La Vegetazione come agente politico

3 Settembre 2014

Il modo in cui oggi si fa esperienza del mondo vegetale è ancora legato all’ordine di discorso che si apre con le scienze naturali. Il metodo scientifico moderno, che nelle scienze naturali ha trovato il primo campo di applicazione, è caratterizzato da una ricerca di costanti e leggi con le quali ridurre e catturare la molteplicità del reale, dal dominio del quantitativo sul qualitativo e dalla costruzione di un apparato di senso normativo e necessitante. Nate in contemporanea all’emergere del capitalismo e all’accumulazione originaria, le scienze naturali agiscono per classificazione e distinzione (seguendo le cartesiane idee chiare e distinte), sono vere e proprie scienze del dominio, precondizione per l’utilizzabilità generale del reale da parte del soggetto borghese moderno. La botanica in particolare si è rivelata un sapere importante per l’organizzazione delle piantagioni all’interno del sistema coloniale, a partire dal XVII secolo quando si ridefinirono nuovi sistemi di controllo e tecniche di sfruttamento per il monopolio delle spezie. Con l’avanzare dello sviluppo capitalistico, il metodo scientifico è stato progressivamente applicato anche ai rapporti sociali e alla dimensione soggettiva con l’obbiettivo di eliminare il potenziale di trasformazione insito nella dimensione storica.


La posta in gioco politica di Vegetation as a political agent (mostra a cura di Marco Scotini presso il PAV di Torino) muove esattamente verso una direzione opposta. Quello che si tenta di fare è storicizzare il mondo vegetale, facendo apparire le forze politiche che attraversano una pianta. L’obbiettivo è restituire una storia sociale a un ambito presunto spontaneo come quello naturale, mettendo a punto un metodo archeologico per la vegetazione, ora contesa tra le nuove gerarchie tecnocratiche e i nuovi bisogni di vita e di ambiente. Il tipo di sapere sul mondo vegetale che questa mostra rende visibile è quindi “un aldilà del pensiero scientifico (..): si tratta di una comprensione della lotta, e non più della legge. ‘Noi non riconosciamo altra scienza che la scienza della storia’, dice L’Ideologia tedesca”.

 


I due luoghi su cui si articola l’esposizione sono emblema dei due paradigmi che innestano sulla vegetazione dei regimi discorsivi totalmente antagonistici. Da una parte il paradigma scientifico classificatorio, simbolo del progetto imperiale dell’uomo bianco, trova in questo caso la sua sede naturale nell’Orto Botanico dell’Università di Torino, già attivo nel settecento come laboratorio universitario. Carlo Allioni che lo dirigeva era in diretto contatto con il botanico Linneo (come dimostrano i numerosi documenti esposti nella mostra), da cui importava i sistemi di classificazione delle piante. Al contrario il PAV, centro di sperimentazione sul vivente e sul vegetale fondato nel 2002 da Piero Gilardi, incarna il paradigma estetico teorizzato da Felix Guattari, finalizzato a ri-singolarizzare e declinare in senso qualitativo la produzione sociale e le forme del sapere.


La mostra sviluppa e riunisce rizomaticamente interventi artistici e architettonici, illustrazioni e campioni scientifici, documenti d’archivio, contributi letterari e filmici prodotti in una grande varietà di contesti culturali e sociali.


È proprio un’opera di Piero Gilardi ad aprire l’esposizione al PAV. Si tratta di tre sagome di pannocchie di mais in gommapiuma disposte su tre manichini che reggono uno striscione con una scritta che dà il titolo all’opera O.G.M. Free. L’immagine caricaturale della pannocchia, antropizzata nel riportare dei macro fori in corrispondenza degli occhi, del naso e della bocca, è quella di un elemento vegetale agguerrito e incattivito che combatte contro l’impiego in agricoltura degli O.g.m. Lo sguardo minaccioso della pannocchia suggerisce come l’uso di O.g.m. possa alterare in maniera irreversibile lo stato naturale del mais stesso, compromettendone la riproducibilità e minando l’eterogeneità di diverse qualità a favore di prodotti agricoli resistenti ai diserbanti chimici e agli infestanti biologici. L’opera, che riproduce dei costumi utilizzati nelle performance urbane del teatro politico di strada, si inserisce in quel percorso di un uso rivoluzionario della creatività, che vede l’artista torinese impegnato nelle lotte autonome dagli anni ’70.

 


L’uso artistico della vegetazione nelle forme di disobbedienza sociale è una costante della mostra, evidente ad esempio nella riproduzione del murales che Emory Douglas ha disegnato quest’anno al Caracol Morelia in Chapas, in occasione dell’Escuelita che celebrava i vent’anni della rivoluzione zapatista. L’ex ministro della cultura del Black Panter’s Party ha voluto sottolineare la continuità della lotta zapatiste e dell’esperienza rivoluzionaria delle pantere nere, ridefinendo però simbolicamente gli strumenti d’emancipazione. La pannocchia di granoturco, impugnata al posto del fucile, diventa un’arma della resistenza indigena contro le monoculture imperiali e il simbolo dell’autonomia zapatista.


