Indipendenza per la Catalogna?
Già dal primo viaggio a Barcellona un madrileno capisce che è giunto in un’altra cultura. Era come trovarsi in Francia – ho pensato la prima volta che ci sono andata, nei primi anni settanta, camminando per i grandi viali della capitale catalana in un’atmosfera tutta europea – una città con dimensioni di apertura a un mondo che non solo dava sul mare e riportava a un ricco medievo, ma anche ricca di scrittori in una lingua brillante, dove l’urbanistica del Piano Cerdà mostrava un modello accogliente e egualitario di città, con architetture liberty e interventi di contemporaneità davvero notevoli. Poi c’era il grande Miró e, per la prima volta, tanti Picasso. Un altro mondo.
Era un altro mondo anche nella vita quotidiana, abitudini diverse, diversi orari, diversi negozi. Un esempio banale: a Madrid si erano appena inaugurati con grande successo ben 5 o 6 VIPS, locali del tipo drugstore che rimanevano aperti fino alle tre di notte con ristorante cafetería dove prendere anche uno spuntino, una rifornita libreria con una sezione non trascurabile di saldi di piccoli editori, titoli esauriti o pubblicazioni rare, una grande offerta di dischi e video, anche oggetti di regalo e la più assortita edicola della città. Un grande successo per una città abituata alla vita notturna. A Barcellona, cosa strana, invece c’era solo un VIPS, e inoltre, neanche tanto frequentato. Questo faceva pensare al seny catalano a una sorta di sensatezza, di serietà vincolata alla religione del lavoro, sempre in onore della prosperità, frutto di una borghesia nata insieme a quelle europee con lo sviluppo delle città, una realtà che invece non c’era stata nella capitale spagnola. Da madrilena infatti, la prima cosa che salta alla vista è che Barcellona si vuol bene e che contrariamente a quanto succede a Madrid i suoi abitanti si sentono orgogliosi della loro città.
Questo non significa che dal primo sguardo a Barcellona non si vedessero anche la zone oscure di questo benessere. Avendo letto con grande predilezione Juan Marsé, si capiva come fosse la vita nei quartieri dei charnegos, i numerosi lavoratori immigrati, andalusi o extremeños esclusi dagli sfavillii di questa esultante catalanità. Últimas tardes con Teresa è il paradigma di quella frattura.
Ciò nonostante, si lottava per l’autonomia catalana. Il processo autonomista che tutti noi antifranchisti volevamo – si gridava in ogni manifestazione “Libertad, amnistía, estatuto autonomía” – con l’arrivo della democrazia si è ingrandito a tutte le regioni spagnole. Non volendo fare una differenza con i Paesi Baschi e la Catalogna nei confronti del resto delle regioni, si sono conformati ben 17 governi autonomi con i relativi parlamenti, ai quali si sono trasferite quasi tutte le competenze, incluse sanità e istruzione pubblica: la storia degli ultimi quarant’anni.
L’indipendentismo che ora proclama il governo catalano come soluzione alle proprie specificità non riconosciute allora, è perciò sostenuto da una gran parte della società, inclusi i figli dei charnegos ormai catalani di cuore e di lingua. Come spiega il comparatista e critico Jordi Llovet, è il momento di applicare il multiculturalismo e perciò anche la prospettiva catalana ai dati di fatto canonici e alla loro resistenza che hanno caratterizzato la storia raccontata fin ora. Sarebbe l’occasione di rileggere il vecchio castigliano Unamuno alla luce dell’amicizia con il poeta e intellettuate catalano Joan Maragall, vale a dire ripensare la relazione tra la Spagna e la Catalogna da una prospettiva integratrice delle loro realtà. Interessante perciò leggere oggi il loro carteggio (curato da Carles Bastons, Miguel de Unamuno y Joan Maragall, una amistad paradigmática, Milenio, Lleida, 2006), perché parla di autentica convergenza nella diversità.
Ma il presidente catalano Artur Mas e i suoi alleati di governo, invece, insistono solo sul fatto che il catalanismo va capito solo in quanto parte offesa; ma in tal modo, come spiega Lluís Bassets, la sfida indipendentista che ora lanciano non è nient'altro che un ulteriore passo in una corsa piena di errori, dove non meno sbagliata è la posizione sostenuta dal Partido Popular e da coloro che hanno bandito una votazione popolare contro il nuovo Statuto catalano redatto nel 2006 con Zapatero al governo, o hanno istigato il boicottaggio ai prodotti catalani, con Aznar in testa, in un atteggiamento nazionalistico spagnolo che ora Rajoy mantiene.
Conservare posizioni di scontro nutrite da passioni facilmente manipolabili, soprattutto in tempi di crisi e di tagli clamorosi nei servizi essenziali di sanità o di contributi sociali ai più vulnerabili, è una strategia vantagiosa. Meglio tenere saldo perciò un discorso infiammato che rivedere le posizioni di un federalismo che proponga il modello di “nazione di nazioni”. Solo il dialogo e la disponibilità a venire a patti porterebbe a una soluzione del problema.
I gesti di Mas e soci contribuiscono invece a riscaldare le passioni. Significativi a questo proposito la recente lettera ai leader europei o il convegno organizzato dall’Institut de Studis Catalans, dipendente del governo catalano il cui titolo è «Espanya contra Catalunya. Una mirada històrica 1714-2014», oppure ancora la cosiddetta Via catalana, cioè la catena umana per l’indipendentismo che lo scorso 11 settembre (giorno conosciuto come la Diada che commemora la presa di Barcellona nel 1714 nella guerra di sucessione che ha portato il Borbone Filippo V in Spagna abolendo le istituzioni catalane) ha attraversato la Catalogna da nord a sud per 400 chilometri, e infine, la notizia della possibile referendum che si vorrebbe indire il 9 novembre 2014 chiedendo ai catalani: “Vuole che la Catalogna sia uno Stato?”, e se sì, “Vuole che sia uno Stato indipendente?”. In fondo, niente a che vedere con il pragmatismo scozzese che nel bandire il referendum per l’indipendenza dal Regno Unito, lo ha accompagnato con una spiegazione chiara delle conseguenze che questa comporterebbe.
Mantenere una tensione antispagnola e anticatalana, nazionalista spagnola e nazionalista catalana, non giova. Di discorsi infiammati ne abbiamo avuti fin troppi, e qui a Madrid, di recente, sono passati agli atti: lo stesso 11 settembre, nella sede della Generalitat – felicemente insediata nel sinistro palazzo della strada di Alcalá, sede del Movimiento Nacional franchista – è entrato un gruppo di estrema destra con bandiere anticostituzionali e ha interrotto l’atto commemorativo della Diada rompendo vetrine e spargendo gas lacrimogeno.
Di fronte a queste provocazioni, occorre il seny catalano, non la congerie di gesti che Mas sta compiendo e la mancanza di dibattito che stanno nascondendo il fondo della questione. Il vero proposito dei banditori del referendum, era invece chiaro dall'inizio del processo, come si legge dal promemoria redatto dagli esperti assesori di Mas: “Sarebbe assurdo concepire questa indipendenza come una scissione dalla Spagna” perché, “come si deduce dalle manifestazioni esplicite e maggioritarie degli attori pubblici e privati intervenuti nel processo, c’è una volontà esplicita di rinforzare i vincoli storici e attuali, collettivi e personali che esistono tra i due territori”.
Parole che sono state scritte prima dell’inizio delle più recenti contrapposizioni. Parole che, speriamo, saranno riprese quando si riassesteranno le conseguenze delle mosse delle due posizioni, che purtroppo, invece, si preannunciano sempre più litigiose e chiuse su se stesse.