“Il flauto magico” a Bruxelles / Romeo Castellucci: toccare la luce

27 Settembre 2018

Non ci volle molto, dopo la sua prima rappresentazione a Vienna nel 1791, perché Il flauto magico divenisse una delle opere più celebri e rappresentate in tutta la tradizione operistica europea, fama che giustamente è continuata ininterrotta fino ai giorni nostri. Tra i suoi estimatori ci fu niente meno che il giovane Hegel, e una traccia di questo suo apprezzamento la si trova ancora nelle più tarde lezioni di Estetica dove viene lodata non solo la straordinaria parte orchestrale mozartiana ma anche il libretto di Schikaneder, che sarebbe da annoverare fra i più notevoli libretti d’opera fino ad allora mai realizzati: “il regno della notte, la regina, il regno del sole, i misteri, le iniziazioni, la saggezza, l’amore, le prove e, insieme a ciò, una moralità media che è eccellente nella sua generalità, tutto questo, insieme alla profondità, alla grazia incantevole e all’anima della musica, allarga e riempie la fantasia, riscalda il cuore”. Mozart e Schikaneder riuscirono in effetti a costruire con Il flauto magico un vero e proprio mito fondativo del progetto illuministico, inedito per l’epoca: la lotta della luce della ragione contro le tenebre della superstizione; la sconfitta del despotismo; la demistificazione di quello che prima sembrava giusto e che poi si capovolge nell’inganno; l’iniziazione a una nuova morale. Le ragioni dell’apprezzamento hegeliano sono in effetti comprensibili e completamente filosofiche. In uno dei suoi scritti giovanili (Il più antico programma dell’idealismo tedesco) Hegel scrisse infatti che “dobbiamo avere una nuova mitologia, ma questa mitologia deve essere al servizio delle idee, deve diventare una mitologia della ragione”… e sembra quasi che stia parlando proprio de Il flauto magico

 

 

Tuttavia bastarono una manciata di anni perché il racconto tutto in positivo della capacità emancipativa e liberatrice dell’Illuminismo iniziò a mostrare i propri limiti e persino qualche detrattore. Goethe ad esempio, che pure considerò straordinaria la scrittura musicale mozartiana, fu tutt’altro che convinto del libretto di Schikaneder, e decise dopo qualche anno di scriverne un vero e proprio sequel poi rimasto incompiuto (proprio per via della mancanza di un compositore che sapesse eguagliare la grandezza musicale della prima parte). Il suo testo è abitato da un’atmosfera che rovescia le promesse illuminatrici di Schikaneder: le forze dell’oscurità guidate dalla Regina della Notte stanno preparando una vendetta, il rapimento del figlio di Tamino e Pamina. Anche se la congiura rimane incompiuta, gli aiutanti della Regina riescono comunque a rinchiudere il bambino in una bara dorata, e la redenzione questa volta stenta ad arrivare interrompendo il testo di Goethe con un’angosciosa atmosfera di ambiguità (“La verità non sarà più su questa terra chiara così. L’alto tuo passo ora è compiuto, Notte profonda tutti ci avvolge”). Ma anche Hegel nella Filosofia dello spirito jenese, posteriore di solo qualche anno ai suoi scritti giovanili, scriverà che “l’uomo è questa notte, questo puro nulla, che tutto racchiude nella sua semplicità [...] Ciò che qui esiste è la notte, l’interno della natura – un puro Sé; in fantasmagoriche rappresentazioni tutto intorno è notte, improvvisamente balza fuori qui una testa insanguinata, là una figura bianca, e altrettanto improvvisamente scompaiono. Questa notte si vede quando si fissa negli occhi un uomo – si penetra in una notte che diviene spaventosa”. 

