblico, un flusso di vitalità che in parte ricorda quella, tetanica, che animava Attentati alla vita di lei di Martin Crimp. E che il piacere sia quello diderottiano costruito dalla mente (dal metodo, dal dispositivo, dalla distanza) poco importa. Sì, uno spettacolo è “come una società ben organizzata”. Ma il Candide di Arcuri è qualcosa in più: è la follia che sposa l’ordine per godere più a fondo della sua disfatta.

 

Candide di Mark Ravenhill

ispirato a Voltaire

traduzione Pieraldo Girotto

regia Fabrizio Arcuri

con Filippo Nigro, Lucia Mascino, Francesca Mazza, Francesco Villano, Matteo Angius, Federica Zacchia, Francesca Zerilli, Domenico Florio, Lorenzo Frediani, Giuseppe Scoditti,

e la partecipazione straordinaria di Luciano Virgilio

musiche composte arrangiate ed eseguite dal vivo da H.e.r

una produzione del Teatro di Roma in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina

Candide di Mark Ravenhill è pubblicato dalle edizioni Titivillus

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