Costruire la vita con le immagini: Lee Miller e Inge Morath
In apparenza non c’è alcun legame fra Lee Miller e Inge Morath, se non che alle due fotografe, nate a distanza di circa vent’anni, l’una austriaca cresciuta in una famiglia di scienziati e l’altra americana con la passione per Parigi, sono dedicate due mostre, la prima a Bologna, a Palazzo Pallavicini (Surrealist Lee Miller), l’altra a Treviso presso la Casa dei Carraresi (Inge Morath, La vita. La fotografia). Non sono le uniche mostre, in Italia, in cui protagoniste sono delle fotografe: Berenice Abbott a Lecco, Eve Arnold ad Abano Terme, Tina Modotti (conclusa una mostra da poco a Parma, se ne aprirà un’altra a Jesi), mentre a Milano, presso i Frigoriferi Milanesi, “Il soggetto imprevisto” celebra un periodo in cui l’arte e il femminismo dialogano intensamente; il Brescia Photo Festival è interamente dedicato alle donne, mentre a Venezia Letizia Battaglia viene celebrata, finalmente, non più solo come fotografa della mafia.
Cosa sta accadendo? Si tratta soltanto di una tendenza à la page, o la domanda che si pose nel 1971 Linda Nochlin, “perché non ci sono state grandi artiste?”, torna ad abitare i dubbi di critici e curatori? Le risposte meriterebbero uno spazio a sé. Per ciò che riguarda, invece, Inge Morath e Lee Miller, la prima cosa da dire è che non sono affatto sconosciute e che hanno incarnato un modello di new woman, emancipata e consapevole, quasi una risposta al mito della donna musa, isterica o femme-enfant che si era moltiplicata nelle opere dei surrealisti: La femme 100/sans tête(s) e La Poupée di Hans Bellmer ad esempio, o che veniva celebrata ossessivamente, unica dea folle, seppur mantenuta a distanza, come la Nadja di André Breton.
L’intervallo temporale che le separa, un ventennio quasi, segna anche una sorta di linea immaginaria che distingue le loro vite da ciò che hanno ritratto. Inge Morath non fotografa la Seconda guerra mondiale e i suoi drammi, mentre Lee Miller finirà risucchiata proprio nel nero di quel vortice temporale e l’esperienza da lei vissuta sui fronti di guerra inghiottirà per sempre le sue fotografie e lei stessa sino all’oblio. L’ultima foto di Inge Morath è un autoritratto che sembra esprimere la volontà di restare innanzitutto dentro il suo sguardo. Se la prima si perderà metaforicamente nel pozzetto della sua Rolleiflex, la seconda riuscirà a sopravvivere all’obiettivo della sua Leica.
Iniziamo da Lee Miller, o meglio da un’opera d’arte che la rappresenta. Un metronomo che non scandisce solo il tempo, ma lo inghiotte, così come il tempo ha inghiottito la fotografa. Nel 1932 Man Ray ritaglia un occhio di Lee da una fotografia e lo colloca alla sommità dell’asta di un metronomo. Si intitola Objet à détruire. Sul retro di questo oggetto, la cui realizzazione risale al 1928, egli scrive: “Legenda: ritagliare l’occhio dal ritratto di una persona che si è amata ma non si vede più. Attaccare l’occhio al pendolo di un metronomo e regolare il peso secondo il tempo desiderato. Farlo andare fino al limite di resistenza meccanica. Con una martellata ben assestata cercare di distruggere il tutto in un solo colpo”.
Non accade. Lee Miller lo lascia e torna a New York dove apre uno studio e inizia la sua nuova vita da fotografa indipendente. Nata a Poughkeepsie il 23 aprile 1907 nello stato di New York, giovanissima diviene una star di Vogue grazie al suo incontro fortuito con Condé Nast, che la salva dall’essere investita sulla Fifth Avenue. Ma tutto questo non le basta. Dopo un primo soggiorno a Parigi nel 1925, ci ritorna nel 1929 con una lettera dell’editore che la raccomanda al fotografo di riferimento di Vogue a Parigi, il barone George Hoyningen-Huene, e con un’altra raccomandazione di Edward Steichen, che la indirizza a Man Ray. Per tre anni, a Parigi, ne sarà la musa, l’amante e la modella.