 


Dunque che cosa è successo in quei pochi anni che separano questi passi così cupi e colmi di disincanto di Goethe e di Hegel dalla prima de Il flauto magico? Senz’altro le speranze della Rivoluzione Francese si erano ormai compiutamente tramutate in Terrore, ma forse vi sono delle ragioni persino più profonde. Secondo il filosofo e studioso di opera Mladen Dolar si tratta semplicemente dell’arrivo della modernità, di quella sopraggiunta consapevolezza della scissione e della separatezza di un mondo dove la ragione non ha portato a una nuova conciliazione con la realtà ma semmai a un radicale disincanto e assenza di fondamento. Per usare le parole di Jean-Luc Nancy “Hegel è il pensatore che inaugura il mondo contemporaneo. […] Questo mondo percepisce sé stesso come il mondo grigio degli interessi, delle opposizioni, delle particolarità e delle strumentalità. Si percepisce come un mondo della separazione e del dolore che ne deriva, come un mondo la cui storia è successione di atrocità e la cui coscienza è quella di un’infelicità costitutiva”. Come è possibile allora approcciarsi a un Flauto magico che sembra davvero appartenere – già pochi anni dopo la sua composizione – a un’era geologica precedente? Come è possibile credere al percorso iniziatico di Tamino, e alla potenzialità “rischiaratrice” e consolatoria della ragione in un mondo – che poi è anche il nostro – che è ormai definitivamente gettato nell’oscurità del disincanto e nella sospensione di ogni certezza? 

 

È a partire da questo punto di vista che Romeo Castellucci decide di rovesciare il libretto di Schikaneder, operando uno spostamento della sua struttura duale e oppositiva – ma in definitiva conciliante –, e riuscendo nella difficile impresa di “straniare” l’opera mozartiana pur rimanendovi fedele. E infatti il suo Flauto magico presentato in questi giorni al Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles (conduzione dell’orchestra di Antonello Manacorda, drammaturgia di Piersandra Di Matteo e Antonio Cuenca Ruiz, collaborazione artistica di Silvia Costa) comincia proprio così: con l’orizzonte dei lumi (una luce a neon messa proprio al centro di un palcoscenico interamente nero) che viene spezzato. E getta il mondo circostante nella più assoluta oscurità. 

 

 

È a partire da questo nero, dove sembra essere scomparsa ogni distinzione, che nell’ouverture prendono forma delle serie geometriche che poi vanno a formare una bara: è la “notte del mondo”, la mancanza di ogni fondamento, ma soprattutto una precisa idea moderna della ragione – che poi abiterà gran parte dell’epistemologia e del pensiero razionalista del Novecento – che non è più al servizio narcisistico dell’uomo per favorire la sua appropriazione del mondo, ma che semmai lo getta nello sconforto più assoluto. Il primo atto di quest’opera è allora una decostruzione, paziente eppure spietata, di questa idea autenticamente pre-moderna (ma di cui Il flauto magico è infarcito), di una luce che rischiara l’oscurità, di una ragione che ha la meglio sulla superstizione, di un’emancipazione che non può che sconfiggere sempre la paura, perché è necessariamente dalla parte del giusto. Da sempre, tutte le cosmologie duali che oppongono il principio del giusto a quello dell’errore finiscono in realtà per rimanere intrappolate in un gioco di specchi e simmetrie: l’uno si ribalta nell’altro, il giusto nell’errore, l’altro nel Sé, la Regina della Notte in Sarastro e viceversa. È così che allora il primo atto sarà tutto improntato a un intricato gioco di simmetrie, dove tutto è doppio (Pagageno e Tamino si sdoppiano, le tre dame diventano quattro…) e dove ogni gesto, ogni figura, ogni movimento si ripete sempre due volte. Qui Castellucci si affida alle straordinarie scenografie dell’architetto svizzero Michael Hansmeyer – che costruisce a partire dalla proliferazione incontrollata di modelli algoritmici e stampanti 3D una profusione infinita di forme tondeggianti e modulari a metà tra enormi stucchi rococò e impazzite macchie di Rorschach – e ai vuoti movimenti geometrici e ornamentali delle coreografie di Cindy Van Acker.

