Speciale

Chi ricorda la fatina muta?

20 Novembre 2022

Nothing will come of nothing 
(Shakespeare, King Lear)

Ricordo che, in prima elementare, sui muri della classe, erano appese alcune tavole di cartoncino bianco, simili a quelle di un test proiettivo, come le macchie di Rorschach. In ognuna di queste tavole c’era un’immagine. Rivedo con nitidezza il dado che rappresenta la letterina D dell’alfabeto. Ma, tra le altre, ricordo anche una strana tavola, inquietante, o, come direbbe uno psicoanalista, perturbante: la fatina muta, che rappresenta un fonema afono, la lettera H della lingua italiana. Esiste tra le ventuno, come ottava lettera dell’alfabeto, ma non si pronuncia. Pensare alla negazione mi riporta a questa immagine, a interrogare, quindi, il linguaggio e il suo rapporto con quel che gli sta fuori: il corpo, l’immaginario e il niente.

La fatina muta potrà servire al lettore per cogliere intuitivamente la realtà complessa di questo strano fenomeno: quello di un suono assente. Aspetto relativo alla negazione che silenziosamente si mostra durante l’apprendimento della lingua materna. 

Nel 2007 è stata pubblicata per Quodlibet la traduzione di un testo di Daniel Heller-Roazen, Ecolalie: l’autore, in questo volume ci parla in modo completo di tutti quei fenomeni linguistici che somigliano alla fatina muta. Il processo infantile di apprendimento della lingua è inevitabilmente una perdita, la caduta di un’enorme quantità di fonemi dallo spazio cognitivo dell’infante. Così esordisce Heller-Roazen: “I suoni prodotti dal bambino nelle onomatopee rappresenterebbero forse gli ultimi scampoli di un balbettio altrimenti dimenticato, o non sarebbero piuttosto i segni di una lingua di là da venire?”

In prima elementare, quando non sentiamo la presenza evidente della fatina muta, cosa stiamo perdendo? Da un caotico sistema di rumori, suoni, versi e fonemi, che la voce può emettere, per apprendere la lingua materna bisogna eliminarne alcuni. Mentre si crea un ordine linguistico, dunque, si riducono drasticamente le potenzialità fonetiche del soggetto. Questo è apprendere. 

Il termine “ecolalie”, usato da Heller-Roazen, si riferisce al suo maestro Roman Jakobson, autore di Linguaggio infantile, afasia ed universali fonologici, apparso nel 1971 per Einaudi in Il farsi e il disfarsi del linguaggio. Linguaggio infantile e afasia

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Il paradosso della negazione linguistica è che, quando si perdono le competenze linguistiche di base, emergono le ecolalie, suoni inusitati. Quei fonemi che avevamo perduto durante l’apprendimento della lingua materna riemergono, senza significato, assieme a uno strano modo di gesticolare. Heller-Roazen conclude che la lingua madre non basta a se stessa: “È qui che la lingua, gesticolando oltre se stessa in un discorso che non può dirsi tale, si apre a una non-lingua che la precede e la segue”. 

Queste ricerche insistono sulla relazione tra il corpo e il linguaggio, come se, questi due fenomeni dell’esistenza, corpo e linguaggio, non fossero due, ma uno solo: tra corpo e linguaggio vi è reciproca immanenza, ce lo insegnano i corpi teneri dei neonati e dei feriti, che gridano, lamentano, gioiscono e non si lasciano comprendere nel loro dirci, con espressione. Qualcosa che per l’altro rimane oscuro.

Che cosa accade durante la prima infanzia e nella patologia? Suoni strani, inusitati, vengono emessi dell’infante e, nella patologia, recuperati.  

Nel linguaggio psicopatologico viene imposta una distinzione tra ecolalia e glossolalia. Per ecolalia si intende, di norma, una ripetizione senza senso di alcune frasi o parole, udite dal paziente; con glossolalia invece ci si riferisce a una sorta di nuovo linguaggio idiosincrasico inventato dal paziente. Nel caso ecolalico si parla di afasia, un danno al sistema nervoso; la glossolalia invece riguarda la follia, ma anche l’esperienza religiosa pentecostale, o i canti delle donne durante i funerali. In entrambi i casi però la questione riguarda la produzione di rumori, suoni, versi, grida che evocano fonemi negati al discorso, cioè alla lingua ufficiale del parlante. Ma anche esperienze del corpo; le tarantate di Galatina, studiate da Ernesto De Martino, per esempio, producono glossolalie e movimenti eco-gestuali, simili a quelli delle bambine quando l’adulto le rimprovera di stare “composte”. 

Le ecolalie perdute durante l’apprendimento della lingua materna riemergono nei fenomeni afasici conseguenti ai danni focali di un’ischemia o di una violenta contusione alla testa oppure, nelle glossolalie, di un paziente schizofrenico, quale fu Antonin Artaud, che ne ricavò forme poetiche, o non schizofrenico, quale fu James Joyce in Finnegans Wake

Negli anni Sessanta, presso le scuole elementari si insegnava l’alfabeto a partire da un rapporto biunivoco tra il segno e la pronuncia. In quel contesto, tutto funziona bene fin quando ci si trova di fronte alla “fatina muta”. 

L’infante alle prese con la parola scritta si chiede che senso ha una lettera che non si emette, una funzione che serve solo a rendere dure un paio di consonanti gutturali. Il testo di Heller-Roazen indaga questo fenomeno sul piano ontogenetico, nei primi due capitoli – quando scrive intorno alla crescita/perdita infantile – e filogenetico, quando parla, con grande competenza, della creazione storico sociale delle lingue. Le lingue sono tali perché esiste un’indefinita quantità di suoni che vengono negati. Un po’ come nella Biblioteca di Babele raccontata da Jorge Luis Borges. 

Esiste un modo per ricreare quel tempo perduto? Forse sì, ma bisogna cambiare epistemologia.

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