L’importanza dell’immaginario simbolico collettivo nelle esperienze di liberazione è più volte sottolineata nella mostra, che interroga anche i rapporti tra l’agronomia e la storia dei movimenti popolari. Significativo a riguardo è il cortometraggio Conakry della filmmaker portoghese Filipa César. Parte del progetto Luta ca caba inda (“la lotta non è ancora finita”), il film rivisita il paesaggio delle lotte di liberazione della Guinea Bissau. Riprendendo immagini d’archivio degli anni ’70 del Conakry Congress al Palais du Peuple, il video accosta una riflessione sull’archivio alla lettura soggettiva delle immagini, interrogando il loro ruolo all’interno della lotta contro la colonizzazione. Il cortometraggio prende il nome dal luogo dell’assassinio di Amilcare Cabral, agronomo e rivoluzionario Guineense che lottò nei movimenti di liberazione della Guinea-Bissau e di Capo verde e di cui la mostra ospita alcuni documenti. Amilcare Cabral, collaborando con la scuola cubana di cinema, introdusse in Guinea Bissau il cinema politico, che concepiva come un fondamentale strumento di liberazione e di costruzione di un immaginario collettivo. La sua figura è al centro del progetto Luta ca caba inda, che vuole ricercare le origini della produzione cinematografica nelle ex colonie portoghesi.  L’opera di César si inserisce quindi in quella riflessione su un uso non contemplativo dell’archivio e sull’insorgenza delle memorie ridefinite in quanto mezzo di trasformazione e di lotta contro l’espropriazione capitalistica del tempo, aperta da Marco Scotini nel volume collettivo Politiche della memoria, da lui curato.

 


Il tema dell’eco-attivismo è al centro delle ricerche di Gediminas e Nomeda Urbonas, uno strumento di ricerca interdisciplinare che promuove pratiche di riappropriazione dello spazio pubblico, ripensando l’immaginazione politica e culturale come strumenti di trasformazione sociale. In questa mostra sono presenti due film prodotti nel 2011 dal collettivo. An Interview: Mel King, un’intervista a Mel King – un insegnante, attivista sociale, scrittore e Professore Emerito al MIT, nella quale il militante afroamericano affronta tra gli altri i temi della disobbedienza civile, delle coltivazioni comuni e racconta l’esperienza della prima tendopoli costruita nel 1968 per contestare la costruzione di un parcheggio nella piazza del quartiere nel quartiere South End di Boston. Nel secondo film prodotto da Urbonas Studio, Julie Kepes Stone. BUG: Boston Urban Gardens, Julie Kepes Stone, artista e attivista, figlia di Georgy Kepes, conduce diversi tour per esplorare la storia degli orti comunitari a Boston come siti di resistenza contro l’avanzamento della privatizzazione delle risorse della città. Molti degli orti di Boston sono il risultato di lotte popolari per il controllo degli appezzamenti terrieri comunitari e per la sicurezza del cibo. Quali siti di intensa cooperazione, gli orti comunitari possono essere considerati come esperienze di esercizio di nuove forme di solidarietà sociale, auto-organizzazione politica e consapevolezza ecologica, e come pratiche di profanazione e restituzione all’uso dello spazio urbano in opposizione alle dinamiche di esposizione, sottrazione e mercificazione del suolo.


Il tema degli orti urbani come pratiche di resistenza è ripreso nei progetti di Marjetica Potrc. L’artista slovena da sempre impegnata in processi partecipativi, ha creato un orto comunitario autorganizzato e un parco pubblico a Soweto in Sudafrica. Gli orti e il parco, progettato in maniera autogestita insieme alle comunità locali diventano un esempio di spazio comune al difuori delle divisioni tra spazio pubblico e privato e un luogo di produzione di nuovi processi di soggettivazione. Se la piantagione dominava l’organizzazione dello spazio nel Sudafrica schiavista, gli orti comuni diventano un modello di spazio comunitario per la società post- apartheid.

Vegetation as a political agent ospita anche i progetti dei pionieristici esperimenti del rapporto tra arte e agricoltura negli anni ’70. Ad esempio, le foto che documentano i peculiari progetti agricoli dell’ungherese Imre Bukta che si autodefiniva artista agronomo. I progetti in questione, che lavorano con assemblaggi di elementi differenti, rappresentano una riflessione sugli strati sociali emersi in quella che egli chiama la mescolanza post-rurale della campagna ungherese sovietica. Sotto l’opposta polarità della guerra fredda muovevano i lavori della la californiana Bonnie Ora Sherk fondatrice nel ’74 a San Francisco della fattoria Crossroad Community, il primo esperimento di Alternative Art Spaces negli Stati Uniti. The Farm è una casa per animali da allevamento, un centro comunitario, una scuola senza pareti, un teatro umano e animale, pensato per creare un modello di vita radicale a carattere ecologico. Come afferma Sherk: “The Farm è un’opera d’arte sociale. Penso ad essa come ad una scultura ambientale performativa su scala esistenziale caratterizzata da una stratificazione di significati, metafore e situazioni reali”.

