Vedere / El Greco, Vista e mappa di Toledo

16 Maggio 2020

Una delle poche cose che sembrano evidenti nella Vista e mappa di Toledo di El Greco è la necessità – immediata e non analitica – di scomporre da subito l’insieme in parti distinte. Ovvero il fatto che la composizione non voglia “stare” insieme. Partiamo allora da una prima identificazione delle componenti principali. Vediamo: a) la città di Toledo, b) il cielo con le nuvole, c) la Vergine con il suo entourage, d) l’allegoria del fiume, e) una grossa nuvola, f) l’ospedale di San Battista (o ospedale Tavera), g) la mappa di Toledo, h) un giovane che regge la mappa. Esistono anche altri elementi più minuti, per esempio, in vicinanza dell’ospedale un cannone (?) e una colonna (della peste?). 

Una più attenta osservazione permette una descrizione più precisa. La città di Toledo non è soltanto divisa fisicamente in due parti (una parte entro le mura, una fuori), ma anche scopicamente: la parte bassa, sulla sinistra, appare infatti come distorta. La “mappa” di Toledo nelle mani del giovane è un oggetto plurimo; si tratta, a ben guardare, di un foglio con la pianta della città, munita di didascalie sul lato sinistro e di una scritta. Insomma, più si osserva il dipinto, più quest’ultimo si suddivide ulteriormente in nuove parti. 

 

Soffermiamoci sulla funzione referenziale di ognuno di questi elementi. La città di Toledo rappresentata dovrebbe mostrare la città di Toledo esistente. Sappiamo però che l’artista applica alla città una deformazione notevole (lo farà, ancora più decisamente, nell’altra vista di Toledo, quella che oggi si trova al Metropolitan Museum). La nostra è una vista inusuale di Toledo suggerita da un punto di vista anch’esso piuttosto inusuale. Il cielo è il cielo, ma lo è in modo altamente teatrale (siamo all’inizio del Seicento, secolo che prediligerà tali scenari). La Vergine (e il suo gruppo) appartiene a una sfera tutta sua, un dato sottolineato anche dal fatto che appaia, per così dire, “copy pasted”, cioè incollata su un cielo che le serve da sfondo. Tale stranezza (molto presente nell’opera del pittore) potrebbe, certo, corrispondere alla peculiarità della visione che si oppone alla percezione (per esempio quella della città). L’ubicazione ontologica della Vergine e di San Ildefonso sarebbe in questa luce sacra quella “alta”, quella fuori dagli schemi spazio-temporali. Anche la figura allegorica del fiume sembra isolata in un mondo tutto suo. Si è detto, e gli elementi “vaso” e “cornucopia” sembrano indicarlo, che si tratti dell’allegoria del fiume Tago, poco visibile in questa prospettiva di Toledo. Il fiume allegorico crea però anche (tramite il Marforio e la sua tradizione antica, che El Greco deve aver studiato nei suoi anni italiani), un collegamento tra la Toledo non più imperiale e la Roma antica (una successione Tevere-Tago). Si è detto che il giovanotto che porta la mappa sia il figlio dell’artista, Jorge Manuel Theotokopuli. Va osservato che ciò che sembra contare in primo luogo sia il fatto che il giovane regga l’elemento iconico-verbale, la mappa girata verso di noi in modo dimostrativo. Abbiamo già sottolineato la complessità della mappa, ovvero del foglio con la mappa che sembra piuttosto essere incollato sulla tela che non farne parte. Da tempo ci si chiede se questa mappa sia stata dipinta sul foglio o rappresenti invece la trasposizione pittorica di una (vera) mappa disegnata da El Greco stesso. Dunque, esiste il dipinto che contiene il foglio che contiene la mappa, che contiene le didascalie, ciò che complica non poco la rappresentatività di un elemento che dovrebbe, al contrario, garantire una forma di traduzione della realtà particolarmente veritiera.

