Com’è che siamo arrivati a questo punto?

17 Dicembre 2014

Ci si chiede spesso in una coppia: chissà costa starà pensando, chissà cosa sta passando nella sua testa? Chissà se la verità dei suoi pensieri coincide davvero con questa apparenza quotidiana pacificante? Insomma: chi è davvero la persona che ho accanto? Perché la rassicurazione di un patto d’amore, fosse anche un matrimonio, non riuscirà mai a eliminare quel dubbio che nasce dal fatto che il proprio partner è inevitabilmente altro da sé. E in quanto tale mai completamente conoscibile.

 

Inizia così Gone Girl, con una sequenza fulminante in cui Nick Dunne (Ben Affleck) accarezza dolcemente i capelli della moglie Amy (Rosamund Pike) e dice «quando penso a mia moglie, mi immagino di aprirle il suo bel cranio e di sfilarle fuori il cervello per provare ad avere delle risposte: che cosa stai pensando? Che cosa provi? Com’è che siamo arrivati a questo punto?» Ed è proprio in questo salto di registro, dove l’amore si sovrappone a immagini di violenza, che inizia a percepirsi il filo di inquietudine che attraversa tutto il film. È un aspetto sul quale la psicoanalisi ha sempre insistito: è nel punto di massima intimità che si trova l’abisso dell’aggressività, dove l’amore può diventare impercettibilmente e inesorabilmente indistinguibile dall’odio. E anche in Gone Girl i due piani finiranno per essere intrecciati.

 

 

A un regista teorico come Fincher, in realtà, non è il contenuto patologico del rapporto di coppia a interessare, ma la sua forma. Non si vede il deteriorarsi della quotidianità, l’amore affievolirsi fino a svanire, la litigiosità prendere il posto della complicità, come in Bergman o Cassavetes. Si vede invece, nella forma di un thriller, un caso da risolvere, non tanto quello apparente di una persona scomparsa ma quello che riguarda la violenza implicita dei rapporti tra uomini e donne. E una domanda che inquieta: perché si finisce per odiare l’uomo o la donna che si amava, arrivando a addirittura a desiderarne la morte?

 

Gone Girl adatta il best-seller del 2012 di Gillian Flynn, che è anche sceneggiatrice unica del film. Si tratta di un libro che racconta le vicende di una giovane coppia, Nick e Amy che dopo essere stati entrambi licenziati dal loro lavoro di giornalisti a New York decidono di trasferirsi a North Carthage, immaginario paesino del Missouri. In questa middle America della crisi, fatta di fabbriche chiuse e homeless, risiede la famiglia di lui e Nick si reinventa gestore di un piccolo dive bar di provincia insieme alla sorella. Il decadimento di status sociale, la lontananza della metropoli gettano la coppia in una crisi profonda fino a che, nel giorno del loro quinto anniversario di matrimonio, Amy scompare in circostanze misteriose. Quando la polizia giunge sul posto trova i segni di un’effrazione e di un possibile rapimento, ma i conti non tornano fin da subito, perché il tutto pare – molto fincherianamente – più una messa in scena che un vero e proprio crimine. E quando il carrozzone mediatico arriva in città, anche la posizione di Nick pare compromettersi: troppi gli elementi che dirigono i sospetti verso di lui, con la coppia che pareva sull’orlo del divorzio e lui che aveva persino stipulato una assicurazione sulla vita per la moglie pochi giorni prima…

 

 

Tuttavia non bisogna farsi ingannare dalla superficie della forma thriller, perché Fincher la usa in un modo originale e fuori dalla tradizione. Il thriller, con suoi movimenti di nascondimento e svelamento, inganno e risoluzione, viene portato alle estreme conseguenze filosofiche e al tempo stesso capovolto di senso. Tutto nel cinema di Fincher gronda falsità; tutto è pieno di doppi fondi, inganni, trappole, proprio come nella sequenza dell’effrazione, in cui il crimine non è una messa in scena da risolvere ma è la messa in scena stessa. La rappresentazione non è insomma lì per essere svelata, ma perché è un messaggio cifrato nei confronti di qualcuno. È una rappresentazione che sa di essere una rappresentazione.

