Archeologia della mente / Comanda la paura

25 Luglio 2016

Trasformati dall’urto della storia, arranchiamo atterriti dalla paura. Ne abbiamo di motivi per avere paura, ne abbiamo tanti e ne abbiamo sempre avuti. Tanto è vero che con l’evoluzione abbiamo selezionato riguardo alla paura una delle principali aree delle nostre emozioni di base. D’altra parte sono gli emotivi che interagiscono col mondo, che sono sensibili. Sentire o provare, come si dice, le emozioni rende noi stessi strumenti, nel senso che cambiamo, costruiamo, nascondiamo, intensifichiamo direttamente le emozioni.

 

L’antropologo William M. Reddy ha intuito, in accordo con i risultati delle più recenti scoperte su come siamo fatti e come funzionano le nostre emozioni, che c’è una dimensione interiore nelle emozioni che non è del tutto e semplicemente rappresentata da dichiarazioni o azioni. Siamo di fronte al necessario fallimento di ogni sforzo di rappresentare un sentimento che dovrebbe coincidere con la nostra adattabilità. Insomma le emozioni non sono semplicemente resoconti di stati interiori. Un’emozione come la paura, fondamentale per la nostra sopravvivenza e la nostra storia evolutiva, non è solo un carattere di individui e gruppi sociali, ma media tra ognuno di noi e la società in cui viviamo. È proprio quel ruolo di mediazione che va in crisi in questi mesi. Mediare vuol dire in buona misura tradurre e noi non ce la facciamo più a contenere l’esigenza di tradurre quello che ci accade intorno in qualcosa di comprensibile.

 

Altan, qualche giorno fa sulle pagine di la Repubblica, ha consegnato a un suo personaggio il nostro sentimento del tempo; con le braccia conserte dice: “Ora basta”. Ma non è un’affermazione indignata o una presa di posizione. No. È una supplica. Come a dire: non ce la facciamo più.

 

Ecco: le emozioni mediano i confini tra lo spazio corporeo e lo spazio sociale. È come se il corporeo non ce la facesse più a contenere quello che il sociale gli propone giorno per giorno. Qualche anno fa, era il 2007, Joanna Bourke aveva scritto che, “dopotutto, la paura è un’emozione estremamente democratica, che colpisce chiunque contempli il rischio di morire” (Paura. Una storia culturale, Laterza, Roma-Bari 2007).

 

Rothko

 

Tutto pare sia cominciato quando noi esseri umani abbiamo scoperto il tempo. E col tempo abbiamo scoperto la finitudine. La nostra finitudine. Da allora noi esseri occidentali, noi esseri al tramonto, ci siamo accorti che le nostre vite sono interamente irradiate d’alba e tramonto, che si distendono fino a coprire tutta l’estensione della luce diurna: i dispositivi e i loro nomi. Il tempo è diventato la cosa indicibile, imprendibile, ineffabile: la più strana di tutte, la più inspiegabile, quella che illumina tutte le altre senza poter essere mai vista; cosa gratuita, indisponibile, irreparabile: il tempo. La nostra condizione è divenuta, così, per molti aspetti insalvabile. Da quel momento la paura è diventata nostra sodale e per salvarci abbiamo dovuto inventare istanze salvifiche, appunto, a cui consegnare la nostra angoscia della finitudine. Abbiamo iniziato a farlo in molti modi, sfruttando la nostra capacità immaginativa e inventiva, spinta verso l’oltre, verso l’aldilà con molteplici vie e forme, ma tutte accomunate dal rinvio, dal rinviare a qualcosa o a qualcuno il compito di aiutarci a risolvere le nostre angosce. Da allora nulla è più stato lo stesso, nessuna cosa è più stata la cosa in sé e noi non abbiamo mai più coinciso con noi stessi. Avremmo dovuto poter accedere al tempo dominandolo e invece, scoprendolo, ci siamo accorti di esserne dominati. Ci siamo accorti della nostra finitudine scoprendo che ogni inizio ha ineluttabilmente una fine; scoprendo, in sostanza, la pura della morte.

 

