dOCUMENTA (13) – Kassel

12 Novembre 2012

dOCUMENTA, che quest’anno è giunta alla sua tredicesima edizione, è una mostra d’arte contemporanea nata nel 1955 per volontà di Arnold Bode (1900-1977), un architetto e artista originario di Kassel. La città, pesantemente bombardata durante la Seconda guerra mondiale, doveva diventare un luogo dove – all’inizio ogni quattro anni e dal 1972 con cadenza quinquennale – la Germania si sarebbe ripensata attraverso l’arte. Nel progetto originario il bisogno di elaborare collettivamente un lutto senza rimuovere le proprie responsabilità si saldava con l’urgenza di immaginare la rinascita del paese e di scrollarsi di dosso l’oscurantismo nazista e l’eccesso di obbedienza che aveva portato e tenuto al potere il regime hitleriano.

 

Alla prima edizione di dOCUMENTA rispondono molti degli artisti più significativi del XX secolo, da Pablo Picasso a Henry Moore. E così sarà per tutte le edizioni successive che, a partire dal ‘72, saranno ogni volta affidate a un diverso direttore cui sarà data piena libertà creativa, tematica, politica, organizzativa: Harald Szeemann, Manfred Schneckenburger, Rudi Fuchs, Catherine David, Okwui Enwezor, per citarne solo alcuni. Ogni edizione sarà dunque ‘firmata’ e perfettamente riconoscibile per intenti, scelte artistiche, sguardo sul presente.

 

Quest’anno l’incarico è stato affidato a Carolyn Christov-Bakargiev, di cui – a edizione conclusa: 9/6-16/9 – si possono valutare i propositi e gli esiti. Intanto, a monte di dOCUMENTA (13), c’è un concetto all’apparenza banale: oggi, anno 2012, non è possibile vedere tutto e di certo non è pensabile vedere solo il meglio della ‘produzione artistica’. I cinque anni preparatori vengono dunque ‘diffusi’ sul territorio mondiale. A Kassel-Germania (l’Europa che affonda non solo discorsivamente nella crisi economica) si affiancano Kabul-Afghanistan (la guerra), Alessandria/Il Cairo-Egitto (la rivoluzione araba), e Banff-Canada (il Centro dove matematici, artisti e musicisti lavorano insieme).

 

E la scelta delle opere, degli artisti, dei seminari, perfino delle sedi espositive, annuncia con forza che oggi l’arte, se vuole sottrarsi criticamente alla logica del mercato e all’irrilevanza, deve sporcarsi con il reale, lasciarsi penetrare da altri saperi e altre discipline, misurarsi con le diverse dimensioni spaziali e temporali create dalle tecnologie digitali, ma anche dalle tante sacche di resistenza a un’idea di sviluppo lineare, progressivo, uniforme.

 

Non è un caso dunque che al centro di dOCUMENTA (13) ci sia una precisa insistenza sul tema del trauma, quell’evento storico o privato che fa irruzione nella vita dei popoli o dei singoli creando un ‘prima’ e un ‘dopo’ difficilmente riconciliabili: guerre, crimini, lutti, violenze, annientamento di ambienti naturali.

 

Mariam Ghani, A Brief History of Collapses, doppio fotogramma

 

E attorno a questi avvenimenti periodizzanti, simili al fulmine che schianta l’albero, il lento inesorabile processo di cicatrizzazione. Alla distruzione segue la ricostruzione, alla morte la rinascita, secondo un asse spiraliforme che non ammette la ripetizione e neppure la ciclicità. Nulla è mai identico a ciò che è stato e nulla è davvero prevedibile. La storia e le storie individuali sono questo, legate tra loro da una sorta di somiglianza difforme che è tutta da indagare e che ha a che vedere non solo con il tempo, ma anche con i luoghi e le cose e la loro fragile resiliente materialità.

 

Il concetto stesso di durata diventa un cardine interpretativo: che relazione c’è tra l’istantaneità del tempo digitale al quale ci hanno inchiodati, quel susseguirsi inarrestabile di attimi slegati tra loro e che pure sono colmi di immagini/informazione a fatica riconducibili a un sistema di senso, e il tempo delle piante, delle tele di ragno, delle morene? E, di conseguenza, come non pensare al tempo della visione, alla condizione concreta che rende possibile l’atto del vedere? L’occhio umano vede non solo in rapporto alle dimensioni della cosa osservata e grazie agli strumenti di cui si dota, ma anche in rapporto alla velocità con cui le cose si trasformano.