E ora gli elementi più perturbanti in assoluto: l’ospedale di San Giovanni Battista e la sua nuvola. L’ospedale, chiamato a Toledo anche “hospital de afuera”, non è l’ospedale reale, bensì, come lo dice il commento sul foglio, soltanto il suo modello. (“Ha sido forzoso poner el Hospital de Don Joan Tavera en forma de/ modelo porque no solo venia a cubrir la puerta de Visagra mas/ subia el cimborrio o copula de manera que sobrepujava la ciudad y/ asi una vez puesto como modelo y movido de su lugar me parecio/ mostrar la haz antes que otra parte y en los demas de como viene con/ la ciudad se vera en la planta.”) La nuvola, che occupa con testardaggine il suo (finto) posto, sembra avere qui in basso, dove una nuvola non dovrebbe stare, soltanto la funzione di sorreggere l’ospedale. (Tanti elementi in questo dipinto servono a “reggere” o a “sostenere”: la Vergine porta per così dire il Santo, il giovanotto porta il foglio/mappa, il fiume porta la cornucopia e l’urna con l’acqua, la nuvola porta l’ospedale.) 

 

 

Certo, come strategia comunicativa non si può immaginare niente di peggio: ecco una città in parte deformata, vista da chi sa dove, con una sua parte, sulla sinistra, sfigurata in modo quasi espressionistico (El Greco ci ha abituato a queste storpiature); ecco anche un cielo, una Vergine, uno strano dio fluviale e un giovane – tutti persi nella loro sfera o isola individuale. Ma c’è di peggio ancora. Se si tiene presente che l’artista sia sicuramente stato coinvolto nel prestigiosissimo progetto dell’ospedale e che il dipinto vi sia legato a duplice filo attraverso il probabile committente del quadro e direttore dell’istituzione, Pedro Salazar de Mendoza, perché allora mostrare un ‘misero’ modello ubicato in una specie di waste land periurbano? Buttato lì, sembra quasi che l’ospedale e ciò che lo circonda sia l’espressione di una gigantesca burla.

Cerchiamo ora di osservare meglio – sempre seguendo la logica referenziale – alcuni meccanismi all’interno del quadro.

 

Iniziamo con la figura allegorica. Un elemento pittorico rappresenta una scultura che rappresenta un fiume, oppure l’idea di un fiume. La figura stessa è confinata in un’atmosfera bronzeo-dorata tutta a sé stante, ciò che rinforza l’effetto di collage della sua apparizione. È un fiume grottesco, molle, onirico, una specie di embrione; è comunque poco adatto se vi si vuole riconoscere in chiave celebrativa la fonte che ha dato mitologicamente inizio alla fondazione della città. Si potrebbe, certo, pensare a un fiume nel contempo antico e moderno (il Tago), ciò che ci riporta ancora una volta all’idea di fiume in chiave emblematica.

Ritorniamo alla città stessa. A prima vista, il dipinto visualizza e valorizza la città di Toledo tutta. Di che tipo di rappresentazione si tratta però? Panoramica (nello stile di Hogenberg, Toletum 1572) o paesaggistica, nel senso di un vero vis-à-vis? O vale piuttosto la mescolanza di varie prospettive una accanto all’altra? Dove sta il pittore? Si tratta di un paesaggio ‘reale’ o di un paesaggio della mente che permette varie stranezze? 

 

Le perplessità riguardano anche il gruppo con la Vergine. La sua apparizione ricorda da subito una configurazione “à la El Greco”. È come se il pittore citasse qui un suo modo di dipingere/raccontare, un suo modo caratteristico di raffigurare. Che tutto questo gruppo appaia come incollato sul cielo/sul fondo-nuvola ricorda un modo di rappresentare ormai démodé (pensiamo all’Agnello mistico di Gand, dove van Eyck “incolla” il sole sul cielo). 

Tutto si complica quando si inizia a combinare due o più elementi distinti di questa opera-puzzle. Il gruppo della Vergine appartiene a una sfera del tutto diversa da quella del fiume allegorico. Esiste comunque un legame se si segue la relazione fra la Vergine e la città: le due componenti hanno in comune la figura tutelare di San Ildefonso accolto dalla Vergine stessa. Qual è però la relazione topografica fra il santo e la sua città? È interessante sottolineare che la chiesa di San Ildefonso verrà costruita a partire dal 1629 e che all’epoca del dipinto i gesuiti possedevano soltanto un terreno vuoto – un waste land? – nel cuore della città, acquistato nel 1569. 