 



L’attenzione nei confronti di pratiche estetiche che potremmo chiamare ecosofiche (perché finalizzate ad una creazione di ambiente che implica anche un rivolgimento dei rapporti sociali e delle forme di soggettività), è al centro delle due opere esposte dell’artista italo-libica Adelita HusniBey. La forza dell’innesto della creatività all’interno delle lotte ecologiste risulta evidente in A Treesitting Archive, una riproduzione fotografiche di alcune zine legate al movimento ambientalista anglofono su di un arco di tempo che va dal 1987 al 2004. La creazione di nuove forme comunitarie sperimentali è invece il tema Story of the Heavens and Our Planet, un film al crocevia tra la fiction e il documentario, che riproduce la vita in due campi di protesta treesitting rispettivamente a Tintore e a Stanton Moore nel Regno Unito. Il treesitting, pratica attivista che prevede la costruzione di eco-villaggi sugli alberi per impedire l’abbattimento delle foreste, viene ipotizzato come nuovo modello di socialità in uno scenario post-apocalittico.

A riassumere il senso della mostra è sicuramente l’installazione di RoZo, il laboratorio fondato nel 1998 da gli architetti Philipe Zourgane e da Séverine Roussel, che ripensano l’architettura in quanto strumento di lotta inserendola all’interno di processi di liberazione. Il lavoro dei due architetti si inserisce in una lunga tradizione di studi (dalle ricerche sul panopticon di Foucault, ai lavori sull’urbano di Lefebvre e dei situazionisti) che sottolineano la rilevanza politica dell’organizzazione e della modalità di produzione dello spazio, ed evidenziano gli effetti di soggettivazione prodotti da forme spaziali determinate. Nell’opera presentata al PAV, Quando la vegetazione non è decorazione, vero esempio installazione-saggio, i due architetti intendono sottolineare l’estrema politicità della vegetazione, usata alternativamente come strumento di controllo o di liberazione nel mondo coloniale e post-coloniale. Questa installazione ci mostra, attraverso un trittico, tre utilizzazioni della vegetazione. L’istallazione principale La Sala Verde – La vegetazione è un’arma anticapitalista, che ospita due raccolte di foto d’archivio, è la ricostruzione di uno spazio temporaneo costruito nella Réunion dalle classi popolari durante i 150 anni dalla data dell’abolizione della schiavitù. La struttura, a base di canne di bambù e foglie di cocco, adibita a feste e rituali collettivi delle comunità popolari dell’isola, era costruita collettivamente su dei pezzi di latifondo non coltivati, occupati per l’occasione. Questa pratica (vera e propria t.a.z. ante litteram) è ora minacciata da un uso fortemente capitalistico del suolo e da un capillare controllo poliziesco del territorio.


All’interno della Sala Verde, due raccolte fotografiche sono disposte una di fronte all’altra, evidenziando il diverso uso della vegetazione nei due fronti delle lotte di decolonizzazione.


Da una parte la raccolta Fondersi con la vegetazione. La vegetazione è un’arma anticoloniale, riunisce i fotogrammi d’archivio tratti dal film Chiến thắng Tây Bắc’ (La vittoria del nord ovest) girato nel 1952 dalle forze militari Viet Minh durante la guerra contro l’occupazione francese. La vegetazione diventa un’arma fondamentale nella guerriglia rivoluzionaria teorizzata da Ho Chi Minh e da Mao Tse-Doung. Le immagini mostrano la forza dei guerriglieri che si fanno tutt’uno con il territorio e inventano contro-geografie ed infrastrutture mobili (come i ponti invisibili costruiti in bambù) per rendersi invisibili all’occupante francese


L’altra raccolta La decostruzione del paesaggio dell’indigeno – La vegetazione è un’arma coloniale, riunisce foto d’archivio dell’esercito francese scattate durante la guerra d’Algeria nel 1956 e nel 1958. Le immagini documentano le mietiture compiute dal personale dell’esercito francese, protetto da soldati e da corazzati, per conto dei grandi proprietari coloniali, e mostrano la radicale pianificazione del territorio attraverso la diffusione di monocolture intensive. L’utilizzo del cereale è qui finalizzato anche alla francesizzazione del paesaggio, rendendo gli abitanti stranieri nella propria terra.


Le opere qui descritte insieme alle molte altre raccolte all’interno di Vegetation as a political agent, mostrano la forza e la rottura che questa mostra militante apre all’interno del panorama artistico.


Rifiutando una concezione romantica e contemplativa della natura come eterna e separata, propria ancora a tanta arte verde contemporanea, che scade in un’apologia della green economy, questa mostra vuole sottolineare la profonda coestensione fra la natura e la produzione sociale, e il ruolo fondamentale giocato dalla vegetazione nei processi di trasformazione. Paradigma della ciclicità e della standardizzazione, la vegetazione viene détournata da queste pratiche artistiche come strumento del possibile, aprendo a quella “critica della geografia umana attraverso la quale gli individui e le comunità devono costruire i luoghi e gli avvenimenti corrispondenti all'appropriazione, non più soltanto del loro lavoro, ma della loro storia totale.”
 

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