 

Tacita Dean, Fatigues, particolare

 

Il ghiacciaio scorre adagio verso valle portando con sé i detriti rocciosi e noi non ne percepiamo l’opera se non in un arco di tempo che non ci appartiene, mentre ci sono giorni d’estate in cui è possibile veder crescere il basilico e le rose. Eppure l’invisibile non è meno reale del visibile:tenernemodestamente conto potrebbe aiutarci a stare nel mondo, a non considerare irreale il lontano soltanto perché non lo vediamo, a immaginare e forse anche a ricordare.

 

E ci sono tante forme di cecità ‘provocate’: si può smettere di vedere (talora perfino di guardare) perché si è bombardati dalle immagini, accecati dalla loro muta frequenza, ma anche perché le immagini sono soggette a monopolio e possono essere erogate o messe sotto sequestro come l’acqua o inquinate come l’aria. Per vedere, anche in assenza di oggetti e di figure, è necessario mettere a fuoco attraverso quella che si potrebbe definire la lente analogica: un esercizio empatico di figurazione.

 

Lo dimostra lucidamente A Brief History of Collapses, l’opera video dell’afghana Mariam Ghani, dove le rovine del palazzo Dar ul-Aman di Kabul bombardato entrano in risonanza con le impeccabili sale neoclassiche restaurate del Fridericianum di Kassel, ‘cervello’ e principale spazio espositivo di dOCUMENTA (13). Dalla Seconda guerra mondiale alla proliferazione bellica post 11 settembre sono passati sessant’anni, il tempo di vita di un bruco se si pensa alle macerie che vanno accumulandosi davanti all’angelo della storia di Walter Benjamin. È un’immagine non stolta né sbrigativa: dalle città, dalle culture, dagli artisti sotto assedio può nascere una speranza e da lì un interrogativo, “cosa faccio quando sono in una condizione di speranza?”, che si traduce in impegno e in azione. “Quando vivono questa condizione”, afferma Carolyn Christov-Bakargiev,“spesso gli artisti non producono arte: Malevic smette di dipingere, nasce il Bauhaus(Franco Fanelli, Carolyn Christov-Bakargiev: così è la mia documenta, in “Il Giornale dell’Arte”, n. 321, giugno 2012).

 

I luoghi stessi – edifici, chiese, stazioni, fabbriche – possono essere rigenerati, ma anche affondati nell’ombra e nell’amnesia, da un processo di riconversione che, modificandone la funzione, ne illumina o cancella il passato. dOCUMENTA (13), per esempio, invita un centinaio di artisti a pensare a uno spazio specifico, l’ex monastero benedettino di Breitenau, che sorge a quindici chilometri da Kassel e nel 1933 viene ampliato e destinato a campo di lavoro e di rieducazione nazista e di lì a poco convertito in lager. Liberato nel 1945, sarà riutilizzato come riformatorio femminile, poi come istituzione psichiatrica. Il tedesco Clemens von Wedemeyer è tra i pochi che raccolgono fino in fondo la sfida, realizzando Muster/Rushes una trilogia cinematografica/installazione girata interamente all’interno delle sue mura.

 

Clemens von Wedemeyer, Muster/Rushes. Foto Henrik Stromberg

 

Impermanenza, spettralità, ombre, vuoto, invisibilità da un lato e persistenza, fisicità, sensi che si sostituiscono alla vista dall’altro.

 

Il lavoro in tal senso forse più radicale di questa edizione è I Need Some Meaning I Can Memorize [The Invisible Pull] dell’inglese Ryan Gander, che ha riempito di un vento impetuoso e gelido l’intero – e altrimenti pressoché vuoto – piano terra del Fridericianum. Come se le ‘opere’ fossero state spazzate via dalle sue correnti d’aria portatrici di lievi suoni e evocatrici di turbolenze e instabilità.

 

Ryan Gander, I Need Some Meaning I Can Memorize. © HEIMO AGA

 

E, non meno potenti, anche se di segno del tutto opposto, leprincipesse Bactriane del 2500 A.C. provenienti dal Turkmenistan, dall’Uzbekistan e dall’Afghanistan settentrionale. Otto statuine poco più grandi di una mano, giunte intatte fino a noi forse grazie alla loro dimensione, alla loro apparente e squisita insignificanza.

 

Principessa Bactriana, 2500 A.C. Foto MN

 

Più misteriose delle creature ultraterrene descritte da tanto cinema di fantascienza hollywoodiano, hanno attraversato i millenni come dentro una capsula di vento e sono lì a testimoniare di una durata tenera e rocciosa, perfettamente umana. Una mostra di arte contemporanea che si interroga sullo statuto del tempo mandando all’aria le gabbie cronologiche e geografiche non poteva scegliere fulcro migliore, simbolo più plausibile.