Non è che prima non morissimo, ma una cosa è morire, altra cosa e sapere di morire; altra cosa ancora è sapere di morire pur essendo capaci di concepire l’infinito e la non finitudine. Il mistero della nascita, pur impegnativo, non è privo di paura e travaglio ma non ha la stessa portata del mistero della morte. Il primo, per quanto inspiegabile, certo non sul piano scientifico, ha a che fare con l’inizio. Il secondo, pur spiegato scientificamente, riduce al silenzio e atterrisce con la sua ineluttabilità, anche perché ha a che fare con la fine di tutto per chi muore. La tensione rinviante ad altro rispetto al mondo fisico di cui siamo parte, quella tensione rinviante che ci caratterizza e di cui siamo capaci, quella tensione che è anche alla base della nostra autoelevazione semantica, che ci fa sentire di sentire, che ci rende capaci di creare l’arte che ci commuove o ci fa vivere il mondo come un progetto e un’invenzione, che fa di noi gli esseri che non solo sanno ma sanno di sapere, che ci rende in grado di generare la scienza e la tecnologia; quella tensione rinviante è anche alla base della creazione e dell’invenzione di universi separati – sacro viene dal latino sacer che vuol dire separato – a cui consegnare i tentativi e le speranze di elaborazione e soluzione delle nostre angosce dell’ignoto e della morte. Quel mondo a parte, relegato, quel contesto della nostra disposizione alla religio, è stato da noi proiettato oltre il mondo fisico perché da lì ci potessimo guardare e confortare difendendoci dalla paura, nella ricerca di risposte a domande di cui siamo capaci e che risposte non hanno, per le quali non troviamo nel mondo di qui le risposte. Il sacro è per molti aspetti l’invenzione di un altro mondo, separato da questo mondo di cui siamo parte.

 

Non vi è traccia di esseri umani, da quando ci siamo accorti del tempo e di noi, da circa duecentomila anni, che non abbiano inventato una qualche forma di sacro. Uno degli effetti di quella sistematica e reiterata invenzione è stata ed è la separazione di noi umani dal resto della natura di cui siamo parte. Una separazione con la quale ci siamo curiosamente collocati al di sopra della terra e aspiranti al cielo. Una curiosa terapia della paura: un tentativo di affrontare un’ansia primaria travolgente che poi genera ansie secondarie di ogni tipo. Sospesi a metà strada tra la finitudine angosciante a cui siamo comunque attaccati e l’eternità a cui ci affidiamo, abbiamo desacralizzato la natura di cui siamo parte, l’abbiamo progressivamente dissacrata con comportamenti sempre più esecrabili e ci siamo consacrati a un mondo di là da venire. Oggi ci accorgiamo di aver iniziato a segare il ramo su cui siamo seduti e da non poco tempo dubitiamo dell’appiglio a cui abbiamo a lungo pensato di poterci aggrappare per non cadere. Ritornare a noi senza appigli ci rende soli, troppo soli nel nostro individualismo narcisistico. Siamo finiti nel tempo del culto dell’io e da un lato il narcisismo individualistico ci rende cercatori di gloria fino agli atti estremi pur di renderci visibili, dall’altro ci sentiamo troppo piccoli per contenere la paura che ci viene da tutto il mondo, prima ancora che imparassimo a tenere quella che ci veniva dal nostro villaggio. La rete è una terribile amplificatrice di paura per esseri che sono ancora impegnati ad elaborare la pura del vicino. Il solito, incontenibile scarto tra tecnica e valori.

 

Accanto al culto narcisistico del corpo e di se stessi, nel nostro tempo non solo il sacro mostra di non riuscire a salvarci dalla paura ma si afferma l’uso politico e distruttivo del sacro. Sono soprattutto i monoteismi alla base di questa deriva. Con i politeismi le cose vanno in modo diverso. Questo non significa che in quei casi non ci sia la guerra, ma i politeismi risultano più traducibili, consentono più possibilità di approssimazione e di mediazione. Il monoteismo comporta una radicalizzazione con conseguenti processi di negazione, esclusione e offesa. La realtà è come noi la pensiamo e le religioni possono diventare strumento politico radicalizzante, come sta accadendo in buona misura oggi.

 

Viviamo oggi, nella maggior parte dei casi, una solitudine pervasiva che Emanuela Fellin ha definito: “solitudine sacralizzata”. Ci è venuta a mancare la dimensione del tempo. Tutto viene bruciato in pochi secondi. Se pensiamo alla fotografia, come ha detto Uliano Lucas, ci sono fotografie che sono divenute icona di un tempo. Oggi in rete, sui siti dell’informazione, una fotografia rimane per pochi secondi. Viviamo in un eterno presente. Per essere comunità c’è bisogno di tempo. Diventiamo invece sempre più egocentrati con poca capacità di relazione. Questa dilatazione del presente genera uno scarso senso del passato e poca capacità di pensare il futuro. Il sacro si riduce al culto dell’io.

 

Paure interne ed esterne ci attanagliano, ma anche orizzontali, nella contingenza del tempo presente, e verticali, derivanti dal tempo profondo da cui proveniamo, che ci finisce addosso con la conoscenza e con la portata meravigliosa e inquietante della sua evidenza. Allora ci sentiamo piccoli e gli equilibri dei nostri sistemi emotivo-motivazionali mostrano di traballare. La paura, insieme alla curiosità ci può prendere anche visitando una mostra.

