La notte dei simulacri. Sogno, cinema, realtà virtuale / E se non ci fosse nessuno schermo nella mente?
C’è un famosissimo quadro di Magritte che raffigura un quadro collocato davanti a una finestra aperta. Sulla tela è dipinto quello che, con tutta probabilità, si vedrebbe se fossimo in quella stanza. Il quadro si intitola, significativamente, La condizione umana. L’opera è una allegoria della capacità di rappresentare il mondo esterno (in realtà è una meta-allegoria perché è un quadro che rappresenta un quadro che rappresenta un mondo …).
L’opera di Magritte incarna il mistero più insondabile che gli esseri umani abbiano affrontato: se stessi. Come è possibile che la persona faccia esperienza del mondo, se ne è separata? La soluzione più semplice, ma non per questo più giusta, da Platone alle neuroscienze contemporanee, è stata sempre la stessa: non facciamo esperienza del mondo, ma di una sua immagine vicaria; in altre parole, la nostra vita non sarebbe altro che sogno, auspicabilmente veritiero.
Circumnavigando questa domanda, Giancarlo Grossi affronta il nodo che divide e unisce sogno e tecnologia, adottando la prospettiva offerta dalla storia (o persino dall’archeologia) dei media nel suo libro La notte dei simulacri. Sogno, cinema, realtà virtuale (Johan and Levi, 2021). L’autore segue un percorso che, forse influenzato dal proprio tema, assume tratti onirici privi di una meta esplicita. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Grossi racconta come la tecnologia abbia influenzato la nostra concezione del sogno e della percezione e, viceversa, come i dispositivi mediatici – dalla mitologica installazione panoramica di Robert Barker nel 1787 alla realtà virtuale di oggi – abbiano cercato di tessere la stoffa del sogno con i fili della tecnologia. Come vedremo, non ci possono riuscire.
Il percorso scelto da Grossi, in parte analogo ad altri lavori (per esempio i libri di Jonathan Crary) è interessante perché particolarmente sensibile all’ambiente francese che precedette il momento dell’esistenzialismo e della fenomenologia di primo Novecento. È affascinante vedere come nell’Europa positivista e illuminista, tecnologia e filosofia fossero intrecciate insieme per cercare di comprendere gli aspetti più oscuro della nostra esistenza. E così il testo rimane sul filo del crinale che divide studio della percezione e storia della tecnologia: abbiamo costruito le macchine del virtuale perché sogniamo o pensiamo di sognare perché viviamo circondati dalle tecnologie dei media? Quello che in passato era descritto come un sogno o una apparizione è diventato poi fantasmagoria, fotografia, panorama e, oggi, realtà virtuale. Grossi ci guida lungo una galleria di strumenti tecnologici e prodotti mediali.
Il filo rosso del libro è rappresentato dal fatto che, in ogni epoca, l’uomo crea strumenti che imitano i processi percettivi e onirici e, conseguentemente, rimodella se stesso. Nella nostra cultura, il problema dell’esperienza del mondo e del sé si è intrecciato con lo sviluppo della tecnologia dei media: dalle cave di Chaveau alla realtà virtuale.
Il libro è diviso in tre parti che si dispongono ordinatamente dall’Ottocento francese fino ai giorni nostri. La parte più riuscita è quella che racconta l’archeologia dei media prima dell’avvento del cinema e che permette di comprendere la relazione tra i primi tentativi di realizzare tecnologie immersive e il clima culturale che porterà alla fenomenologia e all’esistenzialismo di fine Ottocento. La parte meno chiara è quella dove si considerano una serie di installazioni contemporanee centrate sulla realtà virtuale. Mentre la prima parte – più storica – aveva una direzione precisa anche per merito della chiarezza dei filosofi dell’epoca, quest’ultima parte soffre della mancanza, nel panorama concettuale odierno, di un orizzonte definito per quanto riguarda la natura della mente, della coscienza, della percezione e, non ultimo, del sogno. Si finisce così con il procedere tra le pagine come in una sequenza onirica dove la successione dei casi presentati non segue un filo razionale, ma si limita a illustrare una giustapposizione di casi di studio: un grande guardaroba di installazioni dismesse.