Una breve sintesi ci porta a un risultato contraddittorio. Da una parte, tutti gli elementi maggiori sembrano gridare “guardami!”. La città, la Vergine, il Fiume, il giovane, la mappa, l’ospedale, la nuvola: tutto attira l’attenzione (alla maniera di I am a Monument di Robert Venturi.) Tutto esige attenzione – si veda il sesto dito del giovanotto! – però sempre in modo individual-totalizzante. Ogni elemento si dà come mostrativo, importante, rilevante, senza che l’insieme fornisca una dimostrazione generale coerente. Anzi, tutte le parti sono già delle totalità. La città lo è evidentemente, in quanto contenitore di tutto quanto accade qui; la Vergine lo è, perché figura tutelare assoluta; il Fiume lo è, perché – simbolicamente – fonte di vita, cioè di acqua e di beni di ogni genere (cornucopia); anche la pianta lo è, visto che rappresenta in modo diverso la totalità del territorio di Toledo; e lo è pure l’ospedale in quanto elemento centrale che attira più degli altri l’attenzione proprio grazie alla sua ubicazione inconsueta. Ognuno di questi elementi attira lo sguardo, ognuno è presente in modo dimostrativo, però ognuno annulla l’elemento a lui vicino. La relazione fra le parti – essenziale in chiave ermeneutica – porta qui a un vicendevole annullamento. Ogni elemento sposta l’attenzione dall’altro, lo contraddice, senza possedere la forza necessaria per imporsi sugli altri.

 

 

Parlare di ermeneutica in questo caso può sorprendere, perché El Greco non è un filosofo. Ma è proprio in quanto artista che il cretese, toledano per adozione, pensa filosoficamente; pensa tramite la sua opera pittorica e vede, prima dei professionisti del pensiero, i fenomeni che riguardano lo sguardo, la rappresentazione, la relazione dell’immagine al codice verbale, insomma, tutto ciò che è essenziale. L’ermeneutica – quale Schleiermacher la definirà nell’Ottocento – si basa sulla relazione tra parti e insieme. Comprendere un’opera equivale a portare avanti un processo che va dall’insieme alle parti e dalle parti all’insieme. Proprio questo genere di processo, di solito automatico o inconscio, è rimesso in questione nel quadro di El Greco; da un lato, le parti assorbono l’attenzione tutta senza entrare in contatto con le altre parti, mentre dall’altro, l’insieme resta labile e problematico.

Arrivati a questo punto occorre soffermarsi un po’ più a lungo sulla nuvola che regge l’edificio dell’ospedale. La storia dell’arte, dal Quattrocento in poi, ci ha abituati a una serie di nuvole strane. Pensiamo, per esempio, alle nuvole di Mantegna, a quella magnifica del suo San Sebastiano (1456), che fa vedere in trasparenza il Cavaliere dell’Apocalisse, oppure alla faccia che si intravede nella nuvola dell’Oculo della Camera degli sposi

 

 

Una nuvola fantastica appare anche nel San Giorgio (National Gallery) di Paolo Uccello, una nuvola-vortice piena di energia (divina?), che sembra dirigere la mano del santo liberatore. La nuvola del nostro dipinto non fa parte di questo repertorio di nuvole, analizzate magistralmente da Hubert Damisch (Théorie du nuage). Questa nuvola asemantica, spostata e manipolata (lo dice il commento stesso) non è una nuvola, ma piuttosto un oggetto-nuvola o una nuvola-oggetto. Proviene dalla tradizione italiana delle “nuvole” teatrali inventate, secondo il Vasari, dall’ingegnere fiorentino Cecca. L’adorazione dei Magi (1461), sempre di Mantegna, illustra bene la forma e la funzione di tali nuvole ovattate che permettono di ‘sollevare’ le figure sacre. 

 

Anche la nuvola che porta l’ospedale Tavera è una nuvola teatrale e ricorda gli spettacoli religiosi. Come quella che il Cecca aveva realizzato per la festa dell’Ascensione, dove si vedeva una montagna in legno con un Cristo asceso su una nuvola ricoperta di cotone e piena di cherubini, serafini e altri angeli (Damisch, 104). Secondo il Vasari, Cecca non è soltanto l’inventore delle nuvole in movimento (“E dicesi che le nuvole che andavano per la festa di San Giovanni in Fiorenza a processione, furono ingegno suo, che certo sono tenute cosa bellissima”); costruì anche altri oggetti, per esempio degli edifici in miniatura: “Fece egli ancora uno edificio, che per nettare e racconciare il musaico nella tribuna di San Giovanni si girava, s’alzava et abbassava et accostava, che due persone lo potevano maneggiare, cosa che diede al Cecca riputazione grandissima.” La nuvola e il modello dell’ospedale della Vista e mappa di Toledo traggono da qui la loro origine, dalla storia delle rappresentazioni sacre in forma teatralizzata. El Greco stesso ricorre fra l’altro a degli oggetti-nuvola comparabili, una volta nella Vista di Toledo del Metropolitan Museum, sulla sinistra, dove una esile nuvola serve come base a un edificio (il monastero di Agali, dove Ildefonso iniziò la sua carriera ecclesiastica) e soprattutto nella sua Annunciazione, dove l’arcangelo Gabriele posa i piedi su una soffice nuvola-cuscino. 

