Fondazione Benetton, Treviso / La mina di Matticchio

29 Settembre 2018

Franco Matticchio. La miniera di polvere è il titolo che Giovanna Durì ha scelto per la personale dell’artista che si tiene fino al 14 ottobre presso la Fondazione Benetton di Treviso. La curatrice, che i lettori di Doppiozero conoscono per i suoi disegni al tratto dei passeggeri delle ferrovie del Nord Est, ha utilizzato il termine miniera perché, oltre a rimandare a un racconto di Matticchio, allude sia alla mina, cioè alla grafite della matita, sia allo “sminamento” necessario per far conoscere l’autore a una cerchia più vasta di quella che già lo apprezza in Italia e nel mondo. Matticchio, con quella sua aria da eterno ragazzo, ha più di quarant’anni di lavoro alle spalle: il ‘Corriere della Sera’ dal 1979, il bel ‘Linus’ degli anni Ottanta, ‘Linea d’Ombra’ che, attraverso Goffredo Fofi, fece conoscere una generazione di grandi fumettisti (Mattotti, Giandelli, Toccafondo, Scarabottolo, Negrin), ‘L’Indice’, fino alla copertina del ‘New Yorker’.

 

Negli ultimi anni i non molti lettori che si soffermano sulle immagini possono trovare le ‘Matticchiate’ ogni domenica sul supplemento culturale del Sole 24 ore, mentre il lavoro più narrativo del fumettista è stato raccolto da Rizzoli Lizard in due grossi tomi: Jones e altri sogni e Ahi e altri guai. Il signor Jones non è un gatto, anche se molto gli somiglia, è comunque un solitario dotato di uno humour impassibile alla Buster Keaton; al massimo scambia qualche parola con l’amico Dog. Dai racconti trapela una metafisica del quotidiano che avviene in ambienti borghesi, all’apparenza rassicuranti, ed è colta attraverso la dilatazione dell’istante. Matticchio è un narratore beckettiano, che continua a raccontare storie in un’epoca in cui venne decretata la morte del romanzo (rinato poi in forma di feuilleton). Può essere cattivissimo, come nella vera storia di Cappuccetto rosso (capolavoro paratattico), ma fatica a nascondere il romanticismo del timido a cui piacciono le donne con le gambe lunghe ma non sa come attaccare bottone. Il signor Ahi ha per faccia una pupilla ed è ancora più disancorato dalla realtà, anzi vorrebbe proprio uscirne.  

 

Gatti.


In una vignetta Matticchio scrive: “Il critico non conosce i propri limiti, l’artista sì”. La Durì, pur essendo una profonda conoscitrice della storia dell’illustrazione e del fumetto, si pone a metà strada, e organizza il materiale come una quadreria, disponendo le opere una vicina all’altra, in modo che i confronti siano evidenti e che, aldilà del virtuosismo mai fine a sé stesso in cui si rende omaggio ad autori tra loro lontani come Jacovitti ed Edward Gorey, i diversi filoni dell’artista risaltino immediatamente. I critici migliori di Matticchio sono probabilmente i colleghi. Ha scritto Gabriella Giandelli, provando a definirne il ‘realismo magico’: “Per chi disegna esiste una linea sottile e fondamentale dove la realtà poco alla volta si trasforma e s’imbeve del nostro sogno, del desiderio che abbiamo di cambiarla, di renderla più vicina a noi e renderla carica di senso”. O di non senso, che ne è il rovesciamento. Senza senso è il titolo di un libro di Matticchio che, tra le altre cose, è un campione di acrobazie. Lorenzo Mattotti, dopo averlo accolto nella famiglia dei Matt (c’è anche Mattioli), afferma che: “non scrive con le parole ma scrive col disegno. Racconta con le immagini come se scrivesse”. In una tavola di Matticchio convivono un’infinità di storie, di storie in potenza, dove gli animali si antropizzano e gli uomini potrebbero prendere le fattezze di animali, senza per questo diventare bestie. Guido Scarabottolo ne ha offerto le istruzioni per l’uso

 

 

Passaggio segreto.

 

Il cognome del disegnatore sollecita giochi di parole. Il surrealismo quotidiano, un umorismo che può essere lieve ma anche puntuto, sono la sua cifra, anche se poi il mondo in grigio di Jones inquieta non poco (Edgar Allan Poe). Contagiato dai giochi di parole e per libere associazioni – il nucleo creativo del mondo di Matticchio – mi torna in mente il titolo di un film degli anni Cinquanta: L’uomo dal vestito grigio, con Gregory Peck. Mi pare che nel technicolor di quella Hollywood risieda un deposito di immagini che il disegnatore trasporta, scompaginandolo, nelle due dimensioni. Così in una tavola ci sentiamo contemporaneamente estranei e a casa nostra. Insomma, siamo da capo al sogno e ad Alice che attraversa lo specchio, ovvero all’atto di nascita delle avanguardie.

Sia lode a Matticchio e alla sua mina inesauribile e ben temperata!

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