 

Fincher l’aveva già detto con Social Network: i media di oggi non parlano più il linguaggio della generalità pubblica, sono diventati intimi, particolari, sembra ci parlino direttamente. Quando Nick-Ben Affleck partecipa a uno show televisivo per confessare alcuni elementi della vicenda, non vuole parlare alla nazione, vuole parlare con (e ingannare) una persona in particolare che lo segue da casa; così come quando l’ex di Amy, Desi Collings (Neil Patrick Harris), decide di ospitare Amy durante la sua scomparsa, la frase «ci sono telecamere che ti registrano 24 ore su 24, devi sentirti al sicuro» non può che suonare come una minaccia diretta a lei. Senza contare i selfie o le tracce digitali delle carta di credito usate come trappole o depistaggi. Le rappresentazioni, i maquillage, le cacce al tesoro della vicenda sono palesemente false: eppure non attendono di essere svelate per far emergere la verità, come in un vero thriller, ma si mostrano apertamente nella loro artificiosità e falsità perché qualcuno le veda come false e artificiose. Le rappresentazioni sono lì per essere guardate da qualcuno, e in questo Gone Girl dimostra di saper mostrare benissimo l’atmosfera paranoica del mondo ai tempi del web 2.0. Tutto diventa un segno e una minaccia proprio perché è una rappresentazione falsa (e dunque, chi mi sta ingannando?).

 

 

Esattamente come in Social Network, ancora, anche con Gone Girl il cinema di Fincher oscilla tra due polarità. Da un lato c’è la critica del presente, la certezza che le cose abbiano perso la loro realtà, che siano solo apparenza, e dunque che qualcosa di autentico sia andato perso (è il segno del Fincher «umanista», il regista di un mondo gelido, asettico, con le musiche di Trent Reznor e Atticus Ross indistinguibili da un fastidioso rumore di fondo); dall’altro c’è un passaggio ulteriore che fa di Gone Girl un film ancora più coraggioso di altre opere di Fincher: le cose sono ormai indistinguibili dalla loro apparenza, la verità non è semplicemente inaccessibile in un gioco vuoto di rappresentazioni false (come il mondo di Facebook) ma è semplicemente scomparsa come problema.

 

La conclusione del film, costruita con un geniale anti-climax rispetto alla verità, fa vedere come la verità a volte sia destinata a non emergere. Non perché il falso sia più forte o astuto – dunque non per cinismo, come capita spesso al cinema dei Coen –, ma perché semplicemente la coppia vero-falso non esiste più. La pessima traduzione del titolo italiano in Amore bugiardo, è il segno del consueto disprezzo dei distributori per il pubblico, certo (anche se la colpa sarebbe da dividere con gli editori del romanzo di Gillian Flynn), ma soprattutto di un’incomprensione della riflessione fondamentale del film: qui non c’è davvero nessun cinismo e nessuna vittoria disincantata della bugia.

 

In una cultura protestante come quella americana, dove i nodi morali devono venire al pettine e le colpe essere sanzionate, Fincher chiude il film senza un sentimento liberatorio e profondamente religioso di attraversamento della verità. E in questo fa un’operazione pienamente politica, perché rappresenta il volto di un mondo – il nostro – dove è scomparsa l’autorità simbolica che sanziona e giudica le nostre vite. E senza, per di più, che si sia arrivati a una qualsiasi forma di liberazione.

 

Con Gone Girl Fincher sembra voler dire che il cinema non può più servire a sollevarci dal senso di colpa e a farci sentire in pace con il mondo. Il cinema, semmai, serve a farci sentire ancora una volta fuori posto.

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