Un esempio illuminante della situazione di imbarazzo della scienza contemporanea nel trattare della nostra esperienza è rivelato dalla necessità, da parte di Grossi, di trovare un sostegno scientifico circa la natura dei sogni. L’autore individua vari autori – tra cui Anil Seth, John Allan Hobson e Thomas Metzinger – che non rappresentano affatto una posizione comune nel contesto scientifico, ma si limitano a dichiarare tesi che, nel migliore dei casi, potremmo considerarle opinioni personali di persone interessate. Il fatto è che oggi nessuno sa né che cosa sia un sogno né perché i sogni esistano. Tutte le teorie a disposizione sono di natura funzionale e quindi i meccanismi onirici non richiedono un ingrediente fondamentale del sogno: la nostra esperienza di esso. Ma un sogno senza qualcuno che lo sogni che cosa sarebbe?
Prendiamo in considerazione il più importante dei tre, John Allan Hobson. Secondo questo neuroscienziato, i sogni sarebbero “un mondo a realtà virtuale generato da una funziona specifica all’interno del cervello”, praticamente come se qualcuno proiettasse il mondo su uno schermo virtuale dentro la nostra testa, come tanti hanno visto in opere di fantasia (emblematico, in senso negativo, il film Inside Out (Disney/Pixar, 2015). Peccato che nel cervello, per quanto se ne sa, non ci sia nessuno schermo, nessun proiettore e, soprattutto, nessuno omuncolo impegnato a fare esperienza di tutto ciò. La stanza di Magritte è completamente vuota. Dentro il cervello non c’è una tela su cui è dipinto il mondo, non c’è la finestra e nemmeno qualcuno che guarda il quadro.
Ma non è certo colpa di Grossi se oggi le neuroscienze non sono riuscite a colmare la distanza che separata i segnali nervosi dalla stoffa del sogno. Tuttavia in questo testo, e in molti altri, si tende a dare l’impressione che esista un consenso scientifico (o filosofico) circa i meccanismi della nostra esperienza cosciente (percezione o sogno che sia). Questo consenso, invece, manca assolutamente e, per dirla senza mezzi termini, la domanda sulla natura del sogno oggi è senza risposta.
Nelle pagine del testo di Grossi, si sostiene che gli strumenti tecnologici per i media – dallo stereopanorama fino alla realtà virtuale – siano tante versioni, progressivamente più sofisticate, della caverna di Platone a partire dalle figure umane nelle cave del neolitico. Tutto questo è condivisibile e storicamente interessante. Quello che non è necessariamente condivisibile è che queste tecnologie siano una metafora corretta per il sogno, l’allucinazione e la coscienza fenomenica in genere. Farò due brevi obiezioni.
La prima riguarda la nozione di schermo. In tutti i casi citati (la caverna, il cinema, la realtà virtuale, l’affresco illusionista da Zeusi al Canaletto, all’opera di Magritte) esiste sempre uno schermo che è pur sempre una struttura fisica (generalmente piatta ma non necessariamente) dove, con giochi di luce o altri strumenti, si crea una figura che è qualcosa che ha la proprietà, se vista da un punto di vista opportuno, di assomigliare a un’altra cosa. La statua del Davide di Michelangelo ha delle forme che, relativamente a un uomo possente, condividono struttura e proporzioni. I colori di un trompe l'oeil sono all’incirca simili a quelli del paesaggio corrispondente. Nello stesso modo, se uno usa un dispositivo a realtà virtuale, non vede un mondo “virtuale” o “mentale”, ma una piccola figura in miniatura riprodotta da una matrice di punti fisicamente colorati (detti LED): un piccolo schermo davanti a ciascun occhio.
