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Diario russo 25. Russia: esodo o fuga?
Quando si può cominciare a parlare di esodo? Spesso nell’usare questa parola intendiamo descrivere masse di donne e uomini, di bambini e vecchi, che si muovono da una parte all’altra, in cerca di salvezza. Nel suo significato primigenio, serviva a descrivere la fuga del popolo ebraico dall’Egitto dei faraoni, poi il termine è stato usato in altri contesti, sempre però per descrivere genti in movimento per salvarsi da persecuzioni, guerre e carestie, disarmate. La mobilitazione parziale lanciata da Putin il 21 settembre ha fatto ripartire, con maggior forza, l’uscita di decine di migliaia di persone, in gran parte uomini, dalla Russia, in cerca di scampo dall’arruolamento e dall’invio al fronte e nei territori occupati appena annessi anche “ufficialmente”.
Rispetto alla fine di febbraio, quando la guerra è iniziata, la situazione è ancor più grave: chilometri di macchine ferme in coda ai varchi di frontiera ancora aperti, tanti a piedi cercano di arrivare, dopo ore di camminata, al confine, gli aeroporti delle grandi città affollati nei primi giorni successivi al discorso di Putin e ora semivuoti, storie di partenze improvvise e di arrivi improbabili. Scene a cui era impossibile pensare ancora all’inizio di quest’anno, con un’ondata migratoria di segno opposto, in Asia centrale ora vanno i russi, e questo movimento inatteso ha suscitato le ironie sui social network da parte di kirghisi, uzbeki, tagiki e kazaki, spesso vittime della peggior xenofobia presente nelle città russe.
“Bishkek non è di gomma” una ragazza kirghisa vestita in un abbigliamento sportivo che ricorda alcune influencer russe dice in un reel su Instagram “questi nuovi arrivati qui si credono i padroni”, un video dal tono irriverente e ironico, ma che prova a far capire cosa voglia dire sentirsi dall’altro lato, quando si perde tutto. E in realtà l’accoglienza generalmente è buona, in Kazakistan nei centri urbani vicino al confine con la Russia vi sono volontari al lavoro, le autorità locali hanno messo a disposizione, sulla scorta di quanto dichiarato dal presidente Tokayev, a disposizione strutture per passare la notte, provando a regolare il naturale caos dell’afflusso di tante persone.
Un mio amico, K., è andato via da Mosca, raggiungendo fortunosamente Atyrau, città a 270 chilometri dalla russa Astrachan’, prima tappa dopo aver attraversato il confine. La sua destinazione finale è Shymkent, nel sud del paese, in prossimità della frontiera uzbeka, ma per arrivarci dovrà attendere: i primi posti disponibili in treno sono tra 6 giorni. Immagini che riportano altre evacuazioni, altri anni, sempre da ovest verso est, tentando di scappare questa volta non dalla distruzione e dai bombardamenti, ma dal dover imbracciare un fucile e ammazzare qualcuno.
Una settimana fa una fonte dell’amministrazione presidenziale dichiarava a Novaja Gazeta-Evropa che i fuggitivi erano 261.000, un numero giudicato troppo elevato dallo stesso giornale. Sommando le cifre fornite dalle autorità di frontiera di Finlandia, Georgia, Kazakistan e Mongolia, ferme allo scorso martedì, 197.800 persone avevano attraversato i confini. Non sappiamo quanti siano volati via, ma è indicativo come il prezzo dei biglietti per le destinazioni ancora raggiungibili dagli aeroporti russi, quando disponibili, sia schizzato alle stelle, con rotte che prima costavano poche centinaia di euro diventate improvvisamente un lusso estremo.
Mi scrive un’amica che il suo compagno è andato via, lei resta perché hanno dovuto usare i pochi risparmi per assicurargli una fuga rapida, e ora è nel loro appartamento con un bel cane bianco, un samoiedo molto allegro. Dove vado? – mi chiede – non sappiamo cosa fare. Una ragazza che studia in un ateneo dell’Italia settentrionale mi racconta come il marito ha passato il confine a piedi, camminando per 40 km fino all’ormai celebre varco di Verchnij Lars, tra Russia e Georgia.
E l’Europa si chiude, nonostante le belle e nobili parole di politici tedeschi e funzionari della Commissione. Il passaggio più logico, via Baltico e Polonia, è sbarrato da antiche paure, miopie attuali e interessi elettorali (in Estonia e in Lettonia si voterà tra poco), e la Finlandia ha deciso di aggregarsi, temendo di esser presa d’assalto da altri renitenti alla leva. Chi prova ad attraversare, anche legalmente, il confine estone viene respinto, e così accadrà per i disertori, è stato già reso noto dalle cancellerie di Riga e Tallinn.
Servirebbe il coraggio del 2015 e aprire quelle barriere, sarebbe un colpo enorme alla narrazione ormai complottista e tetra del putinismo, ma non accadrà, tra timori di infiltrazioni (eppure quando arrivarono i siriani nessun governo parlò degli agenti di Assad), calcoli balzani, e egoismi nazionali. Servirebbe sottrarre al Cremlino quanti più uomini possibili alla mobilitazione, ma non avverrà, mentre qualcuno parla di distinzioni etiche e morali che con l’accoglienza poco hanno a che fare, ma con la xenofobia, seppur spacciata da nobile anelito alla libertà, hanno molto in comune; e mentre ci si inebria della giustezza dei propri principi, si continua e si continuerà a morire, restando puliti a costo delle vite degli altri.
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