Lo segue, lo osserva, e impara in fretta, ma se ne distacca sin da subito. Le sue foto non subiscono l’influenza del surrealismo, sebbene nella sua opera siano presenti solarizzazioni, doppie esposizioni e fotomontaggi. Le basta la realtà. Non è forse vero che le fotografie documentarie sono in grado di “produrre degli enigmi visivi” o delle “immagini indovinello”, come le chiamava Breton? O che il loro carattere ambiguo e il senso non immediatamente leggibile insinuano la possibilità di suscitare un dubbio?
Ciò che permane nelle sue fotografie è la convivenza di ordinario e straordinario, di disgusto e perfetta armonia, di forza e fragilità. Quattro topi appollaiati su un’asticella, che sembrano sospesi nel vuoto, come fossero uccelli: Rat Tails (1930), il volto di Man Ray coperto di schiuma da barba, che esprime allo stesso tempo noncuranza e vulnerabilità. Stesse sensazioni espresse in maniera inequivocabile in un’altra immagine del 1942, si intitola Good and bad posture e rappresenta il volto di una donna che sovrasta la sua stessa immagine. Il corpo entra in due bolle di vetro: bad? good? Dov’è il punto in cui lo sguardo si arresta? Non esiste. Tutto è in movimento, tutto è fermo, nel medesimo istante.
Questo non accade solo alle fotografie parigine, realizzate dal 1929 al 1932, considerate più vicine al surrealismo, ma anche a quelle scattate tra il 1932 e il 1934, nella New York alla moda. Basti pensare alla testa fluttuante di Mary Taylor, giovane attrice di Broadway, sospesa nel vuoto – idee in volo o metaforica decapitazione? – , o a quelle scattate in Egitto, dal 1934 al 1939, dove Lee Miller viveva dopo aver sposato Aziz Eloui Bey, un uomo d’affari che si era innamorato di lei. Le dune si trasformano in montagne da percorrere con gli sci, la siccità del deserto sembra un mare ondoso, l’ombra di una piramide si sostituisce a quella reale e nello stesso tempo ne evoca la presenza.
Ma è un altro oggetto a spingerci verso il mistero delle sue foto. Nella sala centrale della mostra ci sono le immagini della guerra e al centro della sala c’è la sua Rolleiflex. Un altro objet à détruire. Anch’essa è oscillante. O meglio il suo funzionamento evoca una oscillazione. Il visore per l’inquadratura, posto nella parte superiore della macchina, rende necessario impugnarla più o meno al centro del corpo, evitando il contatto visivo con il soggetto, anche se, proprio per il fatto che si può inquadrare dall’alto, lasciando libero lo sguardo del fotografo, è possibile entrare in connessione con chi viene fotografato. Si guarda senza essere visti. E quindi cosa prevale: prossimità o distanza?
C’è anche un’altra cosa. Un ulteriore movimento. Guardare dentro il pozzetto della Rollei ricorda il gesto di chi scende in profondità. Il dubbio rimane anche in questo caso: si penetra nel soggetto o dentro se stessi? Nel fondo oscuro del pozzetto della Rollei si rintanano le immagini più drammatiche: un groviglio da cui non verrà più alcuna luce.
Le foto dell’orrore vengono scattate in Germania e precisamente nel campo di concentramento di Dachau, in cui entra il 30 aprile del 1945. Lei è la prima americana a varcare la soglia di un lager. David E. Scherman, amico e fotografo di Life, è al suo fianco. Scatta incessantemente: cataste di cadaveri, treni che trasportavano i condannati, forni crematori con i resti dei corpi. Il nostro sguardo corre lungo le pareti. Si resta sempre increduli. E poi tutto si arresta di nuovo. I nostri occhi si spingono con la fotografa dentro un canale di scolo a Dachau. Ci galleggia il corpo di un soldato tedesco. È di fianco, come se dormisse. Lee Miller racconta che il canale era pieno di SS con tute mimetiche e stivali borchiati, cani morti e fucili rotti. L’acqua lo accoglie, e allo stesso tempo ne lambisce il corpo come un sudario. Non importa se le fotografie non possono dire tutta la verità, se sono lacunose e impotenti, qui la fotografa riesce a prendere di mira l’inimmaginabile, a confutarlo in maniera lacerante, attraverso il conflitto tra l’orrore e la pietà nei confronti del nemico, raffigurato nel momento della sua vulnerabilità più estrema. Tutto è sospeso, come accade in un’altra foto.
