Emma Dante. Via Castellana Bandiera
Ci sono molti aspetti interessanti nell’esordio alla regia cinematografica di una regista di teatro attiva da almeno un quindicennio, acclamata all’estero, controversa ma di sicuro molto popolare in Italia, con una carriera fatta di alti (ricordo alcuni anni fa uno studio su Vita mia in un centro sociale a Palermo: la violenta fisicità degli attori, la netta impressione degli spettatori di essere di fronte a un dolore reale, vivo, che occupava letteralmente la scena) e di bassi (qualche anno dopo Cani di bancata: grande successo di pubblico, ma decisamente troppo didascalico).
Sono molti gli artisti, da Roberta Torre a Emma Dante allo stesso Cuticchio, per citare solo i più noti, che hanno – per scelta o per naturale elezione – scelto di far base in una città che oltre ad essere un vero coacervo umano è anche il luogo di cui si nutre la loro immaginazione. D’altra parte, cos’è l’immaginazione senza il luogo da cui nasce? Emma Dante, per esempio, è il direttore artistico di uno spazio, La Vicaria, “privato, autogestito, autofinanziato, indipendente, aperto, instabile, insubordinato”, come si legge sulla homepage del sito. Un laboratorio teatrale, di cui non abbiamo difficoltà a immaginare le difficoltà quotidiane di gestione, dato che Palermo oltre ad essere un luogo straordinariamente fecondo dal punto di vista artistico è anche un buco nero di spazi, idee e risorse. Ma d’altra parte, il fatto che la casa dell’immaginazione sia un luogo fatiscente non è motivo sufficiente per cercarne un’altra, anzi.
Nel parlare di Via Castellana Bandiera Emma Dante ha parlato non a caso di una ricerca artistica che corrisponde a un cammino, a un “essere sulla strada” (il che ci porta subito al nucleo centrale del film). Che lo abbia fatto consapevolmente o no, registro in ogni caso l’ammissione di “essere alla ricerca” di una, o più, strade espressive adatte al proprio percorso. O meglio, adatte al punto del percorso in cui l’artista si trova in un questo momento. Non credo che ci siano artisti italiani che, dopo parecchi successi e una costellazione di lavori molto diversi tra loro, siano pronti a sottoscrivere una simile dichiarazione di poetica.
Non credo che Via Castellana Bandiera sia, come da più parti è stato detto, una metafora del pantano italiano: le due parti che non vogliono cedere il passo, il teatrino della politica a fare da sfondo della microstoria di due macchine rimaste bloccate dentro una strada troppo stretta. Basta osservare la concentrazione nervosa del volto della Dante per capire che questo film è prima di tutto una questione privata; un duello con la città e i suoi fantasmi in cui, come in ogni western che si rispetti, gli altri attori possono solo agire da comprimari della sfida che si svolge sotto i loro occhi (cianciando di Via Castellana Bandiera qualcuno agita ancora lo stendardo del realismo, come se davvero un artista dovesse essere fedele a nient’altro che a se stesso e alla propria immaginazione, che è legge).
Via Castellana Bandiera, è stato giustamente notato, possiede tutti i difetti e tutte le virtù della sua regista. Più virtù, se è vero, come mi sembra, che un certo rischio di didascalismo e di eccesso espressivo sia tenuto abilmente sotto controllo. A ben guardare, dei conflitti che agitano l’animo delle protagoniste e le tengono inchiodate al sedile della loro auto lo spettatore sa molto poco. Quasi nulla, anzi, a parte un accenno iniziale a un disaccordo strutturale tra la protagonista e la madre che si dirama ben presto in intolleranza verso la città.
Non servono altri dati, a ben vedere, anche se è vero che lo spunto da cui si dipana questa microstoria è realmente minimo e resta tutto appeso alle facce delle tre donne e, allargando lo sguardo, alle facce e ai corpi degli altri personaggi, ai rari squarci della città, alle suggestioni della colonna sonora, alla pace improvvisa che si produce quando la tensione finalmente si scioglie e gli abitanti della città sembrano, da soli o a piccoli gruppi, correre verso il mare.