 

 

La nuvola che ci interessa, bianca, grigia e bluastra, quasi lieve malgrado la sua materialità pittorica, è priva di riferimenti. Diversamente dalle nuvole di Mantegna, che nascondono visi o figure meravigliose, la nuvola di El Greco non nasconde nulla e non dice niente. Vicina ad altri elementi che sembrano indicare con forza qualcosa – “Guardami! Sono il fiume!”, “Sono la Vergine!”, “Sono la città di Toledo!”, “Sono un giovane che ha delle cose da mostrare!” –  il segno nuvola resta muto. E la cosa si spiegherebbe, almeno in parte, se la nuvola servisse da oggetto identificabile di una scena teatrale. E si spiegherebbe anche il fatto che nel nostro quadro niente appaia al suo posto, a cominciare dall’ospedale, poiché ciò che vediamo sarebbe il risultato di un bricolage spettacolare. Ma attenzione, c’è una differenza sostanziale tra una scena teatrale (dove il teatro comprende tutto) e la teatralizzazione di una scena (che resta da definire). Certo, il Seicento, quello del Siglo d’Oro, vedrà spesso il mondo come un gigantesco teatro. Nella Vista e mappa di Toledo il teatro e la pittura convivono senza diventare tutt’uno. Benché proveniente dalla tradizione teatrale, la nuvola che irrompe nel quadro non assorbe automaticamente tutto ciò che vediamo all’interno della prospettiva della macchina teatrale. Anche perché esiste, come abbiamo già sottolineato, un problema preoccupante circa il punto di vista. Abbiamo già notato in che modo il pittore commenti, nella sua stessa opera, la necessità di manipolare le proporzioni e l’ubicazione di elementi come la Vergine, la nuvola e l’ospedale, nonché la deformazione che si intravede nella parte extra muros della città quasi anamorfica. 

 

 

Ora, una gran parte di questi problemi di costruzione visuale si spiegano con un fatto rilevante: il punto di vista più probabile della composizione globale risulta essere proprio la torre dell’ospedale Tavera. L’io, la fonte di questa visione, il pittore, sta sulla parte più alta dell’edificio emblematico, ciò che evidenzia pure il motivo per cui nella rappresentazione non potrà apparire che il modello e mai l’originale. Vedere l’ospedale da lì è una impossibilità ottica e logica, un fatto che viene compensato dalla presentazione della maquette. Questa forzatura crea una contraddizione di base, poiché il dipinto postula un luogo e/o una scala che non possono coesistere. Guardando in quella direzione, noi vediamo questa stessa impossibilità materializzarsi grazie al simulacro dell’ospedale. L’osservazione attenta del punto apparentemente più debole della composizione, ma che è in realtà il suo punto di forza, permette di comprendere questo nodo ermeneutico. 

 

Riprendiamo il filo del nostro iter interpretativo. All’inizio, questa tela ci sorprende (in una fase prelinguistica dove non “sappiamo” gran che). Man mano che procede l’analisi, la nostra impressione iniziale dà luogo a una visione iconograficamente più salda: abbiamo identificato dei dettagli, abbiamo trovato delle spiegazioni, sappiamo più o meno di chi e di cosa si tratti (Ildefonso, l’ospedale Tavera, il fiume, il figlio…). Si raggiunge però in fretta un limite, visto che le spiegazioni tradizionali non risultano soddisfacenti. Affermare che si tratti dell’elogio della città appare riduttivo e fuorviante (il dipinto pone troppi problemi, complica le cose); dire che l’opera serva come strumento propagandistico per il figlio del pittore, probabilmente rappresentato a destra, sembra fuorviante; dire, infine, che il quadro rappresenti un gioco intellettuale da parte dell’artista, che grazie all’autoreferenzialità – à la Leonardo – rivendichi l’onnipotenza della pittura, equivale ugualmente, secondo noi, a una lectio facilior. Disturba soprattutto l’idea stessa di auto-referenzialità allorché tutto ciò che vediamo in questo dipinto si offre alla vista e invita all’identificazione. Ciò che vediamo, in altre parole, non ha senso, ma conferisce senso. Dobbiamo quindi, sempre e comunque, ritornare all’opera. Dobbiamo seguire la “logica degli occhi” (Cézanne), e non quella dei programmi e dei concetti.