 

In questa direzione, anche se ognuna a suo modo, vanno tre delle opere più convincenti e nitide di questa edizione: Fatigues, (Corvée, ma anchetenuta di fatica),dell’inglese Tacita Dean; The Wordly House (La Casa Terrena), un archivio compilato da Tue Greenfort a partire dagli scritti della biologa femminista californiana Donna Haraway (Testimone modesta@femaleman incontra OncoTopo. Femminismo e tecnoscienza, Interzone, Feltrinelli, Milano 2000) sulla co-evoluzione di multiple specie; Here & There (Qui & Lì), dell’italiana-brasiliana Anna Maria Maiolino.

 

Il progetto di Tacita Dean nasce da una ‘commissione’: invitata a partecipare alla tredicesima edizione di dOCUMENTA, incarica un cameraman afghano di filmare le montagne intorno a Kabul e il fiume che le attraversa. Monterà poi quei materiali, trasformandoli in un video che parlerà del disfarsi lento dei ghiacci, della turbolenza dell’acqua che gonfia i torrenti a primavera, dell’opera erosiva del vento. La qualità dei materiali che le arrivano li rende però inutilizzabili, allora lei li guarda, li studia, cerca di percorrere mentalmente gli itinerari della cinepresa, di sperimentare con l’immaginazione le condizioni climatiche, il tempo del viaggio, l’attrito dell’aria e della neve. Poi prende un gesso bianco e su una distesa di lavagna nera disegna, per metri e metri, il ‘corpo’ della montagna esposto al ciclo delle stagioni. Con quel materiale polveroso ed effimero ricostruirà il tracciato dei venti, il disgelo, i flutti vorticosi che increspano la superficie del fiume e al contempo la fatica dell’uomo che li attraversa, la sua cocciuta resistenza. L’opera, site specific ovvero pensata per un particolare spazio espositivo, occupa i due piani e dunque le sei pareti (il quarto lato è a vetrate) di un edificio quadrangolare che un tempo era un ufficio delle tasse. Anche qui si saliva e si scendeva, usando le scale e nella scala sociale.

 

Tacita Dean, Fatigues, particolare. Foto MN

 

The Wordly House, immersa nel Karlsaue Park, è una palafitta ad alta tecnologia: pesca nelle acque di uno stagno popolato di rane, pesci, insetti di ogni tipo, ma all’interno – senza una vera separazione tra dentro e fuori, alto e basso – propone una biblioteca cartacea e un archivio digitale accessibile attraverso gli schermi di vari computer. In una delle due ‘stanze’ non c’è pavimento, si è letteralmente sospesi sull’acqua e avvolti nelle ragnatele dei tanti felicissimi ragni che la abitano, ma su una parete vengono proiettati a ritmo continuo film e immagini che invitano a riflettere sulla relazione tra specie umane e non umane, sulla nostra preziosa co-evoluzione.

 

Tue Greenfort, The Worldly House, 2012. © Nils Klinger

 

‘Situata’ nell’ex casa del giardiniere del Karlsaue Park, Here & There la occupa per intero, dalla cantina al soffitto. Maiolino, il cui materiale d’elezione è l’argilla, la riempie, anzi la inonda, di forme che ricordano a un tempo il cibo e l’interno del corpo umano. Centinaia e centinaia di stampi di diverso colore e multiple forme che coprono il letto, invadono la cucina, si insinuano nei cassetti delle credenze e sulle poltrone del soggiorno. L’effetto non è di soffocamento, ma di libertà, come se si fosse dato lo spazio giusto alle parti molli e di solito considerate oscene del corpo: i suoi organi interni, le deiezioni che lo attraversano, ma anche le sue sensazioni, i suoi umori e i suoi sentimenti.

 

Anna Maria Maiolino, Here & There, particolare. Foto MN

 

È una casa accogliente, quella disegnata da Maiolino, sfrontatamente femminista e dunque del tutto umana. Viene voglia di restarci e di pensare con calma al tempo della vita che abbiamo vissuto e a quello che resta. In cantina, su uno schermo digitale, tra le righe del testo che accompagna l’opera si legge:

  

“sta’ zitta!

mi ordinavano gli adulti

era rischioso parlare sinceramente

ecco perché passavo il tempo monologando all’infinito con me stessa

finché non sono arrivata all’arte

dove tutti i discorsi sono possibili

tuttavia, guardatevi dal contemporaneo

esige opere ben presentate

incontaminate, anemicamente pulite

preferibilmente congelate come polli da supermercato

le emozioni sono state sradicate

e se volete insistere a parlare dell’umano, parlate!

ma senza passioni eccessive…”  

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