Non è vero che la realtà virtuale ci faccia vedere un mondo che non esiste (o che esiste solo nella nostra mente). Anche con il più sofisticato dispositivo, lo spettatore vede sempre qualcosa di fisico e lo interpreta in modo particolare. In fondo, tutti gli strumenti mediali hanno bisogno di uno schermo (tavola, tela, schermo cinematografico passivo, schermo elettronico attivo). L’obiezione è semplice: quando uno sogna, dove è lo schermo su cui il sogno sarebbe proiettato? Nella mente, con buona pace di Magritte, non c’è alcuno schermo. E lo stesso vale per percezioni e allucinazioni. Quindi la metafora del sogno come un sistema a realtà virtuale o come cinema – per quanto sia stata accarezzata da artisti come Jean Cocteau, Buster Keaton o dai neuroscienziati contemporanei – non funziona. Diciamo senza incertezze. Per funzionare, una metafora deve avere a disposizione tutti gli elementi e, in questo caso, l’elemento fondamentale, ovvero lo schermo, manca.
La seconda obiezione è legata a un aspetto chiave, sia del sogno che dell’esperienza mediale-virtuale: l’impossibilità di creare nuovi componenti che non siano stati presi dalla vita reale. Faccio un caso semplice: il colore. Avete mai visto un colore che non esiste grazie ad un dispositivo per realtà virtuale (o anche durante un sogno)? La risposta, sorprendentemente, è negativa e il motivo l’abbiamo appena visto: in realtà, quelli che chiamiamo sistemi per la realtà virtuale non sono per nulla “virtuali” ma sono oggetti fisici (meravigliosi nel loro funzionamento) che ci mettiamo sul naso e davanti agli occhi. Quindi il virtuale è, almeno da un punto di vista ontologico, perfettamente reale. Quello che succede è semmai che interpretiamo in modo (volutamente e dilettevolmente) errato quello che abbiamo davanti agli occhi. Ci inganniamo, ma non sono i sensi a essere ingannati (grazie Kant!), ma i nostri giudizi.
Come quando si vede un miraggio e si pensa che ci sia un lago di acqua fresca in mezzo al deserto (o su una autostrada assolata) e invece c’è solo uno strato di aria calda. Non vediamo qualcosa che non c’è. Vediamo esattamente quello che c’è: uno specchio naturale fatto da aria calda. Lo stesso avviene nei sistemi a realtà virtuale. Non vediamo qualcosa che non c’è (mentale o virtuale che sia), ma vediamo qualcosa che c’è e pensiamo che sia qualcosa di diverso (uno zombie feroce che dobbiamo colpire, un panorama tropicale, una macchina di formula uno). La sensazione non mente mai, il nostro giudizio spesso erra.
Il libro è comunque molto interessante, per la ricchezza dei casi raccontati, ma ci dovrebbe indurre a riflettere sulla mancanza di innocenza delle metafore e delle analisi storiche che, spesso involontariamente, si fanno portavoce di un quadro ontologico di riferimento che non è detto sia giustificato né empiricamente né concettualmente. Oggi il sogno è un fatto della nostra esistenza, ma è anche qualcosa che non trova collocazione nella descrizione scientifica della realtà. È un fatto misterioso che la scienza descrive, ma non spiega. Usarlo come metafora della tecnologia del virtuale potrebbe indurre troppo facilmente a una ingenua riduzione tra due fenomeni completamente diversi. Di che cosa è fatto un sogno? Nessuno lo sa veramente. Sicuramente non è un’immagine prodotta da un dispositivo, naturale o artificiale che sia. Riflettiamoci quando andiamo a dormire: non stiamo entrando in un cinematografo neurale. Dove si proiettano i sogni? Forse i sogni non sono il tipo di cosa che si proietta… e questo spiegherebbe perché non c’è alcuno schermo dentro di noi. Il sogno sfida le nostre certezze. E questo è sempre bene…