Vita e morte / Eppur si nasce
Forse l’approssimarsi del Natale, forse un paio di attese di persone a me vicine, forse l’aver partecipato da poco a un intenso convegno internazionale sul questo tema, fatto sta che la nascita, come evento e come oggetto di riflessione, ultimamente si è imposta alla mia attenzione con rinnovata intensità.
Perché i bambini continuano a nascere: è nata Constance, è nata Emma, in breve tempo sono venuti al mondo Dylan, Eva e Edoardo. Nonostante la pandemia e le sue varianti giovani donne singole o in coppia trovano il coraggio di mettere al mondo bambini. E anche riflettendo non sulle gravidanze ma sulla filosofia, si nota subito che da alcuni decenni essa ha spostato il baricentro dall’interesse esclusivo per la morte a quello per la nascita.
Il pensiero della morte
Di fatto la filosofia è sempre stata un pensiero della e per la morte, al punto tale che il sillogismo, anzi l'esempio classico che spiega il meccanismo logico del sillogismo, è arrivato fino a noi con le parole della morte: Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale. Il che vuol dire che Socrate è un uomo perché è mortale, e che la caratteristica più rilevante dell'uomo è la sua mortalità, e l'evento più importante della sua vita è la sua morte. La filosofia è sempre stata focalizzata sul paradigma della morte, dell'essere-per-la morte. È la tanatologia filosofica nata col pensiero greco e che vede un ritorno imponente nel pensiero del Novecento, con Martin Heidegger, Max Scheler, Vladimir Jankélévitch, Karl Jaspers, Gabriel Marcel e altri.
Ma se ci si pensa bene, anche la natalità fa parte della definizione umana. Tutti gli uomini nascono, sono nati. Di questa inversione dobbiamo rendere grazie a Hannah Arendt e in parte a Maria Zambrano. Il messaggio è stato raccolto anche da parte maschile, soprattutto da alcuni pensatori tedeschi: Hans Saner, Peter Sloterdijk, Ludger Lütkehaus. Essi si augurano che una filosofia della nascita prenda il posto di quella filosofia della morte (thanatologia) che tanto ha determinato la tradizione del pensiero cristiano-occidentale. Nelle loro proposte il peso viene spostato dalla fine o morte, all'inizio o nascita, e al fatto che con ognuno di noi viene al mondo un inizio. Ne ha fatto oggetto di un mirabile studio Silvano Zucal con il suo Filosofia della nascita, Morcelliana, 2017, cui sta per seguire un secondo tomo.
La nascita della filosofia della nascita
In una lezione scoperta da non molti anni, tenuta negli anni '60 e inclusa nella raccolta di saggi, Pensare senza balaustre, Hannah Arendt scrisse che per coloro che erano coinvolti nella Rivoluzione americana «l'esperienza di essere liberi coincideva, o meglio era intimamente intrecciata, con l'inizio di qualcosa di nuovo... e ovviamente questo misterioso dono umano, la capacità di far partire qualcosa di nuovo, ha qualcosa a che fare col fatto che ciascuno di noi è venuto al mondo come nuovo arrivato (newcomer) grazie alla nascita». In altre parole, noi possiamo iniziare qualcosa perché siamo iniziatori/principianti (beginners). E poiché la nascita è «la condizione ontologica sine qua non di tutta la politica – dichiara Arendt – il significato della rivoluzione (si riferiva alla Rivoluzione Americana degli anni '70 del Settecento, che precedette di poco la Rivoluzione Francese) è l'attualizzazione di una delle più grandi ed elementari potenzialità, l'esperienza ineguagliata di essere liberi di dar luogo a un nuovo inizio...».
Con questa e con poche altre asserzioni insomma Arendt aveva inventato la filosofia della nascita, basata sulla unicità dell’inizio di ognuno.
Hannah Arendt seppe concettualizzarla in sintonia con Sant’Agostino. Per il filosofo e padre della chiesa la natalità indica la designazione dell’esistenza dell’uomo in quanto inizio dell’inizio, dell’inizio in quanto inizio. «Con la creazione dell’uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso», scrive Hannah Arendt confermando le parole di Agostino nel De civitate Dei, secondo le quali «perché ci fosse un inizio fu creato l’uomo». Anzi per Agostino i due inizi, del mondo e dell’uomo, erano così diversi, precisa Arendt, che egli usò una parola per indicare quell’inizio che è l’uomo, initium, e un’altra per indicare l’inizio del mondo: principium. «Di questo qualcuno che è unico si può fondatamente dire che prima di lui non c’era nessuno», proclama Arendt (e la madre? E qui abbiamo un piccolo problema). Si è nati come per miracolo, «un bambino è nato tra noi». L'entusiasmo con il quale Hannah Arendt scopre la filosofia della natalità (o natologia) come inizialità è legato a un'occasione particolare. Nel maggio del 1952 le capita di ascoltare un concerto della Filarmonica di Monaco che esegue il Messiah di Händel. Durante l'esecuzione dell'Alleluja finale per coro e orchestra Arendt intuisce: «Ecco» scrive, «ho capito»:
Che opera... ho ancora l'Alleluja nella testa e nel corpo. Per la prima volta ho capito la grandiosità di quel «ci è nato un bambino», la «profonda verità della leggenda di Cristo: ogni inizio è salvezza... ogni nascita è come una garanzia della salvezza del mondo».