Non è di Lee Miller, ma è l’immagine che immediatamente si associa alla sua storia. Forse è la sua foto più famosa. Viene scattata da David E. Scherman nell’appartamento di Hitler a Monaco, che solo poche ore prima era stato preso dall’esercito americano come luogo deputato alla comunicazione. Lee abbandona i suoi anfibi militari, si immerge nella vasca da bagno, il posto più impuro d’Europa, e con un gesto liberatorio ne inverte la polarità: la sua bellezza purifica quel luogo e nello stesso tempo, nel tempio dell’orrore, compie il gesto di liberarsi per un istante dal dolore che, nel cuore dell’Europa, ha inghiottito il suo sguardo.
Si percepisce la convivenza tra ethos e pathos, puro stato affettivo e possibilità dell’azione. Un’altra oscillazione. Qui sembra che la sua celebre frase: “preferisco fare una foto che essere una foto”, venga messa in discussione dalla stessa fotografa. Essere e fare si confondono. Il soggetto, la fotografa, si sovrappone all’oggetto, o meglio si sdoppia nell’oggetto, poiché in questo tempo e in questo spazio, essere una foto è più importante che farla.
Sta qui la dimensione contemporanea delle sue immagini. Tanto le fotografie parigine, quanto quelle di moda o di guerra, non sono solo immagini di guerra o di moda, ma rappresentano il fondo oscuro di un’indecidibilità. L’objet à détruire sopravvive. Lo sguardo continua a oscillare. Ciò che resta dinnanzi a noi non ha tempo, come non ha una risposta. Le immagini di Lee Miller rappresentano la manifestazione di una forma che è innanzitutto la forma di un dilemma, qualcosa di inarticolabile, che resiste ad ogni definizione. Le sue fotografie producono un segno che va al di là di se stesso e, per questo, oltrepassano i confini del loro tempo. Tutto è instabile, come l’illusione di una coincidenza perfetta tra il tempo della fotografia e quello dell’evento da cui essa trae la sua esistenza.
Dall’in-decidibilità il passo successivo è quello dell’in-dicibilità. Dopo aver fotografato Dachau, Lee Miller intraprende un viaggio nell’Europa devastata dai totalitarismi. Ha tanti volti: un bambino morente in un ospedale pediatrico privo di medicine a Vienna, László Bardossy, l’ex primo ministro fascista ungherese davanti al plotone d’esecuzione a Budapest nel 1946, e poi verso la Romania, alla ricerca di Harry Brauner, che si era salvato da anni di prigionia e che Lee fotografa mentre registra la canzone di una famosa cantante popolare. Da qui in poi il mondo che la circonda entra solo marginalmente nel suo obiettivo. Tutto si è perduto negli anni della guerra e di questo suo ultimo viaggio. L’indicibilità dell’immagine assurge ora a simbolo di una violenza che ha spazzato via ogni traccia di civiltà, insieme allo splendore ermetico delle sue immagini. E alla sua vita.
Diventa madre nel 1947 e si trasferisce in una fattoria, Farleys Farm, nell’Est Sussex, meta di amici e artisti, che fotografa. Working Guests è l’ultimo articolo per Vogue e il penultimo della sua vita: l’esaltazione dei tempi della guerra è irripetibile. Si appassiona alla cucina, verso cui sembra poter far confluire la sua carica creativa e con la quale cerca di contrastare il declino psichico e fisico, dovuto anche all’abuso di alcol. Lentamente smette di fotografare. Muore nel luglio del 1977. Le parole dell’amico Roy Edwards, che le dedica una poesia intitolata “Lee e le fotografie”, sembrano condensare in poche righe i conflitti che hanno attraversato la sua esistenza:
“lei volta la testa
a sedurre specchio e obiettivo
(…)
lei volta la testa
giorno e notte si danno appuntamento sulla sua nuca”.
Per Inge Morath costruire la propria vita con le immagini è un processo meno drammatico. Nasce a Graz in Austria nel 1923. I genitori sono scienziati, cresce in un ambiente colto e intellettuale, fatto di buone letture, viaggi e studi. Studia lingue romanze all’università di Berlino e ama viaggiare. Non teme barriere culturali o linguistiche. Nel corso della sua vita giungerà a parlare sette lingue. Due sono i documenti esposti in mostra che circoscrivono la sua lunga attività da fotografa: un breve dattiloscritto in tedesco e l’elenco della sua attrezzatura, per un viaggio negli Stati Uniti all’Europa, nella primavera del 1978, redatta dall’agenzia Magnum.