 

 

Ci si sente piccoli, ma proprio piccoli, dopo aver visitato la mostra Estinzioni al Muse, Museo delle scienze di Trento. Magari quel sentimento fosse capace di lavorare in noi. Magari ci inducesse a riflettere su quello che la nostra specie sta facendo per concorrere a causare la crisi ecologica che stiamo vivendo. Ci si sente piccoli nella lunga durata del tempo profondo, ma anche di fronte agli eventi catastrofici a cui sono associate le sei estinzioni che la mostra documenta. Eventi più grandi di noi che hanno causato alterazioni dell’atmosfera, rapidi cambiamenti climatici e stress ecologici. Dalla probabile collisione di un meteorite di dieci chilometri di diametro con la Terra alla velocità di quaranta chilometri al secondo, di cui c’è traccia in un cratere dello Yucatan, e che sembra alla base della quinta estinzione, quella più nota, che provocò la fine dei dinosauri, alla terza estinzione, quella del Permiano-Triassico in cui scomparvero circa il novantasei per cento delle specie animali marine e il settantacinque per cento dei vertebrati terrestri, passando per la prima, la seconda e la quarta, la mostra documenta la bellezza e la fragilità della vita sul pianeta che ci ospita. Ma la più intensa esperienza di sentirsi piccoli la facciamo proprio di fronte alla sesta estinzione, quella in corso, e alle situazioni che derivano e sono causate in buona misura dal nostro sentirci grandi, troppo grandi e superiori, come esseri umani. Proprio quella presunta grandezza, infatti, nell’era che definiamo Antropocene, quella attuale, caratterizzata dal pervasivo dominio della nostra specie sul pianeta Terra, ci fa sentire piccoli per il modo in cui irresponsabilmente incidiamo sugli equilibri terrestri e stiamo mettendo a rischio la nostra stessa sopravvivenza. Riusciremo a utilizzare la nostra distinzione di specie per trovare le vie di una coevoluzione appropriata col sistema vivente di cui siamo parte? Questa è la domanda che ci si porta con sé nel corso della visita alla mostra. Il progetto espositivo nasce da un importante lavoro di ricerca e selezione dei più significativi reperti originali di vertebrati estinti provenienti da molti musei: dallo scheletro di un grande dinosauro che accoglie il pubblico all’ingresso del Muse, al celebre cranio di Homo neanderthalensis “Guattari I”, il meglio preservato nel nostro paese. Il percorso interattivo e multimediale della mostra consente di conoscere aspetti originali e di fare approfondimenti particolarmente importanti, fino a sostenere la possibilità di mettere in relazione la paleoantropologia con gli studi sul comportamento umano e con l’economia, per evidenziare i rischi e i pericoli con cui dobbiamo fare i conti, osservando anche le affinità tra i grandi eventi del passato e l’epoca che stiamo vivendo. Emerge così che il vincolo catastrofico delle estinzioni sta nella scomparsa delle specie. Quello della sesta estinzione, in particolare, riguarda il fatto che coinvolge oggi anche molte specie carismatiche che abbiamo conosciuto nel corso delle nostre vite. Certo, un’estinzione ha liberato anche opportunità per le specie che non si estinguono. Non si tratta di essere catastrofisti, ma di ricordare che dopo le grandi estinzioni la vita si è ripresa. I momenti di crisi coincidono con grandi opportunità. Gli organismi che sono sopravvissuti si sono trovati in un mondo nuovo, diverso, in cui i loro adattamenti, le loro evoluzioni adattative sono tornati utili. Oggi la responsabilità di una nuova estinzione dipende largamente da noi, dalla nostra specie e dai nostri comportamenti. E ritorna la paura di non farcela. L’attenzione della mostra si rivolge anche all’evoluzione linguistica e culturale e consente di osservare non solo il valore della biodiversità, ma anche quello delle diversità linguistiche, mettendo in evidenza lo straordinario patrimonio che le differenze che generano differenze costituisce per noi e per tutto il sistema vivente, essendo probabilmente uno dei principali tratti distintivi e caratterizzanti della vita stessa.

 

Può quell’uomo che siamo e che si sente piccolo di fronte alle estinzioni di massa fare qualcosa per contrastare la sesta estinzione? Con questa domanda si esce dalla mostra e si riconosce quale può essere il grande valore di un museo che ci permette di misurarci concretamente con una delle questioni più rilevanti, forse la più importante, con cui oggi la nostra specie deve fare i conti. La sensazione è che possiamo fare molto ma bisogna rimboccarsi le maniche e prendere sul serio le questioni che la mostra solleva, traducendole in azioni, scelte e comportamenti concreti. Accanto a questa sensazione sentiamo la pura di non farcela, piccoli come siamo, ma anche pervasivi e distruttivi.

 

Allora emerge quello che forse è il principale effetto problematico e angosciante della paura: il fatto che quell’area delle emozioni di base che ad essa si riconduce attacca in modo frontale e profondo un’altra area emozionale che ci caratterizza e distingue, il sistema emozionale della ricerca, come lo chiama il neuro scienziato Jaak Panksepp in Archeologia della mente pubblicato da Raffaello Cortina Editore. Quel sistema emozionale della ricerca è necessario alla sopravvivenza e lo avvertiamo particolarmente a rischio quando la paura si fa vicina perché è il nostro simile la sua principale fonte.

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