Metafore dell’oblio / Delete, l’arte di dimenticare

16 Maggio 2016

Prologo: B.I.

 

Inizierò con un prologo. Nell'aprile del 1995 comparve sulla rivista «Iride. Filosofia e discussione pubblica» un mio saggio dal titolo: Il velo e il fiume. Riflessioni sulle metafore dell'oblio. Quando l'articolo uscì non sapevo ancora che il mondo sarebbe cambiato di lì a pochissimo per me e per molte altre persone comuni (per gli addetti ai lavori ovviamente già prima); proprio due mesi dopo mi recai negli USA con una fellowship e lì, nella biblioteca dell'Università di Princeton, assistetti per la prima volta alle prestazioni di Internet; mi fecero infatti vedere come era possibile collegarsi a siti di altre università e entrare in relazione col mondo. Nel 1996, prendendo servizio all'università a Lugano, ebbi il mio primo indirizzo elettronico e la possibilità di mettermi in contatto con la posta elettronica con chiunque sulla terra avesse un analogo indirizzo. Di quel momento alla Firestone Library ho il ricordo vivissimo di un'esperienza sconvolgente, mentre di altri momenti trascorsi a Princeton conservo un ricordo sbiadito. In questo prologo, intitolato b.I., before Internet, ho usato alcune metafore della memoria e dell'oblio per poter raccontare quell'episodio: ho parlato di ricordi vivi, sbiaditi, richiamati alla memoria come se fossero persone o stoffe che hanno perso i colori originari. Sono stata costretta a far così perché realtà come la memoria e l'oblio non si possono concepire né tanto meno esprimere senza ricorrere a metafore, esattamente come il tempo, di cui non si può parlare che per metafore. Il ricordo poi non è stato tirato fuori a caso dal magazzino della memoria; è il ricordo di quello specifico evento che ha rappresentato per me – ognuno avrà avuto il suo – la perdita del mondo dell'oblio e l'ingresso nel mondo della memoria. In questa specie di prologo ho comunque detto già molte delle cose che mi premeva esporre: che c'erano da sempre la memoria e l'oblio, che c'e da pochissimo tempo internet e che ora ci sono la memoria e l'oblio ai tempi della rete, i quali svolgono un ruolo diverso che in precedenza. Quell'articolo del '95 come pure il libro di Weinrich sull'oblio – l'opera più geniale che sia stata scritta sul tema – che è del 1997, risalgono all'epoca avanti Internet, b.I. oppure a.I., a piacere. Poiché dunque il salto l'abbiamo fatto e nella rete ci stiamo dentro ogni giorno di più, e la rete non dimentica, the net never forget, non me la sono sentita di ignorare il fenomeno e di parlare delle metafore dell'oblio nell'età classica, ma ho preferito inglobare anche l'età presente. 

 

Condurrò la mia argomentazione nel modo seguente: dopo il prologo riproporrò una collaudata ripartizione delle metafore della memoria e su di essa imposterò la mia analisi delle metafore dell'oblio, vecchie e nuove, mostrando come esse si modellino sullo stesso paradigma, adattandosi con la coerenza e le ragioni delle metafore, che non sono proprio ferree anzi. Mi soffermerò poi brevemente sul comando delete/cancella della tastiera, sul senso e sulla metaforica di questo termine, e concluderò segnalando alcuni dei rischi più gravi che corrono gli attuali comportamenti scientifici quando si fa cadere nell'oblio qualcosa di importante. 

 

Metafore della memoria

 

Nel 1976 Harald Weinrich aveva pubblicato uno studio importante sulle metafore della memoria (che riprendeva suoi lavori precedenti), che sarebbe in parte confluito in Lethe, del 1997 come sappiamo, pubblicato nella traduzione italiana, mia, nel 1999. In quel saggio del '76, Metaphora memoriae, Weinrich scrive che la grande quantità di metafore con le quali scrittori e filosofi si sono espressi sul tema della memoria sono tratte quasi esclusivamente da due campi metaforici che egli chiama «metafore del magazzino» e «metafore della tavoletta di cera». Quell'intuizione continua a essere valida: così come per la memoria esistono metafore che non si possono integrare né nell'uno né nell'altro campo metaforico, altrettanto è evidente che i due modelli sono assolutamente prevalenti e si disputano il favore dei pensatori quando non sono compresenti nello stesso autore. Rimane convincente anche la spiegazione offerta da Weinrich secondo la quale tale duplicità è relativa alla duplicità del fenomeno del ricordare: le metafore del magazzino si raccolgono prevalentemente intorno al polo della memoria, cioè delle cose ricordate, quelle della tavoletta invece intorno al polo del ricordo, o meglio al processo del ricordare, con tutta la vaghezza e le imprecisioni da una parte, ma anche, dall'altra, con tutta l'efficacia e l'incisività tipiche delle metafore.

 

 

La metaforica della memoria come traccia nella tavoletta di cera si trova per la prima volta nel Teeteto di Platone, 191 d-e, dove Socrate spiega a Teeteto:

 

S - ...supponi che nelle nostre anime si trovi una massa di cera, in qualcuno più grande, in qualcuno più piccola, e in qualcuno di cera più pura, in qualcun altro di cera più sporca e indurita [d] e in altri di cera più molle, in altri ancora di consistenza intermedia.

T – D'accordo.

S – Diciamo allora che questo è dono di Mnemosine, la madre delle Muse, e che in esso, ponendolo sotto le nostre percezioni e i nostri pensieri, come se vi imprimessimo dei sigilli, imprimiamo ciò che vogliamo ricordare fra le cose che vediamo, udiamo o pensiamo. Di ciò che viene impresso abbiamo memoria e scienza...; ciò che viene cancellato...invece, lo dimentichiamo e non ne abbiamo scienza.

 

La metaforica del magazzino della memoria è sviluppata invece da Agostino nel libro X delle Confessioni dove si parla del tempo e dove tutte le metafore, per la memoria e per il tempo, sono spaziali; di questo spazio o luogo Agostino si rende perfettamente conto che non è un luogo, è un non-luogo e infatti così lo chiama, non locus (interiore loco, non loco, X, 9, 16), altro che Marc Augé, un luogo che non ha luogo, un luogo che non è luogo eppure, paradossalmente, contiene così tanto.

Dopo il saggio di Weinrich che imposta la ripartizione impronta/deposito, io scrivo il mio saggio sulle metafore dell'oblio, insistendo sulle due immagini del velo dell'oblio e del fiume dell'oblio, che Weinrich riprende a sua volta in Lete. Se ora mettiamo insieme le sue considerazioni con le mie e con quello che è stato scritto dopo di specifico sulle metafore della memoria e dell'oblio, che davvero non è molto, arriviamo a una duplice constatazione.

 

Primo, non possiamo che confermare la permanenza e la assiduità, fino ad oggi, dei due modelli della memoria, l'impronta e il magazzino, per il processo del ricordare e per la cosa ricordata; secondo, non possiamo che convenire sul fatto che le metafore dell'oblio si costruiscono su questi due modelli ad essi adattandosi, con tutta la vaghezza e l'imprecisione ma anche con tutta l'efficacia, ripeto, delle metafore, e inserendo una specificità del dimenticare rispetto al ricordare: il fatto che l'oblio presenta caratteri negativi che la memoria non ha. Ricordare è «bene», per dir così – eccetto che nei casi estremi di persone con memoria eccezionale dalla quale sono oppresse – dimenticare è «male», soprattutto quando la dimenticanza è involontaria; se invece alla base del dimenticare c'è una volontà attiva di cancellare, in francese effacer, togliere dalla faccia, il processo è percepito positivamente perché la cancellazione è riuscita (se poi si vogliono cancellare dalla storia, facendoli dimenticare con una censura della memoria, episodi o personaggi sgraditi, questa è un'altra storia).

 

Metafore dell'oblio

 

Passiamo ora a presentare le metafore dell'oblio, anch'esse tratte prevalentemente da due campi metaforici che rappresentano un'elaborazione dei campi metaforici della memoria: metafore delle acque (profonde) e metafore della cancellazione della scrittura.

Se si immagina la memoria come un magazzino – partiamo da questa metafora – un deposito, un ricettacolo (Agostino parla di recessus, 8, 13 e receptaculis, 8, 12), l'oblio viene a trovarsi nella sua parte più profonda, buia, umida, bagnata, piena d'acqua. Questa può essere l'oscura profondità del pozzo di Thomas Mann («profondo è il pozzo del passato»), il «profondo deposito dell'io» di Hegel, la «oscura dimenticanza» di Shelling, il «cupo oblio» di Victor Hugo, «l'azzurro oblio», azzurro come le acque marine, di Nietzsche, l'«oblio profondo» di Blanchot. In questo modello l'acqua è spesso presente, sia che si trovi in fondo al pozzo, sia che, per i retori romani, circondi i luoghi (loci) della memoria, che stanno fermi ed eretti mentre l'oblio giace tutt'intorno, sia che avvolga la zattera della memoria in Kundera, sia che si estenda e si allarghi come laguna dell'oblio ne Die Ausgewanderten, Gli emigrati di W.G. Sebald, sia che scorra come acque dell'oblio, acque del tempo, acque dalle quali i ricordi del passato «risalgono a galla» o «emergono alla superficie». 

 

Talvolta il deposito della memoria è bucato come un setaccio o un colabrodo: lo dicono due passi della fine del secolo XVIII, uno del Tristram Shandy di Sterne, «a memory like unto a sieve, not able to retain what it has received», l'altra di Kant che descrive la propria smemoratezza – Kant soffriva di Alzheimer – allo stato in cui la testa è come «una botte piena di buchi». Ricordi che escono dai buchi del setaccio per finire nel fiume dell'oblio o ricordi che dai buchi scivolano fuori come acqua: la metaforica rende bene il fenomeno del passaggio di proprietà ben noto ai metaforologhi: acqua che si beve, acqua che ci beve. Bere l'acqua del Lete provoca dimenticanza, come spiega l'ombra di Anchise al figlio Enea che è riuscito a incontrarla nel Tartaro, come narrato da Virgilio. e infatti le anime destinate a dimenticare le loro esistenze passate per poter incarnarsi in nuovi corpi longa oblivia potant, bevono lunghi oblii; ma l'acqua che si beve è anche l'acqua che beve, che inghiotte i ricordi, sicché il fiume dell'oblio è sia il fiume la cui acqua, se ingerita, provoca l'oblio, sia il fiume d'acqua che beve ricordi e memorie, talvolta permettendo loro di emergere, talaltra assorbendoli per sempre nei suoi strati più reconditi.

 

Salvador Dalí, La persistenza della memoria, 1931 

 

Anche l'autore di un recente testo, del 2009, tradotto in italiano nel 2011 e dedicato alla virtù dell'oblio nell'era dei computer, Viktor Mayer-Schönberger, non sfugge, per parlar di memoria, alla metaforica del magazzino (store, storing, storage) e, per parlar di oblio, a quella della profondità e dell'oscurità del deposito, dell'acqua nella quale si cade o si sprofonda «endeless sea of bits in which we risk to drown», dove le informazioni sono «immersed in her past» o rischiano di «drown in the sea of sensory impression». Coesiste peraltro nello stesso autore, senza che egli stesso si ponga troppe domande, il modello della memoria quale «tavoletta di cera». Mayer-Schönbeger parla di «electronic footprint», di fatti passati «etched like a tattoo in to our digital skins», di memoria «etched in stone» quanto paradossalmente dotata di una buona dose di «malleability». 

 

Tornando indietro da Mayer-Schönbeger a Platone (si parva licet) attraverso Bergson, Schopenhauer, Racine ecc. notiamo, a latere, che la metafora della tavoletta di cera si sovrappone e si confonde sovente con quella dell'impressione, con l'idea che immagini ed eventi forti possano venir impressi nella mente come un sigillo, come un carattere a stampa. L'impressionabilità della mente è stata tradizionalmente attribuita alle donne: sono loro che con la loro mente morbida e docile si lasciano impressionare come una lastra fotografica, fino al punto di trasmettere le loro impressioni al feto: lo dimostrano sia la strana vicenda di Clorinda, nata bianca da genitori mori perché la madre aveva a lungo guardato una statua bianca della Vergine durante la gravidanza, come pure la storia del piccolo Ciro della Tammurriata nera, di Nicolardi e Mario, nato nero da mamma bianca perché la genitrice era rimasta sott'a bbotta impressiunata.

 

Al di là della parentesi di gender, quale metafora dell'oblio nascerà dal modello della traccia impressa? Soprattutto per quanto riguarda l'oblio volontario, in azione quando si vuole deliberatamente cancellare (anche questo metafora: si cancella quando si tirano su una scrittura dei freghi per lungo e per traverso che rendono la figura di un cancello)? Sarà il gesto di rendere liscia la tavola di cera incisa: è questa la metafora implicita nel verbo latino obliviscor e nel sostantivo oblivio, da cui gli italiani oblio, obliare, obliterare ecc.), che sta per render liscio, levis, spianare le tavole della mente, togliere rilievi e riempire incavi, anche quelli lasciati dai punti, quindi in questo caso ex-pungere, espungere, cancellare, eliminare.

 

Delete

 

Oggi invece di affaticarsi a lisciare cera o a tracciare cancelli sulla pergamena o sulla carta, per gettare i dati nel pozzo dell'oblio basta premere il tasto delete, sul cui nome e sulla cui funzione spenderemo ora qualche parola, anche per rendere merito al titolo.

 

Il termine inglese delete, che significa rimuovere qualcosa di scritto o di stampato, come primo significato, e poi cancellare, espungere, togliere, viene direttamente dal participio perfetto del latino dēlēo, dēlēre, fratello del greco dēléomai. Dēlēo e dēléomai hanno entrambi un senso ben più aggressivo del cancellare uno scritto: dēléomai sta per «ferire, danneggiare, distruggere», e l'aggettivo dēlētērios, diventato poi termine prevalentemente medico che sta per qualcosa di nocivo, che avvelena e distrugge. Per dēléomai però, dichiara apoditticamente lo Chantraîne, «pas d'étymologie». 

 

Forse il latino dēlēo ci offre qualche speranza in più, dal momento che risulta un verbo composto, da de, che designa allontanamento, e li, una radice che ha che fare con il verbo latino lino, linire = lenire, ammorbidire con unguenti, spalmare, lisciare, cancellare: come scrive Ovidio nella prima delle Epistole dal Ponto, alcuni dei suoi versi meritano di essere lisciati, cancellati (plurima cerno, me quoque, qui feci, judice digna lini). In greco lo stesso concetto è reso con leio, ammorbidisco, lenisco, rendo morbido e liscio. Nel passo del Teeteto sopra citato, quando Socrate parla del blocco di cera cancellato usa la forma verbale del verbo exaleífo, composto di ex e aleífo, ungere, spalmare, anche intonacare e, in senso traslato, cancellare, spegnere, estinguere: viene così confermata la vitalità operativa della metafora della memoria come impressione anche nella faccia negativa dell'oblio. Delete come de lethe: rendi liscio e spiana, rendi all'oblio. Nel dimenticare la memoria, per usare le parole di Mayer-Schönbeger, sarà «erased», «expunged», «delete». 

 

Rischi dell'obliovinismo scientifico

 

La negatività dell'oblio viene però oggi ribaltata, afferma lo stesso Mayer-Schönbeger, dal fatto che viviamo nella condizione diametralmente opposta: se per millenni il difficile fu ricordare e facile il dimenticare, tant'è che venne inventata ogni sorta di supporti per la memoria (pittura, scultura, scrittura, fotografia, cinema, registrazioni ) nell'attuale epoca digitale, dove ogni cosa inserita in memoria vi rimane in maniera indelebile (the net never forget), il difficile è dimenticare. La sua proposta è di istituire come rimedio a questo fenomeno, che rischia di cedere ad altri il potere di controllo su noi stessi, una data di scadenza per i dati, come per il latte, programmando il computer a dimenticare, come fanno gli umani. Ci sarà qualche differenza, perché nella mente umana i ricordi svaniscono a poco a poco e in maniera casuale e incontrollabile mentre col computer la scelta è digitale, sì o no, uno, due, tre, via (sono i tre secondi che ognuno di noi impiega per decidere se tenere una foto o una mail o no, e proprio per non perdere quei tre secondi, decidiamo di tenere tutto). La tesi è interessante e pure il libro delete lo è, eppure ha un grave difetto. Il fatto è che il suo elogio dell'oblio e le sue proposte di pratiche per dimenticare, Mayer-Schönbeger è il primo a metterli in pratica dove non dovrebbe; dimentica infatti di citare Weinrich, dimostrandosi così seguace dell'obliovionismo scientifico, Oblivionismus der Wissenschaft, lo chiama Weinrich, praticato da molti ricercatori anglofoni o anglofili, la cui prima regola proclama:

 

- ciò che è pubblicato in una lingua diversa dall'inglese – forget it (il libro di Weinrich è stato tradotto in inglese, quindi, strettamente parlando, avrebbe potuto sfuggire dalle maglie della prima regola ma sicuramente NON della seconda:

- ciò che è pubblicato in forma diversa da un articolo in una rivista scientifica – forget it. In quanto monografia dunque, fuori, anche se l'editore è più che prestigioso. Fuori anche il mio saggio dal momento che, pur avendo forma di articolo in una rivista scientifica, non è in inglese. E fuori in ogni caso entrambi anche rispetto alle ultime due regole:

- ciò che non è pubblicato in una delle prestigiose riviste x, y, z – forget it e dimentica pure

- ciò che è stato pubblicato da più di cinque anni circa. 

 

E con questa triste considerazione concludiamo, sperando di aver detto qualcosa di ragionevole sulle metafore dell'oblio, e allo stesso tempo di aver lanciato un messaggio di avvertimento a coloro che credono in queste quattro regole o in ogni caso che pensano di doverle applicare a tutti i costi: cancellatele, grattatele via, espungetele, eliminatele, gettatele nel fiume dell'oblio, fate bere loro l'acqua del Lethe, usate le metafore che volete ma per favore dimenticatele, forget it.

 

Questa è una versione priva di note e lievemente modificata del saggio pubblicato in Le sponde della memoria: il ruolo dell'oblio nel panorama mediale contemporaneo, a cura di Leonardo Gandini, Daniela Cecchin, Matteo Gentilini, Quaderni di Archivio Trentino, 2012.

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