 

 

La Vista e mappa di Toledo è una magnifica dimostrazione dell’idea kantiana dell’arte che si basa sulla forma e non sul concetto. Partendo dalla teatralità menzionata più su e applicandola al disordine spaziale della composizione verrebbe certo in mente una spiegazione del tipo: El Greco arrangia le cose secondo un progetto scenografico, segue un programma, esiste una logica profonda e nascosta, ecc. Tali spiegazioni vengono però ridotte ad absurdum dal quadro stesso. Ogni volta che ci soffermiamo su un singolo elemento, quest’ultimo, che ha attirato con forza la nostra attenzione, si richiude, resiste ed elude il nostro tentativo di una lettura coesa e globale. L’opera, realizzata nel periodo che va dal 1600 al 1614, parla di un mondo che è completamente cambiato. Parla delle intuizioni di un monaco bruciato vivo nel 1600 a Roma, quel Giordano Bruno, che aveva smontato per sempre il sistema geocentrico; parla della visione angosciata di un Pascal esposto a un universo sconfinato e vuoto. Il fatto stesso che nel nostro puzzle toledano gli elementi non appartengano a un insieme logico, che tutto sia distinto e separato, viene espresso magistralmente attraverso un punto di vista impossibile. 

 

Continuando a guardare il dipinto mi convinco sempre di più che la chiave sia da ricercare proprio nella nuvola. Va aggiunto subito che parlare di chiave è forse sbagliato, poiché non esiste un meccanismo che apra miracolosamente le porte dell’interpretazione. Non esiste un messaggio, un segreto, una mappa concettuale che spieghi tutto. Non esiste perché El Greco non traduce un concetto o un programma in immagine. La spiegazione – o le spiegazioni – devono venire da noi, cioè da tutti coloro che prendono il tempo di esporsi a quest’opera. Ci vuole uno sforzo immaginativo – un po’ alla Hercule Poirot, ma senza un colpevole finale – per immedesimarsi ancora di più nel quadro. Di solito, quando guardiamo un dipinto, esso funziona, per dirla con l’Alberti, come una “finestra aperta”: la tela, cioè la superficie a due dimensioni, permette di creare uno spazio immaginativo. È così che “entriamo” in un dipinto, soprattutto in un dipinto di paesaggio. Tale meccanismo è ostacolato in tutti i modi nella Vista e mappa di Toledo. Vediamo un paesaggio urbano ma strano, deformato; una divinità fluviale che è dentro la sua bolla autoreferenziale; la Vergine la cui apparizione sa da subito di finzione; un giovanotto irreale, che sembra piuttosto un porta-cose che una persona in carne e ossa; una mappa che promette la corretta prospettiva, ma la legenda tradisce i trucchi usati; il palazzo dell’ospedale di San Battista è un modello goffo posto in un no man’s land. L’unico elemento autentico pare essere proprio la nuvola. 

 

 

Diversamente dagli altri elementi plastici che attirano il mio sguardo obbligandomi a immaginarli tutti in un loro spazio (seppur disgiunto), la nuvola non è un corpo. Certo, da una parte dovrebbe reggere l’ospedale, ma quello non è l’ospedale, è solo un simulacro posato chissà dove. La nuvola, il vuoto, nel cuore del paesaggio toledano, è il vero centro del dipinto. Come la pittura in generale (anche questa), la nuvola è piatta, mera superficie. Entrambe, la pittura e la nuvola, stanno alla base di un atto che trasforma i dati superficiali (la materia pittorica, i pigmenti) in una immagine. Mentre il dipinto nel suo insieme si dissolve in modo centrifugo in altrettante scene a sé stanti, la nuvola – centripeta – resiste. Mentre gli altri elementi ‘parlano’, la nuvola resta silente. Mentre gli elementi che la circondano implicano processi conoscitivi (il Fiume rimanda al fiume Tago che si intravede sul quadro che si ritrova sulla mappa che è fonte di vita, ecc.), la nuvola non ha nulla da dirci. È soltanto qui, confrontato a questa macchia non-referenziale, che l’occhio trova per un attimo riposo. Tutto ciò vale però soltanto in un primo tempo, durante il processo quasi-automatico della prima lettura della composizione e della ricerca di frammenti di senso che, messi insieme, potrebbe fornire (come avviene di solito) le condizioni di possibilità per una lettura globale. Nel nostro caso, in un secondo tempo, le cose appaiono capovolte. Tutti i tentativi di stabilizzare, di collegare in un tutt’uno coerente gli elementi elencati sono vani. Ricordiamo ancora una volta la straordinaria lezione di Kant in materia estetica: ciò che ci attira in un’opera d’arte piace senza interesse e senza concetto.