 

 

Ma gli specchi – come sapevano bene Lacan, o Lewis Carroll – prima o poi finiscono per scoppiare, o per mostrare anche solo un piccolo dettaglio o un piccolo oggetto che rompe il loro gioco di simmetrie e raddoppiamenti. Le forme bianche delle scenografie si fanno allora sempre più incombenti fino a diventare minacciose: si staccano delle ombre fantasmatiche che sembrano prendere vita propria e l’atto si conclude con una luce che entra verticalmente e che spezza questo eterno riprodursi del Due. Insomma, nel nostro mondo non c’è spazio per queste cosmologie concilianti. La luce non è una promessa accomodante di emancipazione e redenzione. È semmai una forza che brucia e che acceca. 

 

 

Qui Romeo Castellucci decide di prendere definitivamente congedo da quell’abitudine della messa in scena operistica che confina il regista a illustratore di una struttura musicale e drammaturgica data, e compie un gesto radicale di ribaltamento della forma stessa. Già nel primo atto il Singspiele veniva deprivato di tutte le parti in prosa, mettendo in primo piano l’aspetto dell’immagine teatrale rispetto all’intreccio e al contenuto (di fatto non più intellegibile per chi non fosse già a conoscenza del libretto), ma nel secondo atto viene ad aggiungersi una vera e propria nuova parte drammaturgica in prosa, scritta da Claudia Castellucci, che propone una nuova (e straniante) chiave di lettura dell’opera mozartiana. Per guidare un processo di emancipazione e di presa di coscienza soggettiva come quello che vede protagonista Tamino nel secondo atto de Il flauto magico, non c’è bisogno di ingaggiare una guerra tra la luce e l’oscurità, come se l’una fosse esterna all’altra: è necessario semmai abbracciare l’oscurità e renderla parte di sé, come farebbe una madre. Perché l’oscurità non è l’opposto speculare della luce, ma gli è topologicamente interna: è quella che letteralmente la rende possibile. Come dice Marcello Ghilardi sulla scia del Derrida di Memorie di cieco: “nessuno sguardo illumina o svela soltanto, perché al tempo stesso vela, occulta, ottunde. Nessun pensiero, nessun linguaggio dice l’intero, esaurisce la verità del sé e dell’altro, perché ne mostra sempre solo una parte, quella che il suo dire, il suo nominare mette in luce di volta in volta, a partire dal proprio angolo prospettico”. 

 

 

Il percorso di emancipazione o di soggettivazione di Pamino sarà allora guidato non dalle prove d’iniziazione che mostrerebbero la sua capacità di dominio e maestria della luce, ma da quello che questo sguardo “vela, occulta, ottunde”: da ciò che da dentro la luce non si può vedere, proprio perché ne siamo massimamente prossimi. E chi allora è più prossimo alla luce se non chi è consapevole della sua sparizione come una persona non vedente? Chi può essere consapevole della sua potenza se non chi ne è rimasto bruciato fin nell’intimo della carne? Cinque donne cieche e cinque uomini sfigurati dal fuoco faranno da guida in questo percorso di soggettivazione (e diventeranno letteralmente “il corpo” della guida, cioè di Papageno). 

 

Perché ciò che prende corpo in questo splendido e sorprendete Flauto magico è una vera e propria etica del sapere/luce: il problema non sarà più quello di diventare “padroni” della luce per uscire dall’oscurità come vorrebbe Sarastro, ma semmai di esserne abitati dall’interno: di far sì che la luce ci deprivi di ogni pretesa narcisistica sul mondo. Si tratterà non di illuminare l’oscurità, ma di prenderla con sé, come quei corpi che sono stati marchiati dalla luce fin nella propria carne. Si tratterà di “vedere come un cieco”, toccando la luce con le mani. Si tratterà insomma di trovare una forma soggettiva nuova che sappia prendere sul serio l’inevitabile oscurità a cui la modernità ci ha destinato, non per superarla, ma per “saperci fare” con le sue ineliminabili contraddizioni. 

 

Le recite del Flauto magico con la regia di Romeo Castellucci continuano al Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles fino al 4 ottobre.

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