Con il tempo e con la paglia... / Nespolo

26 Novembre 2017

«Poi quando viene l’autunno, l’ultimo profumo è quello dolce e amaro dei nespoli giapponesi» ricorda Giulia, la protagonista femminile del romanzo di Riccardo Bacchelli Una passione coniugale (1930). Chi ha un nespolo del Giappone in giardino (Eriobotrya japonica) sa che questa è una memoria stagionale e olfattiva netta, definita. È quel sentore amarognolo di mandorle che guida le api all’ultimo ricco bottino. 

Quando per i fruttiferi è tempo di raccolto, il nespolo giapponese fiorisce: rigide, bronzee pannocchie lanose e dense di piccoli fiori chiari si ergono all’apice dei rami, spiccano sulle lunghe lance delle foglie, lucide, coriacee e persistenti, tomentose anch’esse nel verso e nel picciolo breve. I gialli pomi maturano in primavera: poco meno grandi di un uovo, contengono tre o quattro grossi semi bruni ma avvolti da una polpa succosa, dolce e aspretta e rinfrescante, dalle molte proprietà.

 

 

Oltre che per la produzione di frutti, venne introdotto dall’estremo oriente alla fine del XVIII secolo per i suoi pregi ornamentali, apprezzabili ancor più nei mesi freddi. Si è poi naturalizzato sul territorio nazionale, specie nelle regioni dal clima mite. Rapido nella crescita, vegeta bene anche al nord, benché i geli prolungati possano rendere i fiori sterili. Gli esemplari adulti raggiungono anche i dieci metri d’altezza con un portamento eretto, chioma espansa, tondeggiante, dalla ramificazione sinuosa, e sfoggiano un’invidiabile corteccia screpolata a chiazze aranciate: altro che haute couture!

 

 

Ma il detto «con il tempo e con la paglia maturano le nespole» ha preso spunto dai frutti del nespolo comune (Mespilus germanica), essenza, come si usa dire, dimenticata. Viene dal Caucaso, e la Germania c’entra poco se non per il fatto che Linneo quando la classificò prese atto della sua grande diffusione in terra teutonica. È davvero peccato non veniale aver sfrattato questo arbusto da orti e giardini. A differenza del cugino nipponico (in realtà originario della Cina), il nespolo comune tra maggio e giugno mostra, sui rami spinosi, uno stupendo fiore bianco solitario, simile a una rosa canina (entrambi gli alberi, per altro, appartengono alla famiglia delle Rosaceae): ha lacinie persistenti, una corolla con cinque petali, cinque stili e più di trenta stami dalle antere rosse. Insomma, la grazia modesta d’un fiore che non prova invidia alcuna.

 

 

Fruttifica poi in autunno con piccoli pomi rugginosi (falsi frutti) dalla caratteristica cavità apicale depressa e circondata dalle lacinie residuali. Anch’essi ornamentali, sono poco appetibili (cinque e grossi i noccioli) e richiedono di ammezzire o sulla pianta o – meglio – in cassette di legno tra la paglia, per lasciar fermentare a dovere la scarsa polpa. Da qui, appunto, il proverbiale incentivo alla saggezza paziente.

 

 

In queste settimane novembrine il Mespilus impegna le foglie caduche, ellittiche e pelosette, finora d’un verde opaco, nello sfoggio della magnifica livrea ramata. Giapponese o germanico, un nespolo nel cortile o nel giardino di casa – una casa un poco più fortunata di quella dei Malavoglia – può rivelarsi utile anche per contemplare la vita, con lenta pazienza, intelligenza delle cose e del mondo. L’esempio viene dal vecchio Giano, come racconta Luigi Pintor nell’esordio del Nespolo (Bollati Boringhieri 2001):

 

Giano ha cento anni e ha deciso di sedersi sotto un nespolo a contare i giorni senza più cedere alle tentazioni mondane. Gli sembra una decisione assennata e adeguata alle circostanze. Non farà nulla e lascerà vagare i suoi pensieri come nuvole oltre il fogliame.

L’estate è una stagione che favorisce questa disposizione d’animo. I castagni e i faggi delle colline sono più ombrosi ma la preferenza di Giano per quest’albero gramo dipende dal fatto che ne aveva uno nel giardino di casa. Tra i suoi rami fioriscono ricordi più gradevoli di tutto il resto. 

 

Ma ascoltiamolo anche nelle sue ultime, sagge parole:

 

Prima di esalare l’ultimo respiro recita due versi: bocca di fonte, tu che dai, tu bocca che hai solo una parola e sgorga pura. E lascia scritto per testamento che l’acqua è in natura la cosa più bella, l’acqua limpida delle sorgenti, l’acqua trasparente dei ruscelli, l’acqua che colma l’anfora e trabocca, l’acqua che si raccoglie nel palmo della mano e si porta alle labbra per dissetarle quando il giorno finisce.

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