 

Questo non implica l’assenza di concettualizzazione durante l’incontro con l’opera d’arte, al contrario. Confrontati con un capolavoro, la complessità di quest’ultimo renderà ogni concettualizzazione relativa e comunque incapace di contenere il tutto (altrimenti basterebbe un concetto per spiegarla). L’opera d’arte è, epistemologicamente parlando, esplosiva; genera concetti che, una volta applicati, risultano insufficienti. Anche l’incontro con la Vista e mappa di Toledo segue questa logica. Quelli che abbiamo definito elementi principali, la Vergine, il Fiume, la mappa ecc. richiedono una lettura che proceda in modo sistematico, via l’identificazione del significato degli elementi rispettivi. La città è la città, la Vergine è la Vergine, e così via. Quanto appare nel dipinto è, in altri termini, collocabile: la città rappresentata corrisponde alla città reale; la mappa rappresentata corrisponde a una mappa vera; il Fiume corrisponde al Tago, e così via. Sarebbe facile immaginare tutti gli elementi incollati su un grande moodboard di Toledo. A ogni elemento corrispondo luoghi e nomi precisi.

 

 

 

L’identificazione degli elementi menzionati procede in questo modo referenziale fino all’apparire di certe stranezze già discusse; infatti, il nostro moodboard non crea un insieme ma scompone in modo inconsueto la realtà di Toledo. 

È a questo punto che una seconda lettura permette di compiere un passo in avanti; una lettura che prenderà il suo avvio per forza dalla nuvola, poiché quest’ultima sembra l’unico elemento non collocabile del quadro. Mentre a una prima analisi la nuvola appariva come un punto di riposo – non occorreva identificare qualcosa, o seguire un percorso referenziale basato su similitudini –, ora appare come fonte maggiore di perplessità. La nuvola è, raffrontata con ciò che la circonda, l’elemento più problematico e surreale, in quanto apparso da chi sa dove e spostato quaggiù. Benché priva di significato immediato (non è né pianamente teatrale, né meteorologica), la nuvola rimanda a qualcuno: alla mano dell’artista che l’ha voluta e inserita qui. Con la nuvola, El Greco interviene nella composizione con un gesto anticipatorio che apparirà nella storia dell’arte europea soltanto molto più tardi. Penso soprattutto a Monet e a Manet, due artisti che decostruiranno pesantemente la coerenza di molti loro dipinti, in cui si percepisce nel contempo una scena (spesso un paesaggio) e delle macchie, cioè la materia pittorica autonoma e integrata, appositamente in modo maldestro, nell’insieme. La nuvola della Vista e mappa di Toledo precorre questa possibilità. Laddove tutti gli altri elementi spostano l’interesse da ciò che appare (la Vergine rimanda all’idea della Vergine, ecc.), per la nuvola questo meccanismo non funziona.

 

L’immanenza della nuvola posta a mo’ di readymade, la resistenza del segno nuvola che non può essere assorbito in un concetto più ampio, la sua incollocabilità e impossibile identificazione – tutto ciò funge, al secondo livello di lettura, da punto di partenza per nuove concettualizzazioni. Se il piacere estetico è, come lo definì Kant, il risultato del fatto che un’opera d’arte metta le nostre capacità intellettive e immaginative in movimento, allora il luogo, in cui nel nostro dipinto tale attività estetico-esistenziale può procedere indefinitamente, è proprio quello occupato dalla nuvola. A prescindere dal fatto che parlare di occupare un luogo in questo caso può già sembrare fuorviante: dove sta, in verità, questa nuvola? Il gioco (e il piacere di indagare) ricomincia daccapo.

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