L'inizio della nascita, insiste Arendt, è l'assoluto inizio del bambino non soltanto come mera riproduzione della specie ma come ingresso di una nuova creatura «che in mezzo al continuum temporale del mondo appare come qualcosa di completamente nuovo»: non un nietzscheano ritorno dell'uguale, ma un ritorno del miracolo unico della nascita. Ma attenzione, perché così dicendo Arendt pare cancellare la madre e il parto dalla scena originaria. L’uomo creato dall’argilla e che prende l’iniziativa di agire appare, nella sua unicità e distinzione, a stregua di miracolo: e la madre? Arendt tace su questo punto.
Il sogno dell’uomo incinto
Questa nascita in assenza di madre ci fa risuonare qualcosa. Il sogno dell’uomo incinto, l’idea che l’uomo, il maschio, possa riservarsi il parto delle idee ma anche sconfinare nell’ambito del parto fisico. Del resto alcuni miti greci insinuano proprio l’idea che il dio, se non l’uomo, possa partorire mentalmente idee, creature dell’ingegno, ma anche, fisicamente, creature di carne. È il caso di Zeus che partorisce Atena direttamente dalla testa o Dioniso dalla coscia, nel primo caso con Efesto a fare da levatrice per mezzo dell’ascia bipenne (aiuto!), nel secondo con un più garbato Hermes.
Vorrei però ricordare un altro mito in cui a far venire al mondo un bambino speciale, nientemeno che Eracle, è la giovane aiutante levatrice, Galanthis. E lo fa avendo partorito un’idea, un’opera dell’ingegno, dimostrando così di godere, come donna!, della doppia maternità, delle idee e dei figli. Il mito dice così:
Alcmena di Argo, incinta di Zeus, giace da sette giorni nel travaglio del parto, sfinita dal dolore: invoca Licinia, dea delle partorienti, la quale si presenta sì ma corrotta da Giunone, gelosa del marito e intenzionata a far morire la rivale. Che cosa fece infatti Licinia? Lo racconta Ovidio nelle Metamorfosi: «si sedette su quell'altare lì fuori della porta, e messasi col ginocchio destro accavallato sul sinistro e le dita intrecciate a mo' di fibbia dentata, trattenne il parto.
Tra le donne che assistono Alcmena c’era un'ancella, Galanthis, che intuì che stava succedendo qualcosa di strano e, nel suo andirivieni, vide la dea che se ne stava seduta sull'altare in quella posa. Le disse allora, astutamente mentendo: ’Chiunque tu sia, congratulati con la padrona, Alcmena ha partorito, puerpera e figlio stanno bene’. Balza su la dea dei parti, sbigottita, e disgiunge le mani: sciolto il nodo, Alcmena espelle Eracle». Purtroppo Licinia, incattivita per la beffa, trasformò l'aiutante levatrice in donnola: eppure il messaggio che ci arriva è che proprio lei, una assistente levatrice, dopo aver collegato il lungo travaglio della partoriente con la posizione di Licinia, tirò le conclusioni e risolse il problema, risolse, sciolse i nodi delle gambe e delle mani della dea, i nodi degli incantesimi: così facendo, mentre Alcmena si sgravava secondo il corpo, la ragazza partoriva secondo l'anima.
Dimenticare la mortalità
In questa esaltazione del paradigma della natalità c’è però un grosso pericolo, che è quello di dimenticare la mortalità. Invece Virgilio è morto, Rosencrantz e Guildenstern sono morti, anche Ivan Il'ič è morto, muoiono le donne, non sempre di una morte dolcissima. Sono morti Remo Bodei, Elena Pulcini, Salvatore Veca, Carlo Tatasciore. Eppure il declino del ruolo della morte, il dimenticare la morte e la mortalità, la amortalità oggi regnante che ha messo la morte nelle mani della tecnica – di cui scrive Luciano Manicardi nel suo Memoria del limite, La condizione umana nella società postmortale, Milano 2014, cfr. la recensione su doppiozero – porta anche il declino della natalità, ovvero dell’attenzione alla nascita e alla filosofia della nascita.
Come se avessimo buttato via il bambino con l’acqua del bagno, e mai proverbio fu più calzante, perché qui il bambino ce l’abbiamo davvero. La procreazione è infatti la risposta della vita alla morte, la procreazione è sempre stata una strategia di immortalità, il vivere nel figlio e nella stirpe quando non ci siamo più; ma se eliminiamo la morte, scrive Hans Jonas, «dobbiamo eliminare anche la procreazione, perché quest’ultima è la risposta della vita alla morte». Che senso può avere, in un ambito che cerca la vita prolungata il più possibile per l’individuo, la natalità? Generare sarebbe dichiarare la propria caducità, la propria sostituibilità, ma è proprio quello che oggi non vogliamo. Vogliamo la vita del corpo, la nostra vita del nostro corpo a ogni costo e questo crea perdita di interesse per il futuro e per le nascite.
Forse, per creare una sorta di equilibrio tra il paradigma filosofico della mortalità e quello della natalità potremmo immaginare, seguendo la proposta di Peter Sloterdijk, di accostare – accostare, non sostituire! – al sillogismo di Socrate (“Tutti gli uomini sono mortali”) un nuovo sillogismo (“Tutti gli uomini sono natali”), che noi chiameremo di Antigone. Potrebbe suonare più o meno così: Tutti gli esseri umani sono natali /Antigone è un essere umano/ Antigone è natale. E che un dio, magari Eracle, ce la mandi buona.