Nel foglio senza data Inge Morath descrive la storia del suo primo rullino sviluppato a Venezia. Il tono dimesso riduce tutto il discorso fotografico a pochi gesti: la giusta combinazione tra esposizione e diaframma, una buona messa a fuoco, il pulsante di scatto pronto a catturare il soggetto giusto che entra nel posto giusto. A quel punto scrive: “devo diventare una fotografa”.
Tra il 1945 e il 1947 lavora per il Servizio d’informazioni americano come redattrice e traduttrice, prima nell’ufficio di Salisburgo e poi a Vienna. Dal 1948 fa la reporter per Heute e inizia a collaborare con il fotografo Ernst Haas. Lavora come traduttrice e giornalista. La mostra di Treviso è estremamente dettagliata: ci sono molte fotografie che testimoniano i suoi viaggi, gli incontri, una linea del tempo visiva che corre parallela a quella stampata sulla parete. Il reportage che pubblica insieme ad Haas nel 1949, dedicato ai prigionieri austriaci di ritorno dai campi di prigionia russi, viene riproposto anche sulla rivista Life.
E questo attira l’attenzione di Robert Capa che li invita ad unirsi alla neonata agenzia Magnum a Parigi, Haas come fotografo e Morath come ricercatrice e redattrice. Da qui il passo è breve. Nel 1953 Inge realizza il suo primo reportage intitolato “Preti lavoratori”, ed entra a far parte dell’agenzia come membro associato. Tra il 1953 e il 1954 avviene un altro incontro importante: Henri Cartier-Bresson, che accompagna nel 1960, per diciotto giorni, in un viaggio in auto che li porta da New York a Reno, nel Nevada, sul set di Gli Spostati, con Marilyn Monroe e Clarke Gable. Qui scatta uno dei suoi più bei ritratti: una Marilyn quasi scomposta che da sola, lontana dal set, esegue dei passi di danza, e conosce lo scrittore e drammaturgo Arthur Miller, sceneggiatore della pellicola, che diventerà suo marito.
Negli anni seguenti viaggia in Europa, Nord Africa e Medio Oriente. Ritrarre, scrivere e fotografare significa stendere una linea. Una lunga linea che non conosce interruzioni: Cina, Russia, Austria, Regno Unito e Irlanda, Romania, Francia, Stati Uniti, Iran, Spagna, dove nel 1960, riesce a immortalare Lola, la sorella di Pablo Picasso, e l’avvocatessa Doña Mercedes Formica, la quale si batteva per i diritti delle donne nella Spagna della dittatura franchista.
Volti che seguono altri volti: tantissimi artisti (Henri Moore, Jean Arp, Pablo Picasso), scrittori (André Malraux, Doris Lessing, Philip Roth) ma anche gente comune. O interi paesi, come accade con il viaggio in Russia, insieme ad Arthur Miller, alla ricerca dei grandi romanzieri ottocenteschi e dell’anima russa, che poi finiscono nelle pagine dei suoi numerosi libri. La foto-grafia viene intesa come atto di scrittura, ovvero nella sua componente di azione e movimento. In termini fotografici si direbbe sviluppo, l’operazione che rivela ciò che è, ma che non appare ancora. Ma c’è di più: l’idea che accanto ad ogni immagine sviluppata sopravviva un’immagine latente.
E questo lo si comprende quando si osservano i suoi ritratti. Tra l’immagine di Marilyn Monroe e quella di un lama che si sporge dal finestrino di un taxi nel traffico di New York si collocano le linee e le maschere di Saul Steinberg, fotografate da Inge nel 1958 e poi raccolte nel libro Masquerade. “Nel 1956, finalmente arrivai a New York e Saul Steinberg accettò di incontrarmi e posare per un ritratto. Suonai il campanello e lui uscì con in testa un sacchetto di carta sul quale aveva disegnato un autoritratto”, racconta la fotografa.
I disegni del famoso illustratore sono ritratti, ed il ritratto, che nel suo senso ordinario designa la rappresentazione di una persona, in particolare del suo volto, e in senso più ampio, figurazione, iscrizione o incisione, si volge verso la sostituzione del disegno alla cosa disegnata. La pittrice Hedda Sterne, moglie di Saul Steinberg, sollevava l'una o l'altra maschera di gatto, inclinando leggermente la testa di lato come fanno i gatti quando ascoltano, si appuntava un fiocco di velluto nero sulla nuca e diventava una gatta che sembrava una ragazza, o una ragazza che impersonava una gattina. Allo stesso modo le fotografie di Inge Moraht si sovrappongono al soggetto rappresentato. Sono facies, figure, ma anche cose “fatte”, pagine di un libro. Superfici, narrazioni, storie.
Il ritratto racconta i loro volti. Ne rivela l’essenza. Proprio come la notorietà, anche la “palpitazione intima” chiede di essere figurata. L’esteriorità perché “partecipa a una proiezione e a una simbolizzazione; l’intimità, perché si sottrae essenzialmente all’esteriorità della forma e dell’esposizione”. Ma entrambe sono necessarie, anche se sembra che si escludano: “l’intimità vuole essere segnalata, riconosciuta per essere rispettata; la notorietà vuole che la si intuisca abitata da un segreto”, scrive Jean-Luc Nancy, nel suo saggio L’altro ritratto. Questa tensione insondabile è ciò che il ritratto attraversa ed espone: “Rendere visibile l’invisibile”.
E il mezzo per ottenere questo segreto è la tenacia di uno sguardo che si aggrappa al soggetto, come un oggetto desiderato che si vuole immortalare senza tregua. Philip Roth esprimeva quasi la medesima idea, pensando a se stesso nella foto scattata da Inge e insieme al volto della fotografa: “Inge Morath è il voyeur più attraente, vivace e apparentemente inoffensivo che conosca. Se sei uno dei soggetti che vuole fotografare, senza quasi accorgertene, appena abbassi la guardia, lei afferra il tuo segreto prima che possa essere troppo tardi”. Lo stesso pensava Warren Trabant che per primo l’assunse come giornalista: “Aveva gli occhi più brillanti e intelligenti che avessi mai visto”. E infine lei stessa su di sé: “cerco di esprimere le cose che voglio dire, dando loro forma attraverso i miei occhi”. “La chiusura dell’otturatore è un momento di gioia, paragonabile alla felicità di un bambino” diceva la fotografa. E proprio come quello di un bambino il suo sguardo è insistente.
La gioia di scattare coincide con la parte oscura, il suo vorace voyeurismo. Inge Morath desidera e scatta. E questo desiderio si spinge oltre la fotografia, poiché la pulsione scopica, ovvero l’irrefrenabile impulso a vedere, coincide con il suo desiderio di conoscenza.
Le sue immagini nascono qui. “Prima di buttarmi su un progetto, voglio conoscere il contesto, immergermi nella civiltà in cui mi devo muovere e conoscere almeno i rudimenti della lingua. In quel momento riesco ad arrivare con grande libertà a quello che Henri Cartier-Bresson definisce l’atteggiamento decisivo del fotografo: scattare la fotografia con un occhio ben aperto, che osserva il mondo attraverso il mirino, mentre l’altro è chiuso e scruta nella sua anima”, racconta Inge. Non è un caso che la mostra si apra con un autoritratto scattato in Israele nel 1958 dove si vede il volto della fotografa accostato alla sua fotocamera e si chiuda con la foto di una foto: il medesimo autoritratto sul quale Inge appoggia una pianticella secca da cui spuntano i suoi occhi vivaci.
Un congedo, si potrebbe dire. Molto diverso da quello di Lee Miller, che invece aveva sepolto i suoi occhi e se stessa dentro il fondo oscuro della guerra e della sua Rolleiflex. Ciò che resta è la consapevolezza che la fotocamera, per entrambe, è stata l’interlocutrice privilegiata con cui rappresentare la propria visione del mondo, oscillatoria, indecidibile, drammatica, per Lee Miller e vorace, gioiosa e insistente per Inge Morath. Sapere, vedere, conoscere, ha coinciso con l’atto di fotografare, e l’atto di fotografare ha permesso loro di appropriarsi del mondo. È questo che per ciascuna ha significato costruire la propria vita con le immagini.
Mostre:
Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, Bologna, 14 marzo – 9 giugno 2019.
Inge Morath. La vita. La fotografia, Casa dei Carraresi, Treviso, 28 febbraio – 9 giugno 2019.