Déplacé-e-s: JR alle Gallerie d’Italia
In un periodo storico dominato dal tema dal fenomeno collettivo delle migrazioni di massa, dedicare al tema del dislocamento una mostra come hanno fatto le Gallerie d’Italia, a Torino, proponendo l’opera dell’artista contemporaneo JR, offre vari spunti importanti su cui riflettere. La mostra, curata da Arturo Galansino, si intitola "Déplacé-e-s", letteralmente “Spostati”, presenta opere che, pur basate in gran parte su immagini di origine fotografica, ne fanno un uso non canonico grazie anche ad allestimenti giganteschi e spettacolari, che non permettono di considerarla un’esposizione fotografica vera e propria.
L’artista stesso, infatti, durante l’inaugurazione, dichiara di “non essere un fotografo, di non appartenere a quella scuola, ma più, semmai, a quella dello street writing”, base da cui parte tutta la sua ricerca. JR è un artista francese nato nelle periferie parigine, noto al pubblico internazionale per le sue operazioni massive e fortemente performative di incollaggio di immagini di enormi dimensioni su supporti urbani – pavimentazioni di piazze, lati di navi mercantili, vagoni treno – mezzi che usa per portare a cielo aperto le tematiche salienti del contemporaneo.
Stampando su teli di enormi dimensioni, fino ai 50 metri, e chiedendo di volta in volta a centinaia di volontari di aprirli in favore di un drone che li filma dall’alto, si vedono le gigantesche sagome di uomini, donne e bambini dominare uno spazio immenso, quello che spetterebbe, metaforicamente, nelle coscienze di chi invece le ignora.
Il lavoro proposto a Gallerie d’Italia ha trovato il suo nucleo nella grande performance organizzata il giorno prima dell’inaugurazione nella centrale Piazza San Carlo – dove anche è situata la nuova sede espositiva – in cui, dopo una call gratuita lanciata su un sito internet dedicato, quasi duemila persone si sono prodigate nel trasporto e nell’apertura di cinque enormi teli raffiguranti altrettanti bambini immortalati nei più grandi campi profughi del pianeta.
Dal Ruanda, alla Colombia, dalla Grecia all’isola Mauritius, fino al recente dramma in Ucraina, JR ha viaggiato e fotografato – con mezzi a volte dichiaratamente rudimentali, come lo smartphone – questi cinque bambini mentre correvano e giocavano in un momento di apparente serenità. Quella condizione di infantile incoscienza che porta l’infanzia sempre in un mondo diverso, rendendola incurante a volte delle condizioni contingenti in cui è immersa. Una sorta di primo “dislocamento” è proprio quello mentale del bambino, capace di isolarsi autonomamente in una dimensione privata in cui gli è permesso di non smettere di divertirsi e di sentirsi a casa, ovunque egli si trovi.
Questi cinque bambini, trasportati, fatti incontrare per la prima volta in un ideale girotondo e impossibile incontro, data la distanza geografica in cui attualmente vivono, diventano l’ideale simbolo del fenomeno delle migrazioni forzate, e aprono la strada per considerazioni di carattere più strettamente fotografico. Essi vengono proiettati in una dimensione di “accoglienza collettiva” – in netto contrasto con l’“espulsione collettiva” di cui sono vittime – attraverso la loro rappresentazione iconografica, presa direttamente nel luogo del loro temporaneo rifugio che però, nell’immagine finale e usata per la grande performance, non si vede.
I bambini vengono “scontornati”, per prendere in prestito un termine grafico, e quindi separati dal contesto originario in cui si svolge l’azione che stavano compiendo in quel momento – correre, guardare qualcosa, sorridere – per essere congelati, estratti e, quindi, “astratti”. Qui si evince quanto l’astrazione possa permettere il trasporto, quel dislocamento necessario alla performance e quello imposto dai fattori geopolitici, e proprio in virtù di quel processo astrattivo pare che i bambini possano diventare a un tempo mito, icona, oggetto mediatico, opera d’arte.
Per astrarre, in fotografia, occorre operare per sintesi, ovvero tagliare fuori dall’immagine finale ciò che a noi non serve: le sagome sono il punto estremo di una sintesi operata, in cui sopravvive l’unico dettaglio di una scena incaricato di trasportare la carica del suo intero significato. L’operazione che compie l’artista francese è quella di far guardare i dettagli che sceglie da una prospettiva aerea, portando la sproporzione a tal punto da poter rendere la visione possibile solo attraverso secondi mezzi di trasmissione, come il drone, e da un’altezza umanamente inverosimile, di almeno 100 metri.
L’immagine viene quindi trasportata anch’essa in una dimensione totalmente distante dai correnti metodi di fruizione, dando alla prospettiva aerea l’onnipotenza per poter essere accolta e compresa. Ciò che in altre performance è accaduto, infatti, è che le persone, quando le gigantografie venivano per esempio incollate per terra nelle piazze, non si accorgessero di star calpestando un’immagine: si trovavano a camminare su un dettaglio talmente infinitesimo – un dettaglio di un dettaglio – da non poter concepire l’insieme a cui questo conduceva, come avviene in Conan Doyle fino a che l’enigma non viene risolto.
I bambini, racchiusi nelle sagome monocromatiche dei loro contorni, restano vestiti unicamente dei loro stessi margini, profughi ancora di una migrazione solo più iconografica.
Il dislocamento e lo spiazzamento, quindi, coinvolge più aspetti di un’unica operazione: anche il nostro doverci affidare a un occhio tecnico, in grado di elevarsi alle altezze richieste, fa in modo che anche lo spettatore venga dislocato in una dimensione che non gli appartiene usualmente, aerea e zenitale, sospesa su un’immagine graficamente incorniciata dalle facciate dei palazzi.
La fotografia in questo caso funziona da mezzo primario per la documentazione di una verità, finalità storicamente propria del mezzo, per venire poi staccata dalle pareti su cui culturalmente siamo abituati a vederla per buttarla in mezzo a una comunità che le si raccoglie intorno, quasi ritualmente, per toccarla, stropicciarla, tirarla, mostrarla a chi potrà guardarla intera dall’alto. Una fruizione prettamente fisica dell’immagine, che necessita di una partecipazione numerosissima di persone per poter esistere e funzionare – ovvero comunicare – che la collega a realtà ancora vive ma molto antiche della tradizione dell’uomo: le processioni religiose, così come i funerali, o l’adorazione del cantante che si lancia dal palco, richiedono una collettività riunita attorno a un corpo inerme, persone che vogliono toccare quel corpo, stringerlo, tenderlo e afferrarlo.
Così l’uomo ha concepito l’espressione esasperata della sua vicinanza all’altro, a qualcuno che in quel momento acquisisce un significato in cui tutti coloro che gli stanno attorno si identificano. Acquisisce, in quel momento, il senso di patria ideale – a volte ideologica – per quelle persone che la cercano e in lui la ritrovano. Ecco allora che le duemila persone riunite attorno alle icone dei cinque bambini profughi possono in qualche modo richiamare questa dimensione di vicinanza a una patria simbolica, che è a un tempo ciò che quei bambini – e le migliaia di persone che rappresentano – hanno perso, ma che pure può essere l’infanzia stessa, patria delle generazioni, da cui ognuno è costretto prima o poi a separarsi.
Un ultimo tributo ai bambini è sottolineato nell’ultima stanza della mostra, in cui altre sagome, questa volta cartonate e rette da un supporto in legno che le rende simili a marionette cinesi, delineano i contorni di altri bambini del campo del Ruanda che corrono sovraesposti in mezzo a sabbia nera: alcune luci muovendosi proiettano teatralmente le loro ombre sulle pareti che li circondano, creando ancora una volta un effetto di sproporzione delle misure e di spiazzamento prospettico. La mostra è allestita secondo una struttura molto semplice, in appena tre stanze, con ampio spazio lasciato alla documentazione videografica.
Si vedono infatti i video che ripercorrono i viaggi di JR e dei suoi soggiorni nei campi profughi, il contatto coi popoli, il racconto dei bambini. Ciò che non è video è invece il ricordo dell’happening: tre dei cinque enormi teli protagonisti della performance del giorno prima sono fatti pendere dal soffitto, ed emergono dalla massa informe del loro stesso corpo depositato a terra, dal quale spuntano soltanto le tre teste che ora a modo loro paiono tornate a misura d’uomo, in una dimensione in cui poter essere visitate da vicino, una persona per volta. L’intero processo performativo e collettivo, allora, può diventare ancora un momento ridotto al vis-à-vis, all’estrema sintesi di ogni contatto, lo sguardo diretto negli occhi dell’altro.
Ecco allora che in qualche modo si torna alla radice dell’atto fotografico, al guardare per creare un contatto, per familiarizzare, per interfacciarsi su una realtà che non ci è apparentemente propria; a ribadire quel senso di straniamento cui si trova sempre l’uomo di fronte a ciò che non conosce, nell’assenza di un confine sicuro a cui affidare il proprio stare al mondo. Viene ribadito, infine, il fatto che ogni destinazione ambisca a un margine, un limite oltre al quale poter andare e in cui poter tornare.
Gallerie d’Italia – Torino
Dal 9 febbraio al 16 luglio 2023
Curatore: Arturo Galansino
In collaborazione con la Fondazione Compagnia di San Paolo
Nell'immagine di